Le ingegnose armi da fuoco subacquee delle forze speciali russe

I meriti strategici di un attacco portuale subacqueo furono ampiamente dimostrati a partire dal settembre del 1941, quando otto sommozzatori addestrati nella Decima Flottiglia MAS della Regia Marina Italiana riuscirono a infiltrarsi con successo nel porto di Gibilterra, per affondare tre navi da trasporto inglesi mediante l’impiego di cariche esplosive magnetiche fatte aderire alla parte inferiore dello scafo. Tre mesi dopo, ad Alessandria, un’applicazione ancor più riuscita dello stesso metodo porto a termine l’affondamento della corazzate HMS Queen Elizabeth ed HMS Valiant, assieme ad un cacciatorpediniere ed una nave di rifornimento del carburante. Quando infine gli autori del secondo raid furono catturati, prima che potessero fuggire grazie ai loro siluri a propulsione subacquea i soldati britannici restarono colpiti a tal punto dalla tuta Gamma (o più semplicemente “tuta di gomma”) prodotta dalla Pirelli con le grandi pinne, e l’insolito stile di nuoto che essa consentiva, da decidere di soprannominarli “frogmen” ovvero, letteralmente, gli uomini rana. Appena tattiche simili iniziavano ad essere sfruttate anche dagli altri schieramenti della seconda guerra mondiale, cercando per quanto possibile di perfezionarle, lo spropositato conflitto che aveva coinvolto il mondo terminò repentinamente, lasciando un vuoto significativo in questa nuova e insolita declinazione dell’aggressività militare umana. Mentre lo scenario di due gruppi contrapposti s’incontrassero, l’uno incaricato di assaltare e l’altro di difendere un’obiettivo costiero, appariva sempre più probabile, fu dolorosamente chiaro infatti come i loro armamenti potessero consistere al più di coltelli ed altri implementi ravvicinati, oltre alle limitate fiocine ad aria compressa impiegate durante la pesca sportiva d’immersione. Un sistema migliore doveva esistere in qualche misura ed i primi a trovarlo furono, come in tanti altri casi precedenti, quei veri maestri dei sistemi d’armamento non convenzionali: gli ingegneri al servizio della macchina militare sovietica, verso l’inizio degli anni ’60.
I russi avevano a quel punto già sperimentato ampiamente, come difesa contro i sommozzatori, lo schieramento di membri del gruppo Specnaz armati di un fucile di superficie della serie AK, che sarebbe stato protetto all’interno di una custodia a tenuta stagna fino al momento di utilizzarlo, nel momento in cui il nemico avesse messo la testa fuori dall’acqua. Ciò detto, neanche la straordinaria affidabilità e versatilità dell’Avtomat Kalašnikov poteva violare le fondamentali leggi della fisica, che decretavano come all’ingresso in acqua di un proiettile portasse all’immediata deviazione della traiettoria e di lì a poco, alla sua del tutto inoffensiva frammentazione. Un sistema migliore doveva per forza esistere ed il primo a concepirlo, per quanto ci è dato sapere, sarebbe stato proprio Vladimir Vasil’evich Simonov, ingegnere di ruolo nell’importante fabbrica di armi della città di Tula, nell’omonimo oblast. Il suo approccio si sarebbe rivelato quindi estremamente funzionale, grazie all’iniziativa di sfruttare non più munizioni di tipo convenzionale bensì quelle che venivano chiamate in gergo internazionale delle fléchette. Sostanzialmente, nient’altro che acuminate frecce metalliche scagliate verso il bersaglio dal meccanismo di fuoco, dotato per l’occasione di un otturatore scorrevole capace di espellere l’acqua in eccesso dalla camera di sparo. Un ulteriore aspetto, in tale originale visualizzazione del problema, finalizzato ad aggirare la fondamentale incomprimibilità dell’acqua, un fluido che poteva d’altra parte essere penetrato con successo da un qualcosa che mostrasse una parte frontale maggiormente stretta, ed idrodinamica, della tipica pallottola sparata dalla canna di un fucile. Effetto collaterale potenzialmente indesiderato, l’assenza di una rigatura del cilindro stesso, causando un calo sensibile di precisione quando si faceva fuoco fuori dall’acqua. Simonov, lavorando a pieno regime sulla sua idea, riuscì quindi a declinarla in due particolari sistemi d’arma, la pistola compatta SPP-1 ed il fucile d’assalto APS (Avtomat Podvodny Spetsialnyy) perfettamente in grado di sparare colpi singoli, o vere e proprie raffiche, mentre si trovava completamente immerso al di sotto di una superficie marittima, fluviale o lacustre. Tale arma innovativa, riconoscibile dal grande caricatore a sezione discoidale, si sarebbe rivelata quindi assolutamente letale nei teorici (o comunque, mai confermati per ovvie ragioni) contesti d’ingaggio tra uomini rana messi in campo tra le avverse superpotenze, con la capacità di penetrare agevolmente qualsiasi corazza personale subacquea, per non parlare dei vetri trasparenti di piccoli sommergibili o altri implementi d’infiltrazione impiegati in quell’ambiente. Ma la relativa poca maneggevolezza dovuta al peso e la forma, unita alla tendenza dell’APS a guastarsi dopo un limitato numero di spari fuori dall’acqua, portò ben presto gli utilizzatori a preferire la meno potente pistola, ed i loro ingegneri di supporto alla laboriosa ricerca di un possibile margine di miglioramento…

