Il fenomeno australiano delle nubi rotolanti

Tubular Cloud

Ogni anno, per l’intero mese di ottobre e qualche volta fino alla metà di novembre, l’isolata cittadina di Burketown, sita proprio all’apice del più grande golfo settentrionale d’Australia, conosce le voci e la presenza di un certo numero di visitatori estremamente determinati, provenienti da ogni parte del continente e qualche volta, del mondo. La ragione, come avviene per simili luoghi sperduti nei recessi più diversi delle carte nautiche o stradali, non è da ricercarsi in una particolare condizione storica, un anniversario o altra attività ed il sentire dei suoi abitanti, bensì nella forza inarrestabile della natura. Che crea, soltanto in quel periodo e per un certo numero di volte, il fenomeno di un’onda, straordinaria ed altamente caratteristica che per qualcuno, il pellegrino tipo o in altri termini l’esploratore, dovrà necessariamente essere cavalcata, almeno una volta nella vita. È una storia, per così dire, da surfisti. Come quelli che hanno creato, con fatica e grande abilità dimostrativa, il mito della spiaggia di Ghost Trees in California, o ancora della massa d’acqua che si erge regolarmente sopra la scogliera sommersa di Teahupoo a Tahiti, per non parlare della semi-mitica Ours nel Nuovo Galles del Sud, che si affaccia all’altra estremità di questa estesa isola, la maggiore terra emersa d’Oceania. Soltanto che, fra queste citate e tutte le altre simili, questa è un’onda che ha una marcia in più; perché in effetti, piuttosto che correre sopra la superficie dell’oceano, fa lo stesso, ma nel cielo. È una massa d’acqua, volante!
Ma…Ma come? Uno potrebbe chiedersi…Com’è possibile che un qualcosa di comunemente più pesante dell’aria, nonché visibile ad occhio nudo, possa ergersi al di sopra delle cime montane che svettano all’orizzonte dei paesaggi? La spiegazione è in realtà più semplice di quanto potrebbe sembrare, quando si pensa alla fluida trasformazione tra i diversi stati della materia. E la grande onda di Burketown, probabilmente l’avrete già capito, è fatta di vapore umido che il Sole, con la sua costante pressione termica diurna, ha costretto spietatamente a salire, finendo per formare ciò che ha il nome comune di nuvola nel cielo. Un qualcosa di specifico, tuttavia, le cui somiglianze con il nostro quotidiano non tardano ad esaurirsi, vista la forma di un’essenza assai particolare: è come una grande corda, lunga fino a 1000 Km, dello spessore di 1 o 2, che si forma sopra l’acqua e corre rapida in direzione sud, fino a raggiungere la terra e quindi lentamente, molto gradualmente, scomparire. O per usare il nome comune locale, ormai adottato per antonomasia anche nel definire il raro verificarsi di questo stesso fenomeno in altri contesti geografici e meteorologici, una Morning Glory (letteralmente: gloria del mattino). Termine che viene in effetti mutuato dal mondo botanico, e che costituisce incidentalmente l’appellativo anglosassone di tutti quei fiori che sbocciano ed appassiscono in un tempo di sole 24 ore. Non che alle nubi tubolari, a conti fatti, riesca di durare altrettanto.
Ciò perché la tipica nube a forma di tubo, per come ci è dato di comprenderla e nei limitati studi compiuti sull’argomento, parrebbe trarre l’origine da una particolare serie di condizioni, tanto specifiche da essere ormai estremamente note agli abitanti di Burketown: quando l’erba si ricopre di rugiada, nella stagione più calda e che dovrebbe essere totalmente secca (nell’emisfero meridionale, attualmente è estate) quando i frigoriferi trasparenti dei supermercati e dei bar si appannano all’improvviso, e poi addirittura, nel momento in cui gli astanti del beneamato pub locale notano un leggero arricciamento degli angoli dei tavolini in legno compensato della sala principale, allora è l’usanza che si corra tutti fuori, con lo sguardo rivolto verso il cielo e anche possibilmente, telecamere o smartphone. Per tentar di catturare, quello che non può essere toccato con mano. Dargli vita eterna, per lo meno, nell’infallibile memoria di un blocchetto di silicio e bytes.

