L’incubo dodecaedrico del Dr. Cormier

Pentaminx

“Una palestra per le meningi” Per otto lunghe ore, intrappolato dal fascino mineralogico del plasticoso labirinto, PeteTheGeek196 ha voltato l’oggetto, girato la faccia, puntato il vertice, spinto il perno rotante. Puntato la faccia, girato il vertice rotante, ficcato la benna nel punto finale. Ed invero fu fatta fatale, la gemma tra le sue mani, quanto si è rivelata profonda, la scia fenomenica del suo gesto. Un tale lavoro ininterrotto, qui tanto accuratamente documentato in tempo reale, avrà fatto convergere su di lui l’inappagabile desiderio di molti. Un’invidia, il senso d’anelito intellettuale: tutti vorremmo saperlo… Fare. Non allo scopo di… Farlo, ovviamente. Quello no! Serve la pazienza di un santo, dote di dubbia signorilità, però chi può negarlo: quest’uomo colora la vita. Propria, degli altri e di tutti. Nei secoli degli eoni trascorsi, mai si era vista una simile cosa, il Petaminx (non Penta-mix, ahimé, avrebbe avuto più senso). Un twisty puzzle (rompicapo rotante) ben oltre i limiti della ragionevolezza. Lo stesso Ernő Rubik, architetto e scultore ungherese, sarebbe trasalito dinnanzi a una tale presenza. Spostiamoci ancora più indietro. Leonardo da Vinci l’avrebbe smontato. Aristotele, descritto e discusso. Le proto-scimmie, portato in processione sulla cima di un monte, ne avrebbero fatto l’oggetto di un culto.
Si tratterebbe, ad un’analisi approfondita, della classica partita a scacchi con la morte. La cupa mietitrice, mantello nero e lucida falce, che nell’iconografia post-moderna si manifesta sui capezzali, dei commensali uscenti, a tarda ora nella serata del mondo sensibile. Per l’amara tenzone. Con se, lei porterebbe, secondo credenze diffuse, la scacchiera e i pezzi del gioco, con l’unico scopo di complicarsi il lavoro. Che fare, dunque? Giocare con piglio sicuro, nella speranza di vincere, farla vedere a quel teschio ghignante? Oppure… Perdere tempo… Prolungare gli ultimi attimi su questa Terra… Muovendo l’indice e il pollice, come fossero placche tettoniche alla deriva. Tale dilemma è alla base della teoria di qualsiasi gioco. Perché lasciarsi coinvolgere da una sfida difficile, spostare la mente tra rigide regole, comporta una voglia di evadere dal quotidiano. Tra le valli di arcani combattimenti, gli spiriti nascono e muoiono di continuo. La prima cosa la fanno al principio dei gesti, sempre, inevitabilmente allo stesso modo. La seconda, dipende. Si può dipartire in molti modi, dal regno arbitrario: mancanza di voglia, di tempo, di capacità. Soprattutto, di ripartire da capo. Se una volta appoggiato il Pe(n)tami(n)x, quest’uomo dirà con ferocia: “È stato tremendo, non lo rifarò mai!” Allora chi può dire, chi l’abbia spuntata davvero, tra lui e l’ossuto visitatore.

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Un tempio di cubetti sulle rive del Mar Morto

