Autista tenta d’imbarcarsi usando due assi di legno

Amazon Hilux

Così si è giunti fino a questo attimo di pericolo e profonda paura: un molo stretto, un grosso pick-up Toyota, portuali e stivatori che battono nervosamente il piede. Un’intera carriola di blocchi di legno! (Assi? Scatoloni?) Stanca di attendere per il suo turno. La gente che grida per spronare innanzi l’automobilista. E un capitano del battello, indubbiamente, pronto a rimproverarlo per il tempo perso. Perché alla fine, in Brasile, non si può comprendere il motivo dell’esitazione dimostrata da un simile pavido visitatore. Ci sei venuto, fino ai limiti del mondo, per conoscere le piante e gli animali, poter dire di aver esplorato la foresta più pluviale e poetica del mondo; quindi adesso, pedala. O per meglio dire, molla la frizione (delicatamente) e spingi un poco sopra l’acceleratore (con la punta del tuo piede destro) avanzando sopra il fiume che separa te, dal tuo solcaflutti obiettivo, dalla stiva cupa ed accogliente. E noialtri dal tempo e dal momento di partire, verso le destinazioni poste un po’ più a valle lungo il fiume del Rio Negro. Non c’è proprio nulla da temere, visto l’impiego di un simile metodo di salvaguardia brevettata (ufficio tecnico: seconda palma a destra): due “assi” di un materiale non del tutto definito, ma probabilmente “legno” appoggiate in senso parallelo a quella riva ormai distante. Perfettamente distanziate in base alla larghezza del veicolo di turno e poi appoggiate, apparentemente senza nessun tipo di fissaggio funzionale, al ciglio di quella propaggine sui pali, digradanti verso la distante pancia dell’imbarcazione. La ragione di una tale scelta, osservandone i drammatici momenti via questa registrazione, appare poco chiara. È possibile che il fondale fosse troppo basso per avvicinare maggiormente i due mezzi di trasporto, come pure che il traghetto disponesse unicamente di un portello posto su di un lato. Il che in un ambito fluviale, dove lo spazio a disposizione quello è, tale resta, significa sostanzialmente dover approcciarsi con angolazioni meno che ideali. Ma simili considerazioni, a conti fatti, contano davvero molto poco. Provaci tu a dire, in simili momenti: “Torno indietro!” Così l’uomo, il cui volto e nome non ci sono noti, compie il primo giro di ruota e si ritrova sopra il baratro senza speranza di ritorno. Già il suo passo carrabile pare piegarsi in modo orribile, mentre ciascun singolo spettatore a posteriori, ma che non conosca l’esito finale, sarebbe pienamente pronto a giurare che quell’auto cadrà giù, fin sul fondale delle cose. Quindi avanti, solo avanti deve andare….