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Pesce foglia, pesce pietra e pesce aracnide infernale

Cockatoo waspfish

Ora, non è per mettervi paura, pesci. Ma quando sul finire dell’autunno, e pure dopo, tra la sabbia si agita una forma frastagliata nell’Oceano del Pacifico, tra Malesia, Giappone, Indonesia ed Australia, non si tratta esattamente di un residuo vegetale. Che poi tra l’altro, voi sapete anche soltanto vagamente, cosa sia un albero? Avete mai lasciato scivolare il vostro sguardo tra le fronde? Accarezzando nel contempo i nodi di quelle radici cervellotiche o contorte? Per assaggiare poi la ghianda, il frutto, il pomo che determina la gravità, tra l’erba verde come un’alga bioluminescente…Per l’appunto. Fra due cose simili, non potete non comprendere la differenza. L’intenzione, ribadisco, non è indurre in voi timore. Perché lo spavento permanente, fin da quando esiste la catena alimentare è il primo passo di un percorso che può rendere guardinghi. Pericolosa quanto un’arma, eccome, soprattutto per la-parte-che-incombe. Poiché le prede normalmente non si preoccupano, affidandosi al fallimentare istinto. Ma se sapessero, profondamente, la realtà di quel pericolo che incombe, assai probabilmente eviterebbero quegli altri dal risucchio disastroso. Lasciandoli a bocca asciutta, per così dire (Ah! Ah!) Che poi non è tanto scontato, giungere a comprendere la provenienza della soluzione di caccia degli Scorpaenidae, cui appartiene anche la classe di creature che noi del Mediterraneo usiamo definire scorfani, notoriamente brutti eppure, in qualche modo, affascinanti. Passare inosservati non è un tratto che si possa facilmente isolare dal punto di vista evolutivo, a meno che non intervengano fattori di contesto estremamente favorevoli. Nel corso dei secoli e millenni, quando ancora i continenti erano uniti nella loro inarrestabile deriva, gli antenati di questi tremendi nuotatori erano pesci come gli altri, perché chiaramente sulla Terra c’era un singolo tipo di ciascuna cosa: un frutto, un fiore, un verme, un solo artropode camminatore. Poi vagheggiando e galleggiando, si è palesata la questione di quanti più spesso raggiungessero l’età della pensione, vale a dir la senescenza, ovvero quel momento in cui, duplicato il codice biologico verso la prossima generazione, il pesce riceveva il dubbio dono dell’invecchiamento, assieme alla soddisfazione di aver fatto quanto di dovuto (per quanto possa avere un tale sentimento, l’abitante dei primordi umidi e profondi). E quel qualcuno, guarda caso, non riusciva assolutamente a indurre la reazione preventiva di cui sopra, nel nemico: zero tremori, niente brividi, totale indifferenza. Perché sembrava…Qualcosa…Di…Diverso.
Sia chiaro, a questo punto: fra tutti i predatori da imboscata del genere Scorpaeniformes, di cui fa parte come dicevamo la famiglia degli scorfani ma anche quella dei Synanceia, che poi sarebbero i “veri” pesci pietra, non c’è probabilmente un attore maggiormente consumato dell’Ablabys taenianouts, altrimenti detto pesce-vespa-cacatua. Persino il nome può gettare nella confusione. Perché tenta di fare riferimento, con l’uso di una doppia similitudine, ad alcuni aspetti contrastanti dell’animaletto in questione, che per inciso misura attorno ai 15 cm di lunghezza. Il riferimento ai pappagalli, se non fosse già eccessivamente chiaro, deriva dall’osservazione della cresta superiore, in realtà un’unione ininterrotta tra la pinna dorsale e quella caudale, che vista la forma del corpo compresso lateralmente, come spesso avviene in queste specie, non fa che accentuare un certo senso di grazia innata ed energico idrodinamismo. Eppure a conti fatti, ciò è soltanto un’apparenza: l’Ablabys, in effetti, non si muove in modo eccessivamente agile, flessuoso o scattante. Per il semplice fatto che un tale approccio procedurale alla vita sarebbe controproducente alla sua eterna masquerade, fondata sull’apparente cancellazione della propria stessa esistenza.
Così le foglie cadono, e nessuno sa da dove. Agitate delicatamente dall’abissale controparte dei venti, le forti o rapide correnti, e il pesce scivola felice come un granchio, agitandosi soltanto il necessario. A guardarlo, fa un po’ ridere: un colpo di pinna occasionale, poi si adagia giù da un lato, come estremo tentativo di convincimento. Povero pesce, povero anche, chi ci cade. Ma se a questo punto vi fosse venuta voglia di toccarlo, accarezzarlo come uno squamoso barboncino, credo sia giunto il momento di tornare alla questione dei suoi molti nomi: pesce VESPA cacatua. Del genere degli SCORPIONIDI! Si, per dire. Siamo di fronte a un esponente di una delle classi di creature acquatiche più velenose del pianeta.

