L’uomo che voleva prosciugare il Mediterraneo

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Oggi è un fatto comprovato dalla geologia: circa 5-6 milioni di anni fa, lo stretto di Gibilterra diventò invalicabile per le acque dell’Oceano Atlantico trasformando di fatto il nostro vasto Mare o “stagno”, attorno al quale secondo Platone: “Le civiltà si accalcano come formiche o rane” in un’unica distesa desertificata, percorribile dall’Africa all’Europa, a dorso di cavallo, droide semovente o diplodoco. L’archeologia, dal canto suo, non possiede prove dell’esistenza di un’umanità sufficientemente antica da aver vissuto una tale epoca, benché esistano teorie: della capitale di un vasto Impero, forse in contatto con gli alieni, costruita con i marmi e gli altri materiali provenienti da ogni angolo del mondo, che avrebbe ospitato ogni saggezza e conoscenza terrestre. Finché non fu sommersa, in forza della riapertura di quel punto di collegamento primordiale, scomparendo così come aveva fatto prima l’intero continente di Mu, nel Pacifico sull’altro lato del continente americano. Ci sono diverse ipotesi, sul perché ciò fosse accaduto: un forte terremoto, in grado di modificare l’interrelazione tra le faglie, o l’estendersi della calotta artica, in forza di una glaciazione, che avrebbe ridotto il livello delle acque del pianeta (quanto ci farebbe comodo adesso!) Il consenso universale, ad ogni modo, è che probabilmente si viveva meglio prima, e che lo spazio andato perduto, in un epoca contemporanea di grandi movimenti internazionali e pregressa ricerca di “legittimi spazi vitali” farebbe molto comodo all’attuale consorzio delle nazioni.
E fu probabilmente proprio per la concezione originale di una simile visione dei fatti che Herman Sörgel, accreditato architetto tedesco/bavarese, riuscì a fare breccia nella coscienza collettiva al termine della prima guerra mondiale, con un’idea che in altre epoche avrebbe suscitato l’immediata ironia dei potenti: unire le forze dell’Europa rimescolata, più forte e tecnologica che mai, nella ricostruzione dell’antico stato dei fatti, costruendo la grande diga che la storia avesse mai conosciuto: 14 Km di cemento con una profondità tra i 300 e 900 metri, e uno spessore impressionante dettato dal peso stesso della ciclopica struttura. L’edificio sarebbe stato coronato da un’avveniristica torre alta 400 metri, simbolo del pacifismo e dell’unione dei popoli. Ma la storia non finiva qui: per imbottigliare ulteriormente lo stagno di Platone, Sörgel avrebbe previsto la collocazione di ulteriori quattro dighe, presso i Dardanelli, tra la Sicilia e la Tunisia, nel bacino del fiume Congo e presso il canale di Suez. Non soltanto riducendo, quindi, il livello del Mediterraneo di stimati 200 metri, ma suddividendo i recessi rimasti sott’acqua in una serie di compartimenti interconnessi su diversi livelli, in grado di mantenere attive alcune delle attività pre-esistenti in queste regioni, quali la pesca ed i commerci via mare. Ciascuna diga sarebbe stata dotata di apparati per la produzione di energia idroelettrica, facendo immediatamente fronte al 30% del fabbisogno dell’intera Europa di allora. Nel frattempo, un’estensione stimata di 576,000 Km quadrati sarebbe stata sottratta ai fondali marini e ri-convertita in terra meravigliosamente fertile, come quella che permise la nascita degli Egizi presso gli argini del sacro fiume Nilo. O almeno, questo era ciò che pensava l’ideatore, che trovando immediatamente una lunga serie di finanziatori, e potendo contare anche sull’appoggio della moglie, facoltosa mercante d’opere d’arte, iniziò una campagna a 360° per promuovere la sua idea. Furono pubblicati libri, pamphlet, venne addirittura girato un breve film. Il visionario viaggiò per il mondo in una serie di conferenze, per poi tornare in patria ed acquisire una certa misura di prestigio presso l’allora fiorente repubblica di Weimar, la cui classe dirigente fece di lui un esempio da seguire di fiducia in un futuro migliore, in cui tutto fosse fattibile ed a portata di mano. Già allora erano ben pochi, assai probabilmente, a credere davvero di poter portare a termine il suo sogno. Ma negli anni ’30 l’idea piaceva, soprattutto per l’unione dei popoli contro un nemico comune (il cosiddetto “pericolo giallo”) che sembrava necessariamente implicare. Poi i venti cambiarono, e con essi il segno delle cose…

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Il disco sacro con l’immagine del cielo primitivo