C’è un detto americano che recita: “Se sembra stupido ma funziona, amico, quello non è affatto stupido.” Aforisma, questo, che normalmente evoca in qualcuno dei presenti la tipica risposta: “No, sei stato solo fortunato.” Ed è in effetti altrettanto probabile, nel dipanarsi di un tale pericoloso frangente, che gli abitanti e lavoratori del posto avessero già in mente la perfetta procedura, già testata molte volte, come del resto, invece, che la stessero improvvisando sul minuto. Il fatto è che una rampa d’acciaio simile a quella impiegata nei nostri traghetti del Mediterraneo ha un costo niente affatto indifferente. Ma soprattutto, per essere posizionata ad ogni imbarco, necessita di meccanismi motorizzati o un qualche tipo di gru, sistemi tutt’altro che accessibili in un luogo come la regione settentrionale di Parà in Brasile, probabile scenario presso cui è stato registrato il video, ad opera di un passeggero posto sul ponte più alto dell’imbarcazione stesso. Si, è vero: dal bisogno e dall’assenza di altre strade nasce l’inventiva, come ampiamente dimostrato a margine da esperimenti comportamentali o l’esperienza di tutti coloro che, ritrovatisi in difficoltose situazioni, scoprano risorse nuove o inaspettate. È una prassi comportamentale che accomuna tutte le forme di vita dotate di doti significative. Se affamato, un cane aguzza il proprio olfatto. Un gatto salta un po’ più in alto, scova i più nascosti topi della notte. Mentre un sapiens, la cui dote principale resta sempre quella, nella zucca e grigia di volute, diventa ANCORA più intelligente, persino più furbo e in grado di comprendere le implicazioni del momento. Tranne quella forse più incomprensibile: come, in effetti, quell’autista sia riuscito a mettere il suo camioncino di traverso, sopra un molo largo esattamente quanto la distanza tra i suoi fari!
È chiaro che potendo scegliere, se ci fosse un afflusso continuo di veicoli intenzionati a transitare sopra il fiume in questione, che potrebbe anche essere il Rio delle Amazzoni, soluzioni d’altro tipo avrebbero sostituito quella delle assi parallele. Però guardate qui: ah, funziona. La ragione non è totalmente chiara. Vedere un materiale che si piega fino a un tale punto, soprattutto se apparentemente di recupero come quello qui mostrato, farebbe pensare di essere davvero prossimi al disastro. Lo stesso acciaio, ad esempio, può tendere a mantenere la sua forma, ma dopo un certo numero di utilizzi tanto estremi, tenderà a formare una gibbosità piuttosto apparente. Il che, nel momento in cui la propria macchina, e potenzialmente vita, sono affidate alla sua capacità di far da ponte, non è certamente desiderabile, né appropriato. Tra le teorie più interessanti a margine del video, c’è quella che vedrebbe le due assi come costruite in noce brasiliano, altresì detto Ipe, un legno noto per la sua estrema resistenza anche in situazioni di passaggio continuo e ripetuto, come il famoso lungo mare di Atlantic City, nel New Jersey. Che tra l’altro, non ha proprio nulla a che vedere con il genere juglans, cui appartengono gli arbusti omonimi del nostro continente. O in alternativa potrebbe trattarsi di Pau Ferro, un materiale affine al palissandro e spesso usato per costruire le chitarre. Entrambi tanto duri da avere l’abitudine, più volte reiterata, di smussare o fare a pezzi gli strumenti di chi tenti di lavorarli. Perché tale, è la forza della natura intesa come interminabile foresta vergine, carica di mistici segreti. Ma tutto questo non è nulla, in confronto alla furia incontenibile di Poseidone…

