Ruote che trasportano 810 tonnellate

Belaz 75710

Che le navi siano molto grandi, alcuni aerei piuttosto imponenti e i mezzi da strada relativamente piccoli, è una considerazione di massima, non una barriera insuperabile della moderna ingegneria. I tre diversi elementi dello spostamento motorizzato, indubbiamente, sono conduttivi alla scelta preferibile di stazze differenti, ciascuna più economica nello specifico ambiente operativo, o maggiormente efficace per lo scopo. L’aerodinamica, di per se, non è una maestra particolarmente permissiva. Ma va considerata la maniera in cui il contesto, persino per i mezzi di trasporto, sia ciò che da il passo alla sinfonia meccanica di sottofondo. Penetranti e leggiadri come flauti traversi, minuscoli aeroplani o elicotteri colorano gli spazi tra le nubi e assistono quello strano desiderio del turismo nella stratosfera. E chi li occupa, per sua fortuna, guardando sempre verso il basso, si sposta dall’interno del parcheggio aeroportuale verso il mare, ove osserva le altre eccezioni della regola veicolare, splash. Perché proprio lì, viaggiano barchette o vaste navi, rapidi catamarani. Tromboni fra le onde o elettrici violini, a seconda di quello che serve, ovvero andare particolarmente forte. O trasportare molte cose. Lo stesso avviene, in determinati e specifici settori, anche su strada e guarda qui: questo è Belaz 75710 dell’omonima compagnia operante nel Belarus, il camion da miniera del domani. A pieno carico, raggiunge le 810 tonnellate. La sua plancia di comando, con pratica cabina fuori-centro, ricorda da vicino quella di un traghetto. Il raggio di sterzata, invece, sarà probabilmente paragonabile all’agile deambulazione di un qualunque Jumbo Jet (19,8 metri).
Si usa attribuire il record mondiale di veicolo stradale più imponente a mezzi assai specifici, pezzi quasi unici dell’umana civilizzazione. In particolare, dal 1978 tale alloro è stato riservato al mostruoso Bagger 288, la miniera semovente e del tutto autosufficiente, che la Krupp ha costruito per la compagnia tedesca Rheinbraun. Tale mostro seghettato può scavare 240.000 tonnellate di carbone al giorno e ne pesa, lui stesso 13.500. Nel 2001, terminata la spietata vampirizzazione della miniera a cielo aperto di Tagebau Hambach, il titano è stato fatto muovere, sui suoi colossali cingoli per 22 Km, fino alla Tagebau Garzweiler. Quel breve spostamento ha richiesto 15 milioni di franchi ed ha comportato la deviazione temporanea di un fiume e un paio di autobahn. Quale incredibile miracolo della tecnologia! Prima ancora, c’era stato il celebre Crawler-Transporter, il cingolato che portava in posizione lo Space Shuttle, in quel di Cape Canaveral, Florida U.S.A. Due, ne avevano costruiti, ciascuno misurante 40×35 metri e in grado di sviluppare giusto quei 5500 cavalli, lungo una strada appositamente costruita di 5,6 Km. E ogni volta, era una festa per gli occhi, e le orecchie degli astanti.
Ma si può davvero attribuire, in buona coscienza, un record così importante a tali cose fuori dal comune? Una qualsiasi automobile, da che esiste tale concetto, è un mezzo di trasporto popolare. Il privilegio formato di potersi muovere senza limitazioni, finalmente messo alla portata di chiunque avesse qualche soldo da investire e un piccolo garage, possibilmente (laddove prima, invece, servivano schiavi e portantini, stalle, vasti magazzini). Dunque, perché non prendere ad esempio tali e tanti strani mezzi, mai prodotti in serie…

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Come volano i ciclisti coreani

