L’ascensore a moto perpetuo delle università inglesi

Paternoster

Andare in un posto significa sanzionare un certo dispendio di energia, sia questa muscolare, di un veicolo o altri dispositivi semoventi. Una volta giunti lì, guardando verso il punto di partenza, non si riesce più a capire cosa realmente ci ha portato a destinazione. Sono state le calorie spese dal nostro corpo? Il motore dell’automobile? O piuttosto dovremmo ringraziare la strada stessa, intesa come striscia d’asfalto, vettore percorribile dell’umano bisogno di essere altrove? Se gli agglomerati urbani davvero costituiscono nei fatti degli organismi artificiali, come teorizzato da certe correnti dell’architettura moderna, loro inevitabile prerogativa sarebbe un complesso sistema linfatico, fatto di vie, piazzette, varchi, semafori e passaggi sotterranei. Con uomini e donne, globuli rossi perennemente in cerca d’ossigeno, intenti a percorrerli verso delle destinazioni prestabilite, godendosi soltanto l’illusione del libero arbitrio. Uno stato ideale il quale, più che in ogni altro luogo, trova la sua realizzazione nelle trombe verticali dotate di un cabinato semovente. Diciamo che, al termine del suo quotidiano viaggio da pendolare, l’individuo/globulo abbia raggiunto l’edificio di un posto di lavoro, della scuola o dell’ufficio pubblico in cui aveva necessità di recarsi. La sua cellula elettiva. Con passo sicuro, si reca in direzione del dispositivo automatico di dislocazione verticale, l’ascensore. Preme un pulsante, la porta si apre obbediente, un ricco ventaglio di opportunità si presentano dinnanzi al suo sguardo, pieno d’aspettativa. Primo, secondo terzo piano…Il suo appuntamento è al sesto, valuta con attenzione e tramite un dito fermissimo esercita la sua scelta.
Mille persone, soltanto quest’oggi, hanno già fatto la stessa identica cosa. Ma lui si sente speciale, mentre la porta si chiude obbediente. Ancora una volta la fisica si è piegata alla volontà umana? Ebbene…Per una buona metà del secolo scorso in Europa, e soprattutto nei grandi edifici inglesi, c’era un modo diverso per salire e scendere a un piano. Il suo inventore l’aveva chiamato paternoster, perché gli aveva ricordato, nella forma e nel funzionamento, la collana del rosario. Non prendeva ordini da nessuno e non si fermava MAI.

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Porcospino brasiliano che mangia una banana

Kemosabe

Appeso al fitto sottobosco del Sud America c’è un piccolo animale, del peso di 4-5 Kg, con la schiena ricoperta di aculei e un simpatico musetto rosa. Gli erethizontidae, o porcospini del Nuovo Mondo, hanno ben poco a che vedere con il riccio comune europeo, diretto discendente dei primi mammiferi nati sul pianeta; intanto, la stazza è decisamente un’altra storia. La loro coda lunga e muscolosa, simile a quella di una scimmia, gli consente di arrampicarsi sugli alberi con grande agilità. E poi mangiano con gusto le banane. Almeno, nel caso in cui sussistano determinate condizioni.  Durante questa scena in particolare, si può assistere al ricco pasto di Kemosabe, grazioso coendou prehensilis del centro zoologico Animal Wonders, sito nello stato americano del Montana. Lui se ne sta lì, sopra una trave. Il suo costante vociare, simile al verso di un Furby, basterebbe già di gran lunga a renderlo adorabile. La complessa serie di vocalizzazioni prodotte da questa specie, in natura, serve a comunicare la presenza di un pericolo e aiutarsi a vicenda contro i predatori. Usando le sue due manine da procione, dotate di cinque dita ma prive di pollice opponibile, il porcospino tira continuamente su un buffo cestino di vimini, fra le risate dei presenti, forse per abitudine o perché spera di trovarci dentro il cibo. Il premio arriva, invece, per mano umana, già  comodamente tagliato in pratiche fettine. La dieta di questi animali e prevalentemente vegetariana e include foglie, radici, boccioli e corteccia. L’occasionale frutto, per loro, è una vera e propria delizia. Riesce facile immaginarsi, quindi, l’entusiasmo provato da Kemosabe al momento di addentare la giallissima banana.