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L’eleganza tecnica dei cacciabombardieri europei

Mirage 2000

Basta guardare indietro, seppure brevemente, alle innovazioni tecnologiche di questo scorso secolo per rendersi conto che la globalizzazione non è fenomeno soltanto culturale. Il nuovo flusso dei commerci e la possibilità di trasmettere, da un lato all’altro della Terra, qualsiasi metodo scientifico verso il progresso, ha sostanzialmente appiattito l’approccio creativo nel creare soluzioni problematiche complesse. Ciò nel senso che, quando qualcuno, in qualsivoglia continente, progetta un nuovo tipo di motore, carburante, strumentazione di bordo per automobili o natanti, nel giro di appena qualche annetto saranno milioni le persone in grado di apprezzarne i vantaggi, magari sotto un nome ed etichette differenti. Perché questo vogliono le leggi del mercato: che chi si ritrovi con le chiavi in mano di una valida invenzione, sia al più presto investito di un flusso di denaro tale da produrla in quantità pressoché illimitate, o in alternativa, ne ceda il controllo a qualcun altro di più svelto, nonché abile a gestirne i presupposti. Esiste, tuttavia, una significativa eccezione a tale regola, che si estende nell’intero areale dello scibile che risponde al nome spaventevole e glorioso della guerra. Fin dallo spegnersi dei fuochi apocalittici della seconda mondiale, ma in un certo senso pure prima, è esistita questa consapevolezza tra i potenti che il disporre di armi potenzialmente devastanti non era abbastanza per sentirsi al sicuro; occorreva, parimenti, che il proprio nemico non potesse dire altrettanto. Questo perché nei cieli e sui campi di battaglia dell’ultimo secolo, sostanzialmente, si è raggiunto un grado di possibile devastazione tale che nemmeno il più prudente ed abile dei generali, coadiuvato da soldati all’avanguardia, potrebbe mai riuscire a risparmiare gravi danni al territorio, le sue risorse, i suoi abitanti. Così un conto è il tipico contratto di lend-lease, per cui i paesi alleati si forniscono a vicenda gli aeromobili, ma per ciascun corpo d’armata dedito alla protezione dei cieli il velivolo migliore sarà sempre, se presente, quello progettato in situ, sulle specifiche esigenze e con il massimo contenuto tecnologico a disposizione. Gli aerei bellici, come del resto le più famose armi da fuoco o carri armati, non soltanto raggiungono l’apice del progresso grazie ad un sforzo continuo di menti eccellenti, ma dovranno farlo, alla stessa maniera di bruchi che percorrano la cima di un arbusto, lungo quelle numerose diramazioni che sono i paesi contrapposti. La scena geopolitica è in continuo mutamento: al punto che talvolta può bastare poco, come la scintilla di un accordo commerciale andato per il verso sbagliato, o l’offesa percepita da una particolare decisione ai vertici di un complesso accordo diplomatico, perché si scaldino i motori a ugello e venga l’ora di partire, pattugliando attentamente i territori di confine. E se dall’altra parte, anche “Loro” saranno in grado di farlo, per lo meno “Noi” sapremo questo: i nostri aerei sono migliori. Che siano russi, americani o frutto delle occasionali quanto fruttuose collaborazioni tra le principali nazioni del vecchio continente, ciascun velivolo ha dei punti forti che riescono a distinguerlo dai suoi rivali. L’apporto finale del resto, ciliegina sullo stato dell’arte di cui parlavamo poco sopra,  sarà sempre frutto del coraggio e delle doti del pilota.
Mani e menti umane come queste alla guida di ottimi caccia Mirage 2000, idealmente, tanto perfettamente e poeticamente rappresentate in una sequenza lunga 3 minuti e mezzo, creata a partire da diversi momenti del film francese del 2005, Les Chevaliers du ciel (Gérard Pirès) ispirato alle avventure fumettistiche di Tanguy e Laverdure, eroi che spopolarono tra Belgio e Francia nel corso degli interi anni ’60. Il fatto che l’intera appaia tanto realistica, persino in quest’epoca di grafica computerizzata estremamente pervasiva, non dovrebbe in effetti sorprendere nessuno, visto come alcune elle scene del film siano state realizzate grazie all’impiego di un serbatoio da ala per aerei a reazione appositamente modificato, impreziosito da un’ampia serie di telecamere sull’intero corpo della sua cilindrica esteriorità. Fino al momento dell’incredibile battaglia su Parigi, girata con il permesso dell’amministrazione cittadina durante le annuali celebrazioni per la festa nazionale della presa della Bastiglia, con una notevole quanto rara corrispondenza tra il momento effettivo della messa su pellicola e il teorico teatro dello scontro immaginifico nei cieli; gli aerei che sfrecciano in formazione serrata, vibrano delicatamente sopra l’orizzonte. Le figure geometriche da loro disegnate sul confine delle nubi: il susseguirsi di una simile sequela di momenti potrebbe costituire, così messa a parte dalla trama e dai dialoghi del film (che possono piacere o meno) la migliore rappresentazione di quello che l’uomo in volo è riuscito a rendere possibile nei nostri giorni, in cui neanche più esiste una connessione fisica tra gli alettoni e la cloche di comando. Tutto è automatico, robotizzato, oltre ciò che possa dirsi raggiungibile nel corso di una vita sola. La fisica applicata, sopra l’ingegneria, sopra il realistico bisogno di proteggere un’identità nazionale. E in cima alla piramide, sopra un’antenna sottile quanto la punta di uno spillo, lui che lancia il suo segnale, colui che affronta “Due ore di noia…” Seguite dai “Quindici secondi di assoluto terrore!” Il moderno pilota da caccia o attacco al suolo.