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Crolla tra le fiamme in Russia il gran castello apotropaico del Covid

A fronte dell’introspezione retroattiva ed approfondite analisi oggettive, non sussistono particolari dubbi: per chi lavora tutti i giorni da un progetto, sia di tipo artistico che funzionale ad uno scopo logico e risolutivo, la figura crudele ed imponente del demonio trova posto nelle più incrollabili minuzie, tutti quei dettagli che costituiscono gli ostacoli, attraverso vie tortuose, per il raggiungimento dell’obiettivo finale. Ma secondo Nikolay Polissky, l’artista russo che nasce come pittore a Mosca e si realizza a partire dal 1989 costruendo il Villaggio di Babele presso la comunità di Nikola-Lenivets nella regione di Kaluga, il Diavolo alberga anche nel quadro generale delle cose. Quella condizione, prolungata e opprimente, che ha portato le nazioni a chiudersi come le foglie di una felce, posta sotto assedio dall’assalto reiterato di un qualcosa di minuscolo e insistente. Sanguinario; sferoidale; bitorzoluto; capace di proteggere se stesso oltre ogni limite apprezzabile dagli apprezzabili confini del raziocinio. “Come un re cannibale sopra il suo trono” afferma nelle sue interviste, girate dalle agenzie internazionali, riferendosi forse alla figura folkloristica di Koschei, l’antagonista d’innumerevoli fiabe pre-cristiane, che nascondeva la sua anima in un ago, contenuto all’interno di un uovo, trasportato in cielo da un’anatra capace di sfuggire ai cacciatori. Horcrux dall’alto del quale, come altri stregoni oscuri dei nostri tempi, era solito opprimere la popolazione, rapirne i figli e le figlie, ampliando i confini del suo terribile dominio. Almeno finché un eroico bogatyr, il “guerriero itinerante” della tradizione slava, non giungesse fino all’ingresso della sua torreggiante residenza; armato di una torcia magica, per arderla fin quasi dalle fondamenta nascoste nelle profondità del mondo.
Una visione apocalittica, e catartica, quella offerta da una simile visione, che si vive nuovamente ogni anno in occasione della quaresima ortodossa, tramite la festa popolare della nostra signora Maslenitsa o “settimana del burro”. L’ultimo momento di svago senza la precisa disciplina imposta dalla tradizione, quando il popolo s’incontra celebrando ciò che è stato un tempo, fino all’evento culminante della costruzione, e successiva distruzione, di un’effige in rami e sterpaglia secca rappresentante i molti tentacolari mali della nostra Era. Ma c’è un qualcosa di diverso, e proporzioni decisamente maggiori, nell’annuale interpretazione offerta di tale pratica presso il regno dell’artista Polissky, come esemplificato dalle riprese in campo lungo dello spaventapasseri in questione, in realtà configurato nello specifico come un vero e proprio edificio alto 25 metri. Con tre torrioni disposti attorno ad uno spazio centrale, appuntiti come lame di altrettante spade, lungo cui risalgono le fiamme tramite l’espletamento di un copione ben preciso. E di certo, qualcuno potrebbe intravedere in tale prassi l’ispirazione diretta sulla base del festival statunitense del Burning Man, le cui installazioni effimere secondo il metodo espressivo della land art ritrovano del resto corrispondenza nelle molte meraviglie costruite presso il parco di Nikola-Lenivets. Ma c’è qualcosa di molto più personale, ed a suo modo pregno, nella precisa interpretazione offerta di quei modelli presso l’innevato spazio del momento corrente, ricolmo per l’occasione di uno sguardo carico d’ottimismo verso il futuro ancora oberato d’incertezze. L’alba di un nuovo giorno, in cui il calore dell’astro solare si accompagni a quello della forza naturale sottomessa al volere dell’uomo, quel fuoco per sua massima eccellenza, che è trasformativo ed a suo modo altrettanto fecondo. Perché carico di un profondissimo significato ulteriore…