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Paguri che abitano piccoli palazzi giapponesi

Aki Inomata  0
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Tra le diverse creazioni di Aki Inomata, giovane artista tokyoita, spiccano questi fantastici gusci di plastica per paguri, creati a guisa di città famose, edifici industriali e altre composizioni architettoniche umane. L’idea, secondo quanto riportato sul suo sito, ha origine nel 2009, in occasione del trasferimento dell’ambasciata francese da un quartiere all’altro di Tokyo, un progetto che richiese la demolizione di alcuni vecchi edifici. Per questa cultura d’Oriente, in cui i luoghi e gli oggetti inanimati possono assumere una dignità molto particolare, sia dal punto di vista religioso che materiale, un passo simile assume notevoli implicazioni concettuali. Gli spostamenti di un’istituzione, anticamente, erano percepiti come una grave necessità, da accompagnarsi a tutta una serie di complessi rituali. Quando nel 784 d.C, per contrastare il crescente potere del clero buddhista, l’imperatore fu trasferito da Nara a Nagaoka, gli ornamenti del palazzo e dei templi viaggiarono con lui, onde evitare una ribellione dei kami, gli eterni spiriti del cielo e della terra. L’ulteriore dislocamento, dopo appena 10 anni, verso Heian-kyo (l’odierna Kyoto) fu doverosamente accompagnato dalle solenni purificazioni degli onmyoji, gli esorcisti sovrannaturali della tradizione shintoista. Secondo alcuni, tra l’altro, quest’ultima città sarebbe ancora la capitale del Giappone. Il subentro burocratico dell’odierna Tokyo, avvenuto de facto, soltanto nel 1869 e in assenza di un vero editto imperiale, sarebbe quindi da considerarsi infausto, inopportuno e lesivo nei confronti dello stato di equilibrio di questo paese unico, in grado di mantenere un privilegiato dialogo con l’ultraterreno. Tutt’altra storia, come osservabile nell’acquario di Aki, sono le creature decapodi della famiglia paguroidea latreille,  tra cui l’illustre granchio eremita. Qualsiasi cosa trovino tali animali sullo sconnesso fondale marino, sia questa una conchiglia, una spugna, un barattolo, un nido abbandonato dai vermi polychaeta o altre facezie, loro ci entrano dentro e la chiamano, con soddisfazione, casa propria. Questi sapienti crostacei non percepiscono l’insoddisfazione, l’anélito e la smania degli altri esseri, soltanto la fortuita fuoriuscita da uno stato di necessità. Qualche tempo dopo, diventati troppo grossi, senza rimorsi gettano via il guscio della loro gioventù, cercandone di nuovi. Quale occasione migliore, per una mentalità creativa, d’interfacciarsi con la natura?

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Jimmy Tajik, il sitar umano

Jimmy Tajik

I pastori di buoi latini, nel caso in cui fossero dediti all’arte, erano soliti comporre soavi canti sull’esempio di Teocrito, l’inventore greco della poesia bucolica. Da questa sentita celebrazione dell’idillio di campagna, della natura e di tutte le sue meraviglie, tra cui l’amore, nacque la tradizione letteraria cui appartengono i versi immortali di Calpurnio Siculo, Nemesanio e soprattutto quelli del sommo Virgilio, famoso accompagnatore delle anime sperdute, in modo particolare tra le ardenti fiamme dell’Inferno dantesco. In altri luoghi ed epoche, dalle inclinazioni meno contemplative, in cui forzate restrizioni culturali avevano interrotto il contatto l’antichità, la musica del sublime ha sempre e comunque trovato un suo abile messaggero, in grado di esprimerla e rilanciarla verso il futuro. Anche a costo di andarla a prenderla da un sub-continente lontano. Forse nessuno, tra questi preziosi individui, ha una storia più travagliata di questo fenomenale interprete, in grado di guadagnarsi una fama internazionale a partire da un singolo video, casualmente rubato qualche anno fa da un suo collega magazziniere.
Jimmy era il ragazzo di origini tagike che, durante gli anni dell’Unione Sovietica, teneva d’occhio le 1.700 pecore di un ricco affarista Uzbeko. Alla fine di ogni mese, come unico pagamento, riceveva un agnello. Per passare il tempo, cantava. In quegli anni, racconta lui, c’era una stringente censura su quali argomenti fossero adatti al grande pubblico e sui film che potessero giungere nelle sale. Naturalmente, tutto ciò che proveniva dall’Occidente non era particolarmente ben visto, specie se di matrice statunitense, lasciando un grande vuoto che poteva essere colmato soltanto in un modo: l’infinita ed eterna fecondità di Bollywood. La musica è una parte fondamentale di ogni buon film, qualunque sia la nazione di provenienza, e questo fatto appare più che mai evidente guardando i fantastici allestimenti del tipico film indiano. Ispirate commistioni fra i canti tradizionali di più lingue (hindi, urdu, persiano, bhojpuri, braj, rajasthani e punjabi) con le metodologie dei musical di Broadway e altre forme teatrali moderne, le canzoni di questo gotha cinematografico hanno un fascino che trascende le nazioni e riesce a coinvolgere gli abitanti di ogni parte del mondo, soprattutto i giovani pastori in cerca di un modo per mettere a frutto il tempo. Che poi, crescendo….

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