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Il più piccolo motore elettrico per biciclette

Add-E

Se voglio un computer più potente, normalmente, compro qualche pezzo e lo sostituisco a quelli che già ho. Se invece trovo che il mio smartphone non riesca a far girare l’ultimo giochino variopinto con le candies da mettere in ordine in base al colore, c’è una sola possibilità: accantonarlo e prenderne uno nuovo. È la prassi del moderno consumismo in aumento progressivo, così riflessa addirittura nei due mondi tecnologici affini, ma pur sempre separati nella nascita da una ventina d’anni, o giù di lì. Due decadi davvero significative, in questo come molti altri campi, vedi tutto ciò che è in busta o confezione, scatola o pacco di cartone, che si accumulano senza posa né pietà. Poi ci sono determinati campi della produzione industriale in cui, tutt’ora, è possibile che l’individuo scelga come comportarsi. E voi, la vostra bicicletta, in quale zona d’influenza vorreste collocarla?
Si tratta di un approccio decisamente semplice e diretto: tizio ama fare moto e mantenersi giovane, tizio usa la sua pedalata tutti i giorni per andare fino al lavoro. Ma c’è un problema, ovvero la salita ripida verso metà tragitto, che gli costa, nonostante l’ottima forma fisica, ogni giorno dieci, quindici minuti di fatica. “Una roba da nulla!” Dirà subito qualunque appassionato di ciclismo, che simili sfide freme d’affrontarle ogni qualvolta se ne offra l’opportunità. Però pensiamo pure che un intero anno si compone di 36 decine e mezzo di giornate, e che talvolta si può essere più stanchi del consueto, che magari la temperatura sarà troppo elevata, oppure ci si ritrova fiaccati da un gravoso raffreddore transitorio. Cosa fare, allora… Si compra un biglietto dell’autobus, magari, oppure (col grigio nel cuore) si è costretti a prendere la quattro ruote di famiglia, con conseguente dispendio di benzina, tempo e stress di guida – quanto è duro il traffico, soprattutto se non ti appartiene. La soluzione, come spesso capita nel campo dei trasporti, appartiene al regno della splendida tecnologia: puoi prenderti una pedelec, la bici con la pedalata assistita, che rigorosamente non è un motociclo, poiché risponde a determinati crismi produttivi, e soprattutto non si muove nemmeno, a meno che l’utilizzatore non contribuisca coi suoi muscoli a far muovere le ruote.
Perfetto, ideale. La problematica è risolta, e c’è nacora la ragione di sudare. Soltanto che hai speso bei soldi e ancora peggio, ti ritrovi con due bici nel garage. Certo l’altra puoi venderla, però è un peccato. Forse ci sei davvero affezionato. Così nasce l’approccio contrastante, di questa nuova classe di dispositivi elettrici, fatti per essere montati sul telaio già in nostro possesso, che sostanzialmente bastano a trasformare il ruolo e il senso di un convenzionale velociclo. Ultimamente ha fatto parlare molto di se la proposta del Senseable City Lab, azienda nata come costola del prestigioso istituto universitario del MIT, che consiste in una soluzione tout court della questione: un’intera ruota con motore e batteria integrati, concepita per essere montata nella parte posteriore del veicolo a pedali, con fino a 350 Watt (cento di meno in Europa, come da regolamento stradale) di potenza e 50 Km di autonomia. “Interessante…” Devono aver pensato i tre ragazzi della Add-E austriaca, un’altra startup operante nel settore della mobilità a basso impatto ambientale: “Ma può essere semplificato ulteriormente!” E così beh, giudicate un po’ voi. Questo loro primo prodotto, omonimo all’azienda, è un attuatore compatto che si monta, a scelta, in prossimità dei pedali o del sellino della bici, e che grazie a un rullo a contatto con la ruota riesce a sviluppare una spinta significativa, per tragitti lunghi fino a 50 Km per una singola ricarica della sua batteria stealth, con la forma nientemeno che di una bottiglia da ciclismo. Tanto per provare a…Scoraggiare…I furti?

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I treni che in Australia non richiedono binari