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L’epica battaglia dei cuochi di cartone

Boxwars

Preparare un pasto per le diverse centinaia di persone presenti alla grande festa campestre di Tallarook, nella parte meridionale dello stato australiano di Victoria, sarebbe già abbastanza complicato senza doversi accontentare di pentole, mestoli, forchette, ciotole ingredienti, forni, padelle, mattarelli e coltelli fatti in spessa cellulosa corrugata, ovvero quello stesso materiale con cui Amazon spedisce le sue cose. Non c’è dunque molto da meravigliarsi, in tali circostanze, che il nervosismo possa crescere fino ad un punto di rottura, con i pluripremiati chef chiamati per l’occasione (già vincitori di molti confronti precedenti) che finiscono per sottrarsi le risorse a vicenda, in un crescendo di reciproci dispetti che ben presto sfocia, come spesso capita da queste parti, in una zuffa dalle proporzioni cosmiche e spettacolari. La data è lo scorso 8 settembre e questa è la ventunesima edizione del Boxwars, un evento di “creatività e distruzione” patrocinato dall’omonimo comitato di due persone, Hoss & Ross Koger, che l’inventarono nell’ormai distante 2002, nella loro città di Melbourne, fin troppo ricolma d’invitante e splendido cartone. Come del resto, tutte le altre. Il materiale rigido dal costo inferiore al mondo, che fluendo da cartiere in luoghi raramente definiti percorre ogni sentiero a sua disposizione, per giungere in fine, benvoluto o meno, nelle nostre case dallo spazio limitato. In scatole oblunghe oppure cubiche, di molte fogge o dimensioni e poi che fare? Qualcuno lo conserva, colpito dalla sua presenza un tempo funzionale, finché la quantità e l’ingombro superano il mero senso del “un giorno mi servirà”. Altri, più spietati, lo piegano brutalmente su se stesso, poi lo gettano nel cassonetto più vicino. È una legge, essenzialmente, di natura: tutto ciò che può essere riciclato, dovrà fluire, fino ai luoghi di rinascita a vantaggio della collettività. Ma da un punto all’altro di questa filiera, tra una vita e quella successiva, è possibile trovare strade parallele per l’arricchimento degli antichi presupposti. Ciò costituisce, essenzialmente, un simile contesto battagliero.
Una Boxwars, per come è stata definita dai suoi creatori e poi perpetuata dalle sedi periferiche dell’associazione, di cui ce n’è almeno una in Canada ed un’altra in Inghilterra, ha ben poche regole fondamentali: la prima è che l’evento è assolutamente gratuito ed aperto a tutti, con un incoraggiamento a mettersi comunque in discussione, che si rivolge in particolare a coloro che non hanno esperienze creative precedenti. Poi si vieta l’impiego, per ovvi motivi, di punti metallici, puntine, fascette in materiale plastico o altri sistemi potenzialmente lesivi di rifinitura del costume. Sono ammessi solo colla (a caldo o meno) e scotch. È infine severamente vietato lasciare in giro la propria spazzatura o i “resti” di quanto si era scelto da indossare al termine della battaglia, che per di più si dovrebbe, idealmente, trasportare fino a un punto di raccolta. Viene quindi suggerito un tema. E ce ne sono stati diversi di memorabili, tra cui l’antica Roma, i pirati dei Caraibi, il Medioevo, le automobili mutanti del film Mad Max, la prima e seconda guerra mondiale, l’invasione dei robot… Altre volte, si tratta di concetti più figurativi e fantasiosi, come “la ribellione contro l’ordine costituito” oppure “la rinascita del mondo dalle ceneri della sua fine”. Ma i tre precetti più importanti dell’intera serie di eventi, definiti non a caso leggi, sono i seguenti: 1 – Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te; (ma questa già la sapevamo) 2 – L’unica competizione è nella creatività; 3 – [Massimo] Buon Senso; soprattutto quest’ultimo valore appare fondamentale, in un contesto in cui dozzine di adulti intabarrati si spintonano l’un l’altro, spingendosi a terra vicendevolmente come demoni invasati. Per le ragioni o i pretesti più diversi. Interessante è stata in modo particolare quest’ultima edizione, per la scelta di un tema alquanto inaspettato: una parodia, o riproposizione, del celebre programma di cucina della Tv giapponese Iron Chef (Ryōri no Tetsujin) in cui cuochi di fama si confrontano nella preparazione di pietanze attorno a un ingrediente comune, il quale si è qui rivelato una colossale, spaventosa aragosta marrone…

