Il pilastro dell’apprendimento scientifico, soprattutto nei paesi anglosassoni, è la sperimentazione. Così nelle scuole, al cospetto di classi curiose e partecipative, viene ritenuto conveniente dimostrare in cattedra diversi tipi di reazioni. Sostanze chimiche accuratamente mescolate, per cambiare le tonalità dello spettro visibile, che si trasformano, diventano leggenda. Soltanto non avviene, nella maggior parte dei casi, che i presenti facciano la fila per procedere all’assaggio del prodotto di quel rituale. Non sarebbe di sicuro salutare, per l’organismo. Situazione diametralmente opposta, d’altra parte, per quanto concerne la Clitoria ternatea, pianta endemica per l’appunto della sola isola di Ternate, parte del vasto arcipelago indonesiano. Ed il cui nome comune occidentale, evitando il riferimento scientifico all’apparato riproduttivo femminile umano (cui si dice il fiore sia inerentemente simile) ricade al tempo stesso nel problema adiacente, per lo meno una volta tradotto in lingua italiana; trattandosi di butterfly pea o “pisello farfalla”. Chiamiamola perciò Aparajita, come previsto dal canone della medicina ayurvedica dell’India, con riferimento alle sue presunte capacità di alleviare lo stress ed altri disturbi mentali persistenti. Il che ha sempre costituito per questa fabacea, rampicante o strisciante, soltanto uno degli effetti benefici previsti, mai provati in modo inconfutabile dalla scienza ma che sembrerebbero includere l’eliminazione degli ossidanti, dei microbi, delle infiammazioni e persino la capacità di allontanare il diabete. Risultando nota, al tempo stesso, per il suo uso in campo cosmetico, come colorante naturale ed in cucina, particolarmente per la preparazione di bevande infuse relativamente insapori. Ma così straordinariamente affascinanti! Questo perché la versione preparata della pianta, una volta trasformata in polvere essiccata al sole, dona immediatamente al liquido un cupo color lavanda; il che è soltanto l’inizio dell’affascinante vicenda cromatica. Laddove il collaudato rituale internettiano, particolarmente popolare sui canali di Instagram e Douyin/Tik Tok, prevede a questo punto l’aggiunta in rapida sequenza di particolari ingredienti: dapprima una fetta di limone, con l’effetto di schiarire il fluido fino ad un violetto/azzurrino. Quindi qualche petalo d’ibisco, che lo trasformerà di nuovo, conducendolo a un vermiglio intenso. Difficile resistere, a questo punto, alla tentazione di assaggiare il gusto di una tale magica essenza…
gastronomia
Le cangianti scaglie idrodinamiche del terzo pesce più veloce al mondo
Nella traduzione de Il Vecchio e il Mare di Hernest Hemingway persistono diversi riferimenti alle imprese del personaggio titolare, in cui egli tira a bordo nella propria imbarcazione il pregevole pescato di un “delfino”. Un inaspettato quanto insolito riferimento, alla ricerca di sostentamento da un mammifero marino che non solo viene raramente consumato nel contesto nordamericano, ma risulta oggettivamente troppo grosso e pesante per essere catturato in siffatta maniera. Ed in effetti tale termine, per quanto non costituisca formalmente in errore, è in grado di trarre in inganno la stragrande maggioranza dei lettori europei. Poiché quando il grande scrittore originario dell’Illinois, che trascorse buona parte della propria età adulta sulle isole Key West del sud della Florida, si riferisce testualmente ad un dolphin, egli utilizza l’effettiva terminologia del territorio d’adozione; che vede tale utilizzato per citare, in aggiunta alle suddette creature, una creatura marina che non è imparentata, non gli assomiglia ed invero possiede una vicenda biologica totalmente distinta. La Coryphaena hippurus, alias pesce capone, settembrino o lampuga, presenza cosmopolita