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“Forse il singolo ritrovamento archeologico più importante dello scorso secolo” 3.600 anni a questa parte, qualcosa di unico venne sepolto sotto il suolo di Nebra, nella Sassonia-Anhalt della Germania. Da qualche tempo l’UNESCO, in aggiunta al suo celebre catalogo dei beni da considerare patrimoni naturali, storici e intangibili dell’umanità, ha iniziato a compilare una nuova lista, intitolata Memory of the World. Al suo interno, furono gradualmente collocati i principali documenti dotati di forma fisica che rischiavano di scomparire dalla nostra memoria, incluse cronache, registri, bolle di stato, manoscritti di corrispondenza… Per sua stessa imprescindibile natura, un simile repertorio si componeva in origine, salvo alcune meritevoli eccezioni, di pezzi risalenti agli ultimi due secoli o poco più. Difficilmente la carta riesce a preservarsi oltre le generazioni e dunque non è facile, costituendo un tale database, riuscire a renderlo retroattivo. Proprio per questo, è una fortuna che non abbia trovato un utilizzo realmente universale almeno fino al secolo della scienza, e che gli antichi, molto spesso, affidassero le loro conoscenze a materiali maggiormente duraturi. Come il bronzo.
Fu un evento largamente inaspettato, e sotto più di un punto di vista, alquanto deleterio. Era il 1999 quando Henry Westphal e Mario Renner, una coppia di cacciatori di tesori abusivi o tomb raiders che dir si voglia, si apprestavano di nuovo a ritornare a casa senza niente di nuovo da inserire nel datario dei loro ritrovamenti. Quando all’improvviso, uno dei loro metal detector lanciò un suono, abbastanza lungo da giustificare un approfondimento. Pale subito alla mano, scavando freneticamente nel crepuscolo (tutti i manufatti archeologici di questa regione sono legalmente proprietà dello stato) iniziarono a spostare il suolo friabile allo scopo di raggiungere l’oggetto, o gli oggetti, che speravano di aver trovato. Finché finalmente, un sonoro CLANG! Annunciò che l’opera si era conclusa. E le due mani lievemente tremule, introdotte nel pertugio ombroso, non ritornarono alla luce con il più bizzarro che fosse possibile immaginare: un oggetto di forma circolare lievemente frastagliato, con la caratteristica colorazione verde-acqua del bronzo ossidato. Sulla cui superficie, i precedenti proprietari avevano incastonato alcuni simboli d’oro, raffiguranti il disco solare, una luna crescente e una serie di tondini disposti a caso, che parevano alludere a una qualche costellazione, probabilmente quella delle Pleiadi. Westphal e Renner lo misero da parte, quindi continuarono a scavare. Molto più interessante nell’immediato, per loro, si dimostrò essere il resto del contenuto della tomba, inclusivo di due spade, due asce, un cesello e alcuni frammenti di bracciali spiraleggianti nello stile dei proto-celti. Tutto venne subito introdotto nel loro sacco da escursione, incluso lo strano oggetto, che nell’opinione non propriamente informata di uno di loro, fu a quanto pare definito “Il coperchio di un secchio” (in metalli preziosi?) Il giorno immediatamente successivo, incontrandosi con un loro contatto a Colonia, i due vendettero l’intero tesoro per la cifra non trascurabile di 31.000 marchi. La quale non era nulla, in confronto a quanto lievitò il prezzo nel corso dei due anni successivi, durante i quali il disco cambiò proprietario più volte, raggiungendo almeno in un caso la cifra di vendita di un milione di marchi. Finché nel febbraio del 2002, l’archeologo di stato Harald Meller non riuscì ad acquisirne il giusto possesso, grazie a una retata della polizia presso la città Svizzera di Basel, dove il disco stava per essere venduto di nuovo a 700.000 marchi. Una breve indagine permise di risalire ai due accidentali scopritori, che furono subito arrestati.
I quali, nel tentativo di ridurre la propria pena, furono pronti a collaborare raccontando della tomba di Nebra che avevano scoperto quel giorno, e l’origine della catena di commercio che li aveva condotti fino a un simile malcapitato momento. Un pezzetto d’oro originariamente fatto separare dal colpo accidentale della pala fu ritrovato presso il sito archeologico, confermando la loro storia. Con tutti i dati in suo possesso, quindi, il Dr. Meller pubblicò un elenco di mirato a convincere il mondo accademico dell’autenticità del disco, inclusivo delle sue possibili funzioni e di quanto fosse significativo per cambiare la nostra concezione della vita nell’Europa primordiale.