Cubi di sale

Gli antichi Egizi usavano visitare queste stesse rive, in cerca di una mitica sostanza. Il nero, tiepido bitume, la colla usata per stuccare i molti buchi delle mummie. Un vero nettare dell’immortalità, questo ammasso maleodorante, che riaffiorava da profonde pozzanghere nel suolo. Oggi ci vorrei portar le capre, per analogia con i cavalli troppo golosi. Allo scopo di provare il gusto di un cubetto molto nuovo e niente affatto zuccherino.
Se la vita è il mantenersi operativo di un complesso organismo funzionale, che si nutre, defeca e risveglia ogni mattina anche a molti anni di distanza dalla nascita, allora dipartita vuole dire mutamento. Al-Baḥr al-Mayyit per gli Arabi, Thálatta asphaltĩtēs per i GreciYām ha-Mizraḥî oppure Yām ha-‘Ărāvâ negli antichi testi degli Ebrei: sono tutti nomi del più basso punto non oceanico del nostro pianeta, l’inospitale, unico Mare senza pesci. Il Morto, amava chiamarlo qualche intrepido poeta. C’era sempre un valido perché: fra tutti i laghi ipersalini, nessuno è tanto vasto, così profondo e privo di abitanti pluricellulari. Nonché misterioso nelle sue trasformazioni. Intorno agli anni ’60 dello scorso secolo, per l’effetto di un programma di irrigazioni lungo tutto il corso del fiume di Giordania, che fu fatto partire proprio in concomitanza con un calo significativo delle piogge stagionali, l’antico bacino idrico subì una significativa metamorfosi. Dove non poté arrivare l’inarrestabile geologia, fummo noi, bipedi pensanti ed operosi, a fare il danno senza precedenti. Fin dalle origini delle ancestrali civiltà, il Mar Morto era ben diviso in due strati molto differenti: quello superiore, con una salinità di 342 parti per migliaio e una temperatura che poteva raggiungere anche i 37 gradi centigradi, e la parte inferiore degli abissi semi-tenebrosi al di sotto dei 35  metri, non più caldi di 22 gradi. Qui, nel mezzo di una saturazione assoluta di molecole NaCl (cloruro di sodio) così tanto diffuso che le precipitazioni dalla superficie non potevano aggregarsi ulteriormente all’acqua, finendo sul fondale, si nascondevano alcune timide forme di vita, come l’alga dunaliella e gli halobacteria, micro-organismi che si nutrono di rara luce ultravioletta, la cui membrana cellulare, cosa fuori dal comune, resisteva alle ruvidità di un tale ambiente. Un potere straordinario dato dall’evoluzione. Ma gli ecosistemi rari sono delicati per definizione, e l’improvviso venire a mancare di un apporto tanto ingente di acqua fresca e pura cambiò i rapporti di potenza fra le parti in gioco.
La sostanza della superficie, improvvisamente raffreddata, perse il suo primato di minore densità, cadendo inarrestabile verso il profondo e mescolandosi come l’oceano latteo della mitologia indiana. Si stima che entro il 1978-79, dove prima c’erano due zuppe, ne era rimasta solamente una.

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Semi-sepolti dalla schiuma che dilaga

SEFS Foam

Pensate ad un deserto, con le sue dune dolci ed ondulate, agevole rifugio dai pensieri troppo prepotenti. Oppure al mare in tempesta, molecole spumose in una danza disinvolta, tripudio della noncuranza elementale. Ciascuno estremo dello spettro che si estende fra: umido e riarso, non presenta bordi aguzzi, né punte frastagliate, o spine penetranti. Siamo noi che amiamo vivere fra rocce, spigoli, ruvide muraglie di vegetazione. Da che Prometeo ci plasmò nel fango, siamo come dei cerini nella tasca del piromane, perennemente pronti a deflagrare. Fra tutte le sostanze della polla primordiale, lo zolfo alberga nei capelli degli umani. Soprattutto per questo ci affascina, la neve. Proprio quando il gelo dell’inverno acuisce la meteopatia, quel soffrire d’atmosferici disagi, è allora che il suo manto cala di soppiatto sulle cose, sulle case. E in un mattino di novembre, d’improvviso, ci svegliamo rinnovati assieme al nostro ambiente; non rimane proprio niente. Sparito l’asfalto delle strade. Dileguato il marciapiede, il brecciolino. Consumato dalla bianca mietitrice è il fosso sdrucciolevole, come il preminente colle, persino lo svettante altorilievo. Tutto è liscio e di un colore, solamente. Che sollievo. Non c’è verso di bruciare, anzi! Pare quasi di librarsi.
Però il giorno-tipo più difficile, probabilmente, è proprio quello: di chi gestisce il vero volo, per mestiere. Piloti che vivono nell’aria, quasi sconosciuti ai propri cari; oculati conduttori, circondati dagli schermi e le incombenze dal tremendo caos dell’apparenza, il traffico a tre dimensioni; hostess premurose, di passeggeri indelicati. L’unico rifugio è l’hangar, l’onirico covacciolo dei draghi col reattore. Qui dormono gli aerei, indisturbati, sotto l’occhio dei guardiani. Gli addetti al rifornimento, alla manutenzione, i co-protagonisti mai narrati di quel mondo poetico e (occasionalmente) un po’ pericoloso. Che ricompaiono nel presente video, registrato presso il Prince George Airport. Siamo nell’omonima città, sita nella British Columbia, vasta regione ad ovest del Canada. Qui avevano recentemente installato, e dunque destinato al primo test, un foam system per proteggersi dal fuoco. Era un CA-FS, anche detto Self Expanding-FS, ovvero il mirabile marchingegno che produce schiuma.
Quanta schiuma serve per riempire un hangar concepito per maestosi aeromobili di linea? Ecco…Fate prima a stabilirlo con i vostri occhi. Lo spettacolo è stupendo, pletorico, o in una duplice espressione: assolutamente soverchiante.