dei mari tropicali e subtropicali, che vede il proprio areale estendersi dall’Atlantico al Pacifico, passando per l’Oceano Indiano e si, anche il Mediterraneo a largo delle coste italiane. Un’intera fetta del vasto mondo dunque, dove risulta in genere frainteso nonostante l’estetica geometricamente affascinante ed il colore di un verde lucido dai riflessi bluastri ed azzurri. Non c’è un singolo popolo, ad esempio, fatta eccezione per quello nativo delle isole Hawaii, che renda omaggio formalmente alla sua eccezionale riserva d’energia, da cui l’appellativo in lingua locale mahi-mahi che significa per l’appunto fortissimo. Né costui risulta incluso nelle molte liste disponibili su Internet dei pesci più veloci, nonostante un ritmo per il battito delle sue pinne che lo rende in grado di raggiungere agevolmente i 50 nodi, pari a 92 Km/h, sufficienti a catturare le sue vittime che includono maccarelli, seppie, granchi e addirittura il rapidissimo pesce volante (fam. Exocoetidae). Il che lo pone come potenzialità dinamiche al di sotto soltanto del marlin blu e del pesce spada, superando abbondantemente in graduatoria i soliti noti: squali mako, acantocibi (wahoo) e tonni. Una dimenticanza che deriva forse dalla presunzione del senso comune. Perché dopo tutto, guardatelo: con la sua fronte alta e piatta, il corpo tozzo e rastremato della lunghezza di circa un metro verso la coda biforcuta, la corifena non ha un aspetto agile né in alcun modo progettato per proiettarsi innanzi. Sebbene più di un pescatore sportivo abbia conosciuto il ritmo fulmineo con cui questa creatura si precipita verso la pastura ed altre esche per il traino, per non parlare della lunga lotta con la canna che generalmente segue da vicino il verificarsi di un così ambito evento. Sono pochi i pesci del vasto mare, d’altra parte, a vantare un sapore migliore. O almeno così si dice…
L’annosa infatuazione internettiana per la cosiddetta banana gigante
Nell’ultimo tra i video virali provenienti dal caotico TikTok, un uomo dai lineamenti orientali impugna l’incredibile oggetto con evidente senso di aspettativa, procedendo con un gesto abile a sbucciarlo in appena un secondo. Candida e perfetta, il suo arco il simbolo di un Universo che non ha misteri, l’individuo spalanca la mascella fino ai limiti permessi dall’anatomia umana. Quindi, lietamente, v’inserisce quella “cosa” straordinaria. Che cosa abbiamo visto, esattamente?
Assoluta unità di colore, sapore ed aspetto: questo in genere pretende la comunità indivisa, per quanto concerne ciò che riempie le sue tavole ed i recipienti dedicati agli apprezzabili frutti della natura. Dopo tutto è ancora una banana quando non è gialla, lunga e curva? Quando non contenga almeno 350 mg di potassio? Il che ci porta a un delicato ed altrettanto pervasivo tipo di fraintendimento. Poiché se qualche cosa tende a presentare l’evidente incontro di queste tre caratteristiche, cos’altro potrebbe mai essere, se non una banana? Genere Musa, ordine Zingiberales, la cui pianta è assai probabilmente originaria delle giungle di Malesia, Indonesia, Filippine… Ma che venne conosciuta in Occidente in occasione della campagna in India di Alessandro Magno, assieme al termine in lingua sanscrita impiegato per definirla: varana. Parola che persiste, con minime variazioni, nell’odierno panorama linguistico globalizzato, quasi a riconfermare la percepita ed altrettanto sacra invariabilità del dolce prodotto della pianta erbacea più imponente al mondo. Sarebbe stato dunque lo stesso Linneo, nel suo Systema Naturae, a stabilire in via preliminare la suddivisione di quelle che costituiscono effettivamente un tipo di bacche tra Musa sapientum e M. paradisiaca, definendo come le prime commestibili direttamente una volta colte, e le seconde che