Road Train

La logica di un mondo proiettato verso innumerevoli punti di fuga, ciascuno logica, ed inevitabile conclusione di un particolare filo conduttore di ricerca: Internet, sei piena di caselli. E metodi di spostamento, differenti tra di loro quanto quelli fisici, con i semafori del mondo. In origine era il modem telefonico, ruggente, squillante scatola facente le funzioni della fila innanzi al varco, ciascuno per pagare l’obolo, prima di andare verso l’obiettivo. Mentre oggi, volando sulle bande larghe di altrettanti e veri jet di linea, viviamo un viaggio che al momento di partire, grossomodo, è già concluso. Ma questo non significa che manchi la motivazione della gente per approfondire, anzi! Giusto verso la metà della scorsa settimana, presso quel grande catalogo d’esperienze che è la board autogestita del portale Reddit, si è personalmente presentato l’individuo noto come Ozdriver, un camionista proveniente dalle lunghe, polverose strade degli antipodi, laggiù nel quinto continente. Ed a farlo ben volere tra l’utenza soprattutto americana, ci ha pensato il suo carico di foto, video e racconti da quello che è un mestiere assai diffuso in quasi ogni paese del pianeta (fanno eccezione i luoghi come il Principato del Liechtenstein, oppure il Vaticano) ma che varia in modo eccezionale in base al luogo, al tempo ed alle circostanze. E in nessun luogo il gesto del trasporto stradale devia dalla norma del senso comune, maggiormente che in Australia, dove le strade sono luu-unghe, diritte, totalmente prive di una qualsivoglia distrazione. Tranne quella, qui scopriamo, della fotocamera sopra il cruscotto, da usarsi per restare svegli tra una sosta e l’altra, se non altro con lo scopo di mostrare al mondo dei momenti..Straordinari, inaspettati. Testimonianze con finestre sul possibile. Di un mondo in cui l’unico limite è quell’orizzonte che si perde tra la nebbia e la foschia, mentre un migliaio di cavalli/macchina ti spingono, con il tuo carico, verso comunità che non esisterebbero nemmeno, dopo un paio di viaggi mancati dal Road Train.
Tutto ebbe inizio, almeno stando alla leggenda alquanto nebulosa, con l’idea dell’inventore e imprenditore Kurt Johansson di Alice Springs, nei Territori del Nord, la regione più disabitata dell’Australia. Nato nel 1915 e proveniente da una famiglia di noti autotrasportatori, che negli anni ’70 gestiva un’autorimessa e si occupava di condurre a destinazione gli animali dei suoi concittadini, tra l’una e l’altra tenuta di quei luoghi, poste a centinaia di chilometri di distanza. Finché non avvenne, successivamente alla consegna di alcuni tori da monta a 320 km dalla sua sede operativa, che si presentasse la necessità di riportare indietro non 10, né 20 capi di bestiame, ma bensì 200. Una missione semplicemente impossibile per un sol uomo, a meno che…Johansson, che aveva già fatto una parte della sua fortuna grazie all’invenzione di nuovi metodi di propulsione  a legna basati sul principio del biodiesel, oltre che con partecipazioni nell’industria di estrazione salina, non era un tipo da perdersi d’animo. E quando individuava il nesso di un problema, sapeva come affrontarlo con lo spirito risolutivo del pioniere: così, ricevuto un finanziamento di “alcune migliaia di sterline” (la fonte dell’aneddoto è un segmento documentaristico dell’ex-host di Top Gear Jeremy Clarkson) quest’uomo, che oggi è ritenuto l’inventore del Road Train moderno, si procurò in qualche maniera un camion dell’esercito americano, residuato della seconda guerra mondiale, subito ribattezzato Bertha, cui si avvicendò per abbinare due vagoni motorizzati di sua concezione, affinché l’insieme fosse in grado di superare le ripide salite sulla strada verso la destinazione di turno, con tutto il suo seguito di mugghianti, nitrenti passeggeri. La missione fu quindi compiuta, e con essa innumerevoli successive. Il presente nato da una simile trovata è davvero ben esemplificato dal video-racconto di Ozdriver. Le progressive evoluzioni del concetto del primo treno su pneumatici, che risultano a seconda dei casi estendibili a fino 30-40 metri di lunghezza, costituiscono ad oggi la colonna portante dei trasporti tra le comunità dell’outback australiano, dove la messa in opera di una vera e propria ferrovia non sarebbe pratico, né economicamente sensato data la bassa densità degli abitanti. Per simili veicoli, la somma della potenza dell motrice e quella dei motori con trasmissioni automatiche sui vagoni successivi supera facilmente i 1000 hp. La vita di chi si ritrova a guidarli, attraverso simili peripezie, dev’essere tremendamente interessante. E forse, appena un po’ ripetitiva?

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