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Lo strano disco volante con cui la Russia voleva cambiare la storia dell’aviazione

In uno spiazzo innevato presso il piccolo villaggio di Ivanovskoye, non troppo lontano da Mosca, giace semi-abbandonato l’oggetto che avrebbe potuto costituire la chiara testimonianza veicolare di un tentativo d’invasione aliena. A differenza di Roswell nel Nuovo Messico tuttavia, dove il disco volante sarebbe custodito all’interno del (presunto?) hangar sotterraneo gestito da dipartimenti segreti dell’esercito statunitense, il bizzarro velivolo è stato trasformato in questi lidi in una sorta di attrazione locale, mentre qualcuno sembrerebbe averlo abbellito con l’aquila bicefala della Federazione Russia, oltre alla dicitura in lingua inglese “EKIP – aviation concern” (azienda dell’aviazione) laddove l’acronimo, diretta traslitterazione del russo ЭКИП, vorrebbe in effetti sottintendere l’espressione ottimista “Ecologia & Progresso”. Due princìpi alquanto insoliti dal punto di vista di un ipotetico visitatore proveniente dallo spazio, che per sua natura potrebbe anche non possedere simili concetti e comunque, di certo non li metterebbe in alfabeto cirillico al centro di un suo avventuroso progetto d’esplorazione terrestre. Vagamente tondeggiante, privo di coda e con un paio di ali chiaramente troppo piccole per le sue dimensioni, l’oggetto inizia lentamente a ricoprirsi con la ruggine, sebbene alcuni tentativi sembrino essere stati condotti nel ridipingere e preservare un così strano pezzo di storia. Il che inizia a rivelare, un poco alla volta, l’effettiva natura dell’oggetto che potremmo presumere volante, per lo meno all’epoca in cui ebbe modo di vivere giorni migliori; non il frutto di un extraterrestre ingegno, bensì la diretta risultanza della fantasia e visione di un singolo individuo, che tanto seppe coinvolgere e guidare l’opera di tecnici e scienziati a ridosso, e successivamente alla caduta dell’Unione Sovietica. Fino alla creazione di un qualcosa che avrebbe potuto, e forse dovuto, cambiare radicalmente il corso della storia tecnologica dell’uomo.
È il 17 luglio del 1975 e milioni di persone in tutto il mondo si trovano ipnotizzate davanti ai loro televisori, per assistere a uno spettacolo dalla portata generazionale. Non è lo sbarco sulla Luna (avvenuto 6 anni prima) ma il coronamento del cosiddetto progetto Apollo-Sojuz, in cui le rispettive capsule lanciate dai due lati della cortina di ferro vengono accuratamente fatte incontrare nell’orbita terrestre, permettendo ai due rispettivi equipaggi d’incontrarsi e come nulla fosse, stringersi la mano. Ciò costituisce il simbolo di un tardivo tentativo di avvicinarsi tra i rispettivi paesi, in una nuova ed inimmaginabile forma di diplomazia, nonché la fine della lunga e sofferta corsa allo spazio, per cui le due maggiori superpotenze globali tanto avevano investito fino a quel fatidico momento. Ma anche l’occasione di confronto e crescita da parte di una grande collettività scientifica, ospitante alcune delle menti più abili ed esperte nel complesso ambito di far volare le persone, fin oltre i confini della placida atmosfera terrestre. Uno di essi è Lev Nikolayevich Schukin, ingegnere esperto in motori che fu successivamente posto a capo, nel 1979, del bureau governativo di Korolev chiamato per l’appunto EKIP, con l’obiettivo di offrire alla Russia un nuovo metodo per far spostare i propri passeggeri da un lato all’altro del suo vasto territorio e fino all’altro capo del globo. L’idea di partenza è la stessa esplorata dall’italiano naturalizzato russo Robert Ludvigovich Bartini circa 10 anni prima, per un velivolo di trasporto “definitivo”, capace di trasportare carichi ingenti a grande distanza e che fosse capace di decollare nella più totale assenza di una pista, sfruttando semplicemente l’acqua, uno spiazzo pianeggiante o una distesa ghiacciata. Lasciando come unica soluzione tecnologica possibile, nonché assolutamente percorribile, quella dell’ekranoplano o GEV (Ground Effect Vehicle). Materiale dimostrazione dell’intuizione tipicamente associata all’aviazione russa, in base alla quale l’effetto suolo di una massa d’aria generatosi naturalmente sotto il velivolo può consentirgli di mantenersi, con un dispendio d’energie del tutto trascurabile, a una rispettosa distanza di sicurezza dalle asperità del terreno. Ma non di allontanarsene eccessivamente, a meno fino all’integrazione così fortemente voluta da questo geniale innovatore del volo…