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È quasi pronta la nave più grande del mondo

FLNG Prelude

Nel mare a largo della grande città sudcoreana di Busan (oltre tre milioni di abitanti) c’è un arcipelago di isole, tra cui la più grande ha nome di Geoje. Disseminato lungo gli spazi affioranti a disposizione, in una serie di insediamenti relativamente indipendenti, si sviluppa l’omonimo centro abitato, ricco di attrattive turistiche e beni storici attentamente preservati, tra cui diverse fortezze delle vecchie dinastie Silla e Joseon. Nonostante questo, nella mente di chi ha conosciuto tali luoghi, niente li caratterizza maggiormente che una singola ed enorme impresa dell’industria moderna: la costruzione di natanti. Perché qui hanno sede le Samsung Heavy Industries, di proprietà del più grande conglomerato coreano, che noi conosciamo pressoché soltanto per l’elettronica di consumo, ma il quale ha in realtà il potere economico, e la capacità produttiva, di una piccola nazione. Doti certamente necessarie, all’apparenza, per l’impresa di creare una spropositata città galleggiante, su progetto della multinazionale olandese Shell, ma con rilevanti partecipazioni dei gruppi INPEX, (17,5%) CPC (5%) e KOGAS (10%). Il suo nome è FLNG Prelude, e dall’ormai distante 2012 in cui ha preso il via la sua effettiva messa in opera, sta sfidando l’immaginazione. Con una lunghezza di 488 metri, supera di molto quella delle portaerei statunitensi di classe Nimitz (331) e addirittura si estende oltre l’altezza degli iconici grattacieli gemelli delle Petronas Towers di Kuala Lumpur (451). Il suo peso a pieno carico inoltre potrà raggiungere le 600.000 tonnellate, circa sei volte quello della portaerei. Questo perché sopra il suo scafo a doppio compartimento, largo 74 metri, troveranno collocazione l’intera serie di macchinari di un impianto per la liquefazione dei gas naturali, utile a comprimerne l’ingombro per il trasporto su scala globale. Un tipo di struttura che normalmente comporta un impatto ambientale assolutamente impossibile da trascurare, mentre questa soluzione offre flessibilità, riduce le possibili tensioni socio-politiche, permette il reimpiego dei macchinari a seguito dell’esaurirsi di un particolare giacimento. Ma soprattutto, è perfetta per essere spostata in quei luoghi ricchi di risorse chimiche a largo delle terre emerse, che ci sono noti ormai da tempo, ma i quali risultavano troppo lontani e quindi impossibili da sfruttare con i metodi convenzionali. In questo, la nave in questione costituisce l’espressione chiara e lampante dell’imminente esaurimento di tutto ciò che abbiamo sfruttato fino ad ora, con l’industria di settore che deve ricorrere a nuovi metodi per irrorare il mercato. È dunque pur sempre possibile che si palesi, nel corso delle prossime generazioni, il classico quanto temuto scenario che vede l’immediata cessazione dell’attuale stato di grazia, in cui tutti si spostano con mezzi di trasporto personali, le città possono permettersi d’illuminarsi per tutta la notte. Ma non tanto presto, non prima dell’esaurimento delle riserve nascoste sotto al bacino di Browse, a 200 Km dalla costa dell’Australia. In tale luogo dovrà essere posizionato, infatti, questo impressionante gigante dei mari, a partire dal giorno del suo imminente completamento, per andare a risucchiarne il prezioso contenuto per un tempo stimato di 20-25 anni.

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