Ogni giorno ad un orario estremamente prevedibile, il più grande e potente impianto di dissalazione noto all’umanità s’innalza deciso sopra i territori densamente abitati delle isole Bermuda. Iniziando l’opera continuativa che gli ha permesso, attraverso i secoli, di costruire i suoi nove campi da golf: fuoco e fiamme, energia possente, di un impianto cosmico finalizzato ad uno scopo. E attratta verso l’alto in poche ore, l’acqua non bevibile del grande oceano inizia a risalire verso i lievi strati dell’atmosfera terrestre. Anelando a quel solenne meccanismo, che nell’arbitraria cognizione prende il nome chiaramente rappresentativo di Astro Mattutino. Semplice, funzionale, risolutivo? Togliere il sale dall’acqua attraverso il sistema del multiplo effetto richiede, dopo tutto, giusto un’alimentazione di fluido termico (S), che cede il suo calore all’acqua di alimento (F) nella camera di alimentazione (EC) per poi condensarsi nuovamente nella successiva camera (EC) mediante l’utilizzo di uno scambiatore (VC). Ma chiedete le minuzie di questo processo all’abitante medio di quest’arcipelago, e lui non saprà dirvi assai probabilmente più dell’uomo o donna media, tra coloro che non operano nel campo tecnico di quel particolare processo della tecnologia civile. Mentre proprio lui o lei, sarà incline a rivelare d’altra parte l’esperienza posseduta nell’area multidisciplinare della costruzione in legno, il posizionamento di pesanti tegole di pietra calcarea e la gestione di massicci serbatoi sotterranei. Quelli utilizzati fin dall’epoca immediatamente successiva scoperta di queste fertili lande, ad opera del navigatore spagnolo Juan de Bermúdez nel 1511, affinché le precipitazioni conseguenti dall’evaporazione atmosferica non andassero tragicamente sprecate.
Molti nelle isole Bermuda senza laghi e senza fiumi, a dire il vero, indossano gli occhiali da sole prima di voltarsi verso il panorama di Hamilton o St. George, i due più vasti insediamenti della piccola nazione atlantica. E la ragione è da ricercarsi nella natura candida e abbagliante dei numerosi tetti di abitazioni, uffici ed industrie, costruiti da l’altro rispettando i crismi di una caratteristica conformazione a gradoni, simile a quelle di una piramide egizia o maya, al fine di incrementare il rimbalzo dei raggi ultravioletti con il loro effetto antibatterico e contestualmente, rallentare il più possibile la naturale caduta del trasparente fluido verso le ampie caditoie e grondaie dell’edificio. Ciò non tanto per una moda o canone estetico universalmente diffuso, quanto l’imprescindibile applicazione di un preciso codice urbanistico ed alcune delle più antiche leggi del paese. Perché molto semplicemente, senza l’applicazione omnicomprensiva di un simile sistema, le isole Bermuda tornerebbero ben presto disabitate. A tal punto, esse risultano naturalmente prive della risorsa più necessaria alla vita umana.
Acqua che non sia soltanto limpida, ma pure e soprattutto Dolce ovvero priva di quel contenuto minerale e chimico, che tende ad assumere immediatamente nei mari ed oceani della Terra. Verrebbe in effetti da chiedersi come sia venuto in mente agli inglesi del medio Rinascimento di colonizzare le Bermuda a partire dal 1612, quasi 100 anni dopo che i rochi richiami degli uccelli locali smettessero di essere scambiati per le grida maledette dei dannati condannati ad abitarle in eterno. Senza neanche prendere in ulteriore considerazione la problematica collocazione geografica di quel paese nella cosiddetta Hurricane Alley ovvero l’area, a ridosso del Mar dei Sargassi, dove i fronti di pressione contrastante convergono per dare vita ad alcuni dei venti più potenti e distruttivi a memoria d’uomo. Il che fu formalmente compreso, iniziando la complessa ricerca di una soluzione, a partire dal secondo secolo dell’insediamento, quando sulle isole iniziarono a moltiplicarsi le case costruite secondo le precise regole considerate conduttive al rinomato “tetto delle isole Bermuda”. Un approccio tecnologico estremamente ingegnoso…
tradizioni
La tenda nella tundra che protegge dal gelo il popolo dei Nenet
Come altrettante carovane nel deserto o membri di equipaggi delle navi disseminate in un mare in tempesta, dozzine di comunità isolate percorrono le terre infertili delle penisole di Kola e Taymyr nel corso del gelido inverno. Nel settentrione siberiano, oltre i confini del Circolo Polare Artico, dove la semplice sopravvivenza è un obiettivo che richiede una notevole attenzione per i dettagli, verso l’acquisizione e messa in pratica di specifici espedienti. Così le loro renne, l’effettiva linfa che permette alla collettività di riconoscersi in tale cultura, diventano parte inscindibile della comunità dei Nenezi (o Nenet) una delle ultime comunità nomadi all’interno del territorio della Federazione Russa. Connotando e condizionando le loro usanze. Dipendere a tal punto dall’allevamento di una specie animale, che diviene in questo modo fonte di sostentamento, ricchezza tangibile, materia prima per abiti, abitazioni ed altri beni primarie nonché addirittura l’essenziale pegno di una dote necessaria per portare a compimento un qualsivoglia matrimonio, ha perciò sempre comportato dal loro punto di vista l’acquisizione almeno parziale del loro stesso e imprescindibile stile di vita. Il che significa non solo essere pronti a spostarsi periodicamente, come avviene per altre comunità pastorali dedite alla prassi operativa della transumanza, bensì farlo letteralmente di continuo, al concludersi di ogni periodo di circa 3 o 4 giorni, ovvero il tempo necessario affinché il cervide dei climi freddi per eccellenza consumi interamente la collezione di muschi e licheni che costituiscono da tempo immemore la sua dieta. Per cui l’alternativa che resta è soltanto quella di spostarsi, o perire.