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L’elegante manovra gravitazionale del missile anti-nave russo P-800 Oniks

La storiografia guerriera è piena di grandi prove di abilità con l’arco, a evidente prova dell’errore intrinseco in quello stereotipo secondo cui colpire il nemico a distanza sarebbe stato “poco cavalleresco” o in qualche modo indesiderabile dinnanzi all’eventualità encomiabile di combatterlo all’arma bianca. Primaria, nell’iconografica narrativa dell’arazzo di Bayeux (1066) è la figura dell’arciere normanno che colpisce il re inglese Harold Godwinson all’occhio, vincendo istantaneamente la battaglia. Così come il personaggio giapponese di Nasu no Yoichi del clan dei Minamoto risolse uno dei maggiori conflitti navali della guerra Genpei (1180-1185) abbattendo il morale nemico dopo aver perforato in maniera impeccabile un ventaglio posto in cima ad un palo sul ponte della nave ammiraglia dello schieramento avversario. Ed altrettanto numerosi e significative sono le figure mitologiche che avrebbero potuto ispirarlo, come il dio cinese dell’arceria Hou Yi, che all’origine dei tempi perforò nove dei dieci soli che bruciavano la superficie della Terra o il divino guerriero Arjuna, a cui nel Mahabharata veniva attribuita una faretra magica che non esauriva mai frecce. Episodi che riassumono, ed in qualche modo riescono a costituire il prototipo ammirevole, di quella strana qualità che il famoso studioso degli scritti di Omero e veterano del secondo conflitto mondiale, Bernard Knox, definiva la “terribile bellezza della guerra” scevra di residui sentimentalismi o residue percezioni relative alle sue implicazioni meno evidenti.
E c’è senz’altro qualcosa di magnifico, leggendario persino, nella maniera in cui il tecnologico protagonista di questo video esegue il gesto che più di ogni altro gli riesce meglio, essendo stato la base stessa della sua progettazione principale: alzarsi in volo, per proiettare quella distruttiva volontà in avanti e verso il bersaglio definito al centro di quel vortice di fumo, fiamme e incomparabile rombo di tuono. Eppure non c’è nulla, in tale processo, che si richiami al drammatico e riconoscibile arco disegnato dalla traiettoria di un dardo convenzionale, o persino quello di un normale proiettile d’artiglieria: troppo lontano siamo giunti, a questo punto, dall’originale percezione di quanto debba contare la normale progressione fisica degli eventi, eccessivamente perfezionata risulta essere la metodologia ingegneristica che qui trova la sua più perfetta e iconica realizzazione. Mentre il missile Oniks (“Rubino”) si solleva dal suo tubo di lancio in maniera perfettamente verticale per circa una ventina di metri, quindi vira bruscamente verso Terra nella maniera ritenuta proficua dal suo bureau d’origine sin dai primi test verso la fine degli anni ’80, l’NPO Mashinostroyeniya di Reutov, vicino Mosca. E come l’infernale manifestazione di un piccione viaggiatore inviato da Lucifero in persona, cambia il senso del suo viaggio in direzione orizzontale. Fino alla drammatica realizzazione della sua spietata verità.
Stiamo parlando, per essere chiari, del moderno “dardo” o missile balistico creato con un singolo e fondamentale obiettivo: colpire un obiettivo avverso allo schieramento tattico delle forze messe in campo dai Russi, preferibilmente in un contesto marittimo/costiero ma non solo, grazie alla funzionalità di base offerta dal veicolo capace di trasportare e lanciare direttamente l’avanzato sistema d’arma da 3 tonnellate di peso, l’autocarro K-300P Bastion-P. Il quale prima di realizzare la sua principale ragion d’essere, come ha già potuto fare più volte nel corso della storia bellica recente (e non sto parlando SOLO di esercitazioni) punta i suoi tubi di lancio direttamente verso il cielo, in quella che sarebbe un’evidente sfida rivolta alle nubi e il volo insostanziale degli uccelli. Se non fosse per la capacità del missile di eseguire, in maniera pressoché perfetta, una delle manovre più importanti associate ai primi fondamentali minuti dell’esplorazione spaziale…

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