Cicloaerei coreani

291 metri, apperò! Avvenne così, nel continuo tentativo di ridurre il peso degli aerei, che si giungesse a fare a meno del motore. Integrandolo, senza colpo ferire, con la figura del pilota stesso. È una forma veramente nuova, per un velivolo in grado di staccarsi dal terreno sulle proprie forze, si, ma solo per qualche minuto. Giacché anche andando verso le destinazioni verticali, l’uomo non può perdere di vista l’orizzonte. E raggiungerlo, anche concettualmente, richiede un certo numero di pedalate.
L’erba verde giaceva immobile presso un piccolo aeroporto di Goheung, isola sulle propaggini meridionali del paese suddiviso in due metà. 4 aprile del 2013: Senza un filo di vento, né impazienza. Sospesi tra colline verdeggianti e il mare, ecco un gruppo di sportivi, pronti a sfidare i limiti delle presunte circostanze. Sarebbero in effetti, costoro, i giovani ed atletici rappresentanti del KARI, l’istituto aerospaziale coreano, alle prese con l’annuale sfida, regolarmente indetta, di un antico fascino per la moderna civiltà. Volare, senza l’assistenza d’altro che dei propri muscoli guizzanti, alimentati grazie alla benzina di un gran piatto di kimchi (pietanza nazionale) a far le veci di un prezioso, assai gradito carburante. Niente inquinamento, né lungaggini d’imbarco. Prendere semplicemente il volo, dopo aver preso la rincorsa, come teorizzavano i sapienti, osservatori degli uccelli liberi e incostanti! Eppure comunque, sempre per il tramite della tecnologia. Se bastasse battere due ali fatte con la cera, oggi stimeremmo Dedalo, al posto dei fratelli Wright. E Leonardo avrebbe avuto la sua pista a Fiumicino con sei secoli d’anticipo, anno più, anno meno.
Guardateli, sopra quelle folli macchine volanti. Guardate quelle macchine, tra l’altro. E osservate, soprattutto, la follia ingegneristica che le contraddistingue, un sinonimo, da che esiste il tempo, di genio e sregolatezza. Questi veri e propri velocicli-fatti-per staccarsi dal terreno, piuttosto che di un solo pezzo di allumino, sono composti da intricate reti e agganci in fibra di carbonio. Le loro ali, piegate verso l’alto come quelle di un aliante, hanno l’unica membrana di una pelle in microfibra, o plastica di qualche tipo. Un intero mezzo come questi, generalmente, non raggiunge neanche i 40 Kg di peso, risultando quindi l’elemento meno oneroso, nell’imprescindibile diade guidatore-aeromobile.  Per la “cabina” di comando, poi, c’è ogni tipo di diversa soluzione: alcuni piloti si accontentano di un piccolo sellino, con due ruote tipo il carrello da ristorante, su cui stare faticosamente in equilibrio nella fase di decollo. Altri adottavano approcci più complessi, con carene dall’aspetto spiccatamente motociclistico, concepite per massimizzare la scorrevolezza aerodinamica. Uno dei concorrenti, addirittura, si era fatto rinchiudere in un cabinato semi-trasparente, che avrebbe dovuto favorire la riuscita dell’operazione ma invece si rivela, alla prova dei fatti, di gran lunga troppo pesante. I risultati, ciò è palese, possono variare.
Non sapete quanto!

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L’Australia invasa dagli uccelli che odiano le biciclette

Australian Magpie

E invece amano i cani. Settembre-Novembre, dolce primavera. Germogliano sui rami, le future sagome dei fiori. Crescono piante da ogni dove, addirittura sopra i caschi dei ciclisti, d’Oceania. È una contromisura. Primavera, tempo di far spazio per la prole: e un po’ ovunque in giro per le strade cittadine, ma soprattutto presso le ciclabili chissà-poi-perché, compaiono dei nidi esposti in bella vista sopra le biforcazioni degli arbusti, con 2-5 uova bluastre, ovali, dal diametro massimo di 28 mm. Chi le ha può averle costruite, dico io, se non Cracticus tibicen, la gazza australiana! Che non è propriamente una gazza in senso europeo, ovvero il parente prossimo del corvo. Era normale infatti, durante l’epoca delle colonizzazioni, assegnare i nomi agli animali sulla base della somiglianza. E indubbiamente questo uccello, lungo intorno ai 40 cm, con la sua colorazione bianca e nera, le lunghe zampe e il verso modulato, poteva ricordare da vicino la famosa ladra addomesticata dell’opera di Rossini, benché molto più prolifica e presente. Ma siamo di fronte a tutta un’altra cosa. Che si riproduce in forma di piccoli pulcini rosa, non come quell’altra, attraverso graziosi batuffoli nerastri già formati. E lo fa di continuo, di continuo, esattamente come gli altri 22 membri della famiglia degli Artamidae, o passeriformi australiani. Nessuno intelligente, adorabile, e malefico quanto lo è lei.
Guardate, per comparazione. la povera Amber di Amber and Billo’s, un programma radiofonico d’intrattenimento, mentre si ritrova qui a gestire quel particolare comportamento della volatrice australiana, estremamente aggressivo, che gli etologi definiscono swooping. Lei percorre pedalando, in preda alla paura, il solito tragitto casa-lavoro. Già preoccupata, perché ben conosce ciò che sta per accadere. Le gran signore pennute di quei luoghi sono abituate, ormai da tempo, alla presenza degli umani. In ogni bbipede manifestazione, tranne una: la bicicletta. Questi uccelli, già marcatamente territoriali come propensione, nella stagione in cui depongono le uova si trasformano in feroci guardiani della loro casa, pronti a difenderla sulla punta dell’ultimo becco. E proprio questo fanno, ripetutamente, ogni qualvolta si avvicina un presunto nemico, sferragliante, con manubrio e con sellino, l’ibrido tra due ruote, due gambe ed una testa. Soprattutto questo, la dannata testa. Del malcapitato di turno, sopra cui la gazza piomba come un falco della notte. Ci sono diversi gradi d’intensità. Dapprima l’uccello si limita a volare tutto attorno, gracchiando la sua furia preventiva. Quindi inizierà a colpire con il petto il retro del casco, facendo schioccare minacciosamente il becco. A quel punto, se l’intruso non si è ancora allontanato a sufficienza, inizierà a colpire.