Un duro approccio all’esistenza, quest’ultimo, idealmente in grado di condizionare e complicare profondamente la serenità di coloro che accompagnano i propri animali nel viaggio, sebbene approcci antichi permettano di mitigarne gli aspetti almeno apparentemente più difficili da gestire. Primo tra questi, quello di un’abitazione che possa essere smontata e rimontata in pochissimo tempo, ovvero la grande tenda conica del chum, dalla conformazione simile a quella di un tepee dei Nativi Americani ma sensibilmente più grande e soprattutto, isolata dall’impressionante freddo di queste terre, in grado di raggiungere durante la notte anche i -40 o -50 gradi. La casa dei Nenezi è dunque un ingegnoso concentrato di soluzioni tecnologiche, convenienza e senso pratico, al confronto del quale persino gli approcci alternativi più moderni dovrebbero fare un passo indietro fino al tavolo da disegno, se anche fossero mai stati presi seriamente in considerazione: semplice come i 33 pali, che tradizionalmente vengono posizionati in un cerchio di fino 6 metri diametro attorno al punto individuato dal capo famiglia mediante il posizionamento al suolo della sua verga pastorale, usata normalmente per guidare la stessa slitta con le renne incaricata di trasportarli (un oggetto un tempo considerato magico e capace di concedere il potere del volo). Affinché si possa procedere tutti assieme nel farli convergere al vertice negli appositi punti d’incastro, poco prima di collocare gli elementi trasversali utili a garantire un’ulteriore stabilità della struttura. Passo seguente, nonché forse il più importante, è quello che consiste nella copertura dello spazio architettonico risultante mediante l’impiego dell’apposito telo di un doppio strato di pelli di renna cucite assieme, con il pelo rivolto rispettivamente verso l’interno e l’esterno al fine di veicolare un’innata capacità d’isolamento che è il letterale prodotto di millenni e intere epoche d’evoluzione. Tanto efficace da riuscire a garantire, successivamente al tramonto quando gli occupanti sono soliti spegnere la stufa per risparmiare il carburante, una temperatura che può tendere verso i -10 o persino gli zero gradi: praticamente, un piacevole tepore, per chi è abituato fin dalla nascita a occupare latitudini così estreme…
Il frutto asteroidale della palma sepolta nel fango della palude
Nel compendio analitico pubblicato nel 2001 di Carole T. Gee dell’Università di Bonn si parla approfonditamente dei fossili scoperti appartenere tutti alla stessa pianta, databili al Cretacico Superiore (compreso tra 99,6 ± 0,9 e 65,5 ± 0,3 milioni di anni fa) e ritrovati in Nord America, Egitto, Oceania, India e persino l’Inghilterra. Di quello che potrebbe esser stata, a suo tempo, una delle singole varietà d’arbusti maggiormente diffuse sul pianeta Terra. Il che rende alquanto stupefacente il fatto che oggi, di questa caratteristica rappresentante sempreverde della famiglia delle Arecaceae (palme) resti unicamente una sola specie di un solo genere, chiamato scientificamente Nypa fruticans ed il cui areale mostra di essersi progressivamente ridotto, fino ad una striscia grossomodo corrispondente alla parte tropicale del continente d’Asia e particolarmente all’interno di acquitrini essenzialmente disabitati. Spazio entro il quale tuttavia, questo prodotto straordinariamente versatile della natura è largamente utilizzato per le sue notevoli proprietà gastronomiche, l’utilità delle grandi foglie in qualità di materiale da costruzione ed il prodotto collaterale di una grande quantità di materiale di scarto collaterale, tale da farne una coltivazione ideale per la produzione intensiva di biocarburanti, largamente superiore come prestazioni al mais e la canna da zucchero più comunemente utilizzate. Una questione di certo esemplificata, quest’ultima, dall’eccezionale aspetto e morfologia del prodotto stagionale della sua infiorescenza con finalità riproduttive, oggetto legnoso dal diametro di fino a 25 cm, dalla solidità impenetrabile simile a quella di una noce di cocco (il cui gusto pare sia abbastanza simile) ma la forma bitorzoluta di un letterale oggetto cosmico, scagliato in distanti orbite al termine dell’antica creazione di un sistema astrale.