necessitavano di un processo di cottura prima di essere impiegate come ingredienti. In altri termini e secondo la nomenclatura corrente, dei platani. Il che permette di ridefinire in chiari termini la nostra questione d’apertura. Poiché fin dall’epoca della modernità, banana può e dovrebbe essere soltanto una di tre cose: un cultivar proveniente dalla specie selvatica Musa acuminata; oppure dalla sua cognata M. balbisiana. O ancora una combinazione di alleli provenienti dalle due distinte discendenze, combinate grazie all’applicazione di quella che potremmo definire ingegneria genetica ante-litteram. E questo tipo di banane assai difficilmente tendono essere molto più della stereotipica varietà di Cavendish come anche mostrata, tanto orgogliosamente, dal nostro misterioso Virgilio d’apertura. L’iconica rappresentante di un intero Paradiso di sapori ed apprezzabili realtà culinarie…
La prima regola del saporito frutto dell’ackee: mai cogliere dal ramo (della morte) l’ackee
Non è mai sufficientemente discusso il rischio latente di determinate fonti di nutrimento, come il benamato frutto proveniente dalla Cina consumato in genere a Natale, che presso i nostri lidi viene definito in genere litchi. Dal piacevole sapore, nonché l’inoffensivo aspetto, nonostante contenga determinati composti chimici che se consumati in quantità eccessiva, o da bambini sufficientemente piccoli, possono alterare la gluconeogenesi degli acidi grassi, portando potenzialmente alla morte. Ma è chiaro che si tratta di un’eventualità estremamente remota, un po’ come assumere una dose eccessiva di radiazioni dal potassio delle banane. Altrimenti, nessuno penserebbe ancora di mangiare un tale cibo, giusto? Giusto? Uhm…
Negli anni ’70 ed ’80 dello scorso secolo si cominciò a discutere nella comunità scientifica, con particolare attenzione da parte di laboratori ed università caraibiche, di una strana malattia incline a colpire soprattutto gli abitanti della Giamaica. Caratterizzata da conati di vomito, grave ipoglicemia, compromissione del fegato e dei reni. Incline a colpire membri di qualsiasi classe sociale, indipendentemente dallo stile di vita, l’afflizione venne gradualmente collegata ad un’importante fonte di cibo, alla base di uno dei piatti nazionali maggiormente amati. Sto parlando della Blighia sapida o ackee, il frutto con buccia rosata prodotto a grappoli da un albero gradevolmente ornamentale alto fino a 10-12 metri, vagamente simile a una mela o pera ma che quando si procede ad aprirlo, sembra contenere dai tre ai quatto esempi di ciliegie nero-lucide come splendenti gocce di pece. Fermo restando che si tratterebbe, sempre e comunque, di una pessima idea. Qualunque abitante delle isole in effetti, vedendo un turista intento a raccogliere dall’albero o aprire una di queste capsule invitanti che non si fosse già aperta da sola griderebbe immediatamente un avviso, o più semplicemente glielo toglierebbe bruscamente dalle mani protese. Non per implicita mancanza di garbo, bensì un’encomiabile coscienza coadiuvata dalla conoscenza. Questo perché l’ankye o akye-fufuo, come veniva chiamato nella sua natìa Africa Occidentale, può rapidamente portare a conseguenze assai nefaste se mangiato in occasioni inappropriate o senza l’opportuna trafila preparatoria. Ciò in qualità di membro della stessa famiglia delle sapindacee, cui appartengono anche il litchi ed il longan. Benché nessuno delle due potenziali alternative contenga una quantità comparabile del terrificante aminoacido ipoglicina A, capace di legarsi agli enzimi necessari per il catabolismo energetico delle cellule, distruggendo totalmente la funzionalità dei mitocondri. L’inizio della fine, se vogliamo, di quel prolungato stato di esistenza che siamo abituati a definire come “umanità”…