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L’unico mezzo per fermare gli tsunami

Bulldozer subacqueo

Ricetta di Mr. Komatsu contro le onde sismiche devastatrici: molta terra, un po’ di ferro, due vagoni di cemento. Ma che siano ben posizionati, ah, strategicamente. Il Giappone ha un’esperienza pluri-secolare in simili questioni, anzi, si potrebbe quasi dire che c’è nato; da sempre sotto assedio, dai tifoni, dalle piogge alluvionali, dalle orde mongole di Gengis Khan. Ma persino il Mega Terremoto, non fu nulla. Al confronto di quella marea che sale, virulenta, poco prima di salire ancora, fin sulla cima dei palazzi e delle case dei nostri consimili purtroppo sfortunati. Per poi tornare indietro, lasciando, come un cobra ormai satollo, un rigurgito di scorie, le ossa ormai scarnificate di una povera esistenza. E non parliamo poi di Fukushima, la centrale. Cosa fare innanzi a questo, come superare il disastro, senza un’ulteriore dispersione di sgradite radiazioni nucleari? A mali estremi…
Due torri verdastre si ergono dall’increspata superficie della fredda baia di Iwate, presso la città costiera di Kamaishi, sulle propaggini settentrionali dell’isola di Honshū, la maggiore delle tre. È una scena alquanto fuori dal comune. Bizzarra: fra le alte mura di argini ciclopici, in mezzo a cumuli di tetraedri colossali, usati anch’essi per smorzare lo smorzabile, al bisogno in bilico fra notte e dì, si aggirano le nostre tozze ciminiere. Sono pinne di uno squalo, sono i simboli dell’epoca industriale. Sono bestie vecchie e rugginose, palombari di 40 e passa tonnellate. Bulldozer, questi, che camminano sul fondo della questione (hai voglia, a farli galleggiare!) D155W, si chiama(va)no, con “molta” fantasia. Bestie, dico, perché di piloti, non v’è traccia, alcuna. Ovviamente. Unico segno di vita, due persone a cavalcioni sui muretti del complesso cementizio, gli ultimi bastioni della civiltà. A guardarli molto bene, costoro armeggiano con qualche cosa, una scatola, il TELECOMANDO! È un’idea piuttosto intelligente, questa qui, della Komatsu. Nessun castello, non importa quanto grande o poderoso, può resistere più a lungo dei suoi difensori. Anche la grande muraglia di Kamaishi, lasciata a se stessa, non durerebbe neanche una generazione.
E le Grandi Onde non sono nulla, meno che determinate; pur se non riescono a passare, volta dopo volta, un anno e quello dopo, oltre tali spaventose fortificazioni, qui trasporteranno un vero e proprio monte di rifiuti e sedimenti. Finché a un certo punto, molto presto, quel bacino potrà essere riempito, ahimé. Diventando una pratica rampa per la coda del dragone, in ghingheri maestosi, da salire fino al municipio della nostra inerme civiltà.

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