Per comprendere l’effettiva biologia della palma Nipa occorre quindi qualificarla mediante l’apposizione che tanto spesso viene incorporata all’interno del suo appellativo d’uso comune, inclusivo del termine “mangrovia” proprio per la sua caratteristica abitudine, del tutto unica tra le palme, di prosperare all’interno di un ambiente acquoso, avendo fatto di tale contesto il fondamento stesso della sua ecologia prodotta dai lunghi millenni d’evoluzione. Insolita persino all’interno di un simile contesto, tuttavia, questa pianta non si presenta dotata delle consuete alte radici esposte all’aria né a dire il vero alcun apprezzabile tipologia di tronco, vedendo piuttosto le ampie diramazioni della sua corona di foglie piumate sbucare direttamente dal pelo dell’acqua, neanche fossimo di fronte all’effettiva conformazione di un cespuglio. Facendo onore alla sua qualifica di palma, tuttavia, la Nipa possiede effettivamente un fusto ma tale costrutto è interamente situato sott’acqua ed invero, la terra stessa, come insolita metodologia d’ancoraggio contro il moto reiterato delle onde e delle maree. Come ulteriore punto di distinzione nei confronti delle altre mangrovie questa pianta disdegna inoltre l’acqua eccessivamente salata, potendo crescere con successo al massimo nello spazio semi-dolce delle foci fluviali, suoi legittimi spazi d’appartenenza. Ambiente all’interno del quale la specifica funzionalità del suo strano frutto può finalmente rivelarsi, in tutta la sua incomparabile efficienza…
L’antica soluzione agricola del villaggio con l’aspetto di una foglia
Guardate questa foto aerea della piacevole cittadina polacca di Sułoszowa, nella contea polacca di Cracovia, le cui case si susseguono lungo il sentiero della strada Olkuska come altrettanti pezzi del Monopoli, ciascuna l’espressione di un particolare nucleo familiare, con le proprie idee in materia di decorazione dei cortili, colore della facciata, dimensione e numero delle finestre. E la stessa distintiva inclinazione, per quanto possibile, a servirsi di una porta sul retro usata per accedere a un cortile, per così dire… Particolare. Lungo esattamente un furlong (201 metri) e largo una catena (20 metri) nella stretta e incuneata losanga multicolore che prende il nome di selion, in qualità di appezzamento basico all’interno di una specifica suddivisione dei terreni. Quella nata attorno al XIV secolo in Europa e che oggi continua in certi luoghi a sopravvivere grazie all’eredità diretta delle famiglie, soprattutto nel territorio del Regno Unito e presso l’area oggetto della cosiddetta Ostsiedlung, ovvero il processo di colonizzazione da parte dei tedeschi delle zone oltre i confini orientali della loro nazione.
Di certo, questo è il sogno di ogni abitatore del moderno contesto urbano è sempre stato quello di riuscire a lavorare “vicino casa”, eliminando in questo modo le costose e spesso problematiche trasferte in macchina, con traffico dell’ora di punta, lavori stradali ed altre odiate amenità inerenti. Ma senza il compromesso del mestiere svolto a distanza tra le mura domestiche, luogo spesso troppo angusto, e personale, per riempirlo con l’ingombro dei doveri imposti dalla propria dura quotidianità professionale. Per questo siamo soliti sognare, dai nostri appartamenti senza nessun tipo d’orto né giardino, l’ideale vita del possidente terriero, che tramite la divisione tra “dentro” e “fuori” è in grado di determinare il suo destino interamente tra i confini del concetto abitativo di fattoria. Ciò detto e anche prendendo in considerazioni simili premesse, fatta eccezione per chi ha ricevuto il compito di amministrare un territorio solitario, è comunque difficile riuscire a disporre di un’assoluta unità topografica tra casa e campi coltivati, soprattutto quando si fa parte di una specifica comunità agreste, dove nondimeno occorre muoversi con il trattore ad ogni sopraggiungere dell’alba. Una problematica senz’altro esacerbata in epoca del Medioevo, quando l’uso dell’aratro e del cavallo risultavano inscindibili, motivando la necessità continua di spingere l’equino fino allo specifico appezzamento, costituente l’obiettivo di giornata per il contadino e la sua intera famiglia. Considerate, a tal proposito, la problematica di un qualsivoglia signore del feudo, che non possedendo direttamente alcunché, deve semplicemente amministrare i territori del suo sovrano, dandoli in gestione ai sottoposti che a loro volta precorrevano il concetto di proletariato nullatenente, fatta eccezione per la proprietà degli attrezzi e la capacità di usarli. Ecco dunque il più comune approccio del sistema dei “tre campi”: grano, cereali e legumi, ciascuno frutto di uno specifico sistema di conoscenze, progressivamente ereditato da una particolare linea familiare di codesti utili, ma poco adattabili servi della gleba. Perché non togliere semplicemente, si giunse a chiedersi attraverso i secoli, ogni tipo di confine o recinzione tra i diversi settori? E delimitarli, già che siamo a questo punto, in modo lungo e lineare, risparmiando per quanto possibile a colui che guida il vomere, con la sua carente maneggevolezza, le necessarie quattro curve ai margini del suo rettangolo assegnato. Sto parlando, per usare una metafora, della testina meccanica di una grossa stampante ad aghi umana….