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La fuga fluidifica delle formiche in fiamme

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Foto di Steve Jurvetson – Via

Il più grande equivoco del mondo è la clessidra, perché osservarla ispira un senso macroscopico di calma. Come per l’acqua della pasta che non bolle o l’autobus che tarda se si guarda la lancetta, la percezione del tempo non migliora grazie all’attenzione; sarebbe a dire che diventa più precisa, troppo dettagliata. E si dilata oltre ogni limite della pazienza. Ogni particella nella risibile strettoia vetrosa, ciascun singolo granello del minuto, parrà discendere per la flemmatica storia geologica della creazione. Macigni, poi pietre e quindi polvere, per sempre destinata a scivolare, nello spazio di una doppia pera trasparente, eternamente rigirata. Eppure: implacabile è la gravità. Nel moto eruttivo della sabbia c’è una terribile determinazione, ovvero l’implacabile bisogno di cadere. Con costante accelerazione data da una mente minerale, fuoriesce. Sempre più vuota, sempre più veloce, possibilmente tutta assieme. Soltanto una volta riformatisi immutata, la pletora di granuli si acquieta soddisfatta. La mente umana non funziona a questo modo. Ciascun individuo, sospinto dai bisogni e desideri di quel mondo percepito, la macchina teatrale del sovrano mesencefalo, si muove in una direzioni differente. Alcuni cercano il potere, altri la realizzazione autogestita. C’è chi persegue trionfali meriti sportivi, mentre altrettante persone, dal canto loro, bramano i piaceri ineffabili dell’intelletto. Questo non è un vero problema, nella maggior parte delle situazioni ed anzi… La ripartizione delle competenze è tra i maggiori meriti della moderna civiltà. Specializzazione, che beltà, qualcuno mi dirà: medici studiano, per tutta la la vita, un organo appena, magari due. Astronomi ricercano, per generazioni, l’aura tiepida di un solo astro, stranamente mai segnato sulle carte. Ma entrambe le categorie periscono allo stesso modo, in determinate situazioni. Sarebbe a dire, incendi! Inondazioni! Terremoti! Questo perché persino loro sono fondamentalmente come le lucertole, oppure le formiche.
1990: il fisico e neuroscienziato americano Paul D. MacLean pubblica il suo studio più celebre, The Triune Brain in Evolution, prima esposizione del concetto del cervello trino. Padre, figlio e coccodrillo: ovvero neocorteccia, sistema limbico e complesso del rettile, che da solo li sostiene tutti quanti. Questa teoria, oggi largamente accettata negli ambienti rilevanti, individuava nelle formazioni anatomiche del cogitatore umano tre sezioni, ben distinte in villi e cavilli, tra materia grigia e sàpida mielina, ciascuna derivante da un diverso stadio dell’evoluzione. Utile, questa suprema distinzione. Soprattutto per comprendere una cosa. Che una volta eliminati i già citati vezzi personali, le rispettive preferenze, ridotta la condotta degli uomini ai suoi minimi termini, diventiamo tutti uguali. Nei campi isoprassico, specifico, sessuale, territoriale, gerarchico, temporale, sequenziale, spaziale e semiotico, siamo sospinti da una logica rigida e invariabile. Il bisogno di procedere, andare “a meta” a tutti i costi. Se dovessero spegnersi gli altri sistemi correttivi, ritorneremmo come bestie, quello che una volta siamo stati. Cosa che a volte si verifica, per un largo ventaglio di motivi. La causa più frequente è il timorpanico, l’irrefrenabile paura.

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