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Questo magnifico castello non arriverà a Natale

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Le pale del drone girano vorticosamente sopra i boschi di Namur, Belgio, nella regione rinomata delle Ardenne. D’un tratto, l’inquadratura cambia, ed un tetto estremamente aguzzo inizia a figurare tra le cime degli alberi. L’oggetto volante prende quota, si orienta meglio, punta la sua telecamera in opposizione al Sole: quand’ecco altre quattro punte, poi una torre con pratico orologio, quindi il più fantastico complesso di tetti, archi ed abbaini, prendono a stagliarsi sul paesaggio, come nella cartolina commemorativa di una fiaba di fantasia. Chateau Miranda, questo è il suo nome; un edificio pieno di rumori, refoli di vento, polvere dei secoli ed un fantasma per ogni occasione. Come lo spirito dell’architetto neogotico Edward Milner, che fu assunto nel 1866 dalla famiglia nobile dei Liedekerke-De Beaufort, per costruire una residenza che fosse al pari dell’antico castello di Vêves, doverosamente abbandonato nel corso degli anni turbolenti della gran Rivoluzione dei francesi. O quello dei soldati tedeschi al culmine della seconda guerra mondiale, che qui si ritirarono durante l’apocalittica battle of the Bulge, l’offensiva che preparò la strada all’invasione e successiva sconfitta della Germania. O ancora, l’eco delle grida dei bambini, che a partire da metà degli anni ’50 vennero a trascorrere giorni felici, sotto il patrocinio delle ferrovie dello stato belga, che a quell’epoca potevano disporre delle prestigiose mura a piacimento, e ne avevano costituito un campo estivo unico al mondo. Fu proprio allora, niente affatto a caso, che il castello si guadagnò il soprannome di Noisy (“rumoroso” in inglese) alludendo al suono che produce l’esperienza formativa quanto caotica di ritrovarsi tanto giovani, circondati dai compagni e per la prima volta senza genitori.
Mentre oggi, un altro rombo fa da contrappunto al sibilo volante dell’arnese telecomandato. Un cupo ed insistente ruggito, di possenti motori, cingoli e pale idrauliche che si sollevano verso il cielo privo d’ostruzioni: l’ordinanza è stata approvata, l’anticipo pagato per dare il principio della fine entro ottobre 2016. Ci siamo: oggi stesso, avrà inizio la demolizione. Nulla, di tutto questo, sarà ancora in piedi da un mese a questa parte, mentre i cumuli delle macerie avranno il compito impossibile di ricordare, tanti anni e storie e placidi momenti straordinari. La fine è già segnata, e con esso un fato assai probabile e fin troppo noto: cosa sorgerà al posto dell’antico maniero? Un albergo, un resort, un luogo di ristoro? Una stazione di servizio, un eliporto? Tutto questo, forse, oppure niente. Ciò che resta maggiormente occulta, ad ogni modo, è la ragione di una tale scelta. Perché mai rimuovere una cosa tanto bella… C’è una sola concepibile ragione: di qui a poco, si sarebbe eliminata da sola. Basta infatti avvicinarsi maggiormente all’edificio, riposto l’aeromobile telecomandato nel portabagagli, per accorgersi che c’è qualcosa che non va. Non una, delle circa 500 finestre su cui è possibile gettar lo sguardo, presenta il riflesso rivelatore di una lastra integra di vetro. Mentre il portone principale appare parzialmente scardinato, marcescente, ormai del tutto inutile a tenere fuori chicchessia. E così come nel decennio degli anni ’80, quando un simile luogo fiabesco era aperto al pubblico e nessuno si degnava di venire, adesso che è proibito sono innumerevoli gli “esploratori urbani” che sognano di entrarvi, per assistere alla scena della derelitta civilizzazione. Non c’è incantesimo, stregoneria, mistico sigillo, che possa in effetti nascondere la verità: una volta messo un piede nell’androne un tempo affascinante, ci si trova nella perfetta rappresentazione del concetto di abbandono. Mura crepate, soffitti sbilenchi. Le caratteristiche volte a crociera, parzialmente scrostate. Ed i pavimenti, per buona parte, del tutto assenti. Pare infatti che la famiglia Liedekerke-De Beaufort, ritornata finalmente in possesso delle terre dei bisnonni, si sia premurata di rimuovere i preziosi marmi, per usarli in un progetto architettonico del tutto nuovo. Del resto, già a quel punto, recuperare questo luogo avrebbe avuto un costo enormemente superiore.

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La precaria città delle cabine volanti

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Nelle parole di Vakhushti, principe del regno di Kartli e rinomato studioso viaggiatore, nel XVIII secolo Chiatura non era altro che: “Una roccia che si erge nel crepaccio come un pilastro, notevolmente alta. Sopra di essa c’è una chiesa, ma nessuno è più in grado di salirci, né saprebbe come farlo.” E quanto fosse effettivamente antica una simile struttura umana, sopra quella geologica praticamente senza tempo, nessuno saprebbe esattamente dirlo. Esiste però una teoria, secondo cui la lingua, e con essa l’identità nazionale dell’intera Georgia, andrebbero fatte risalire proprio a questo luogo, tra le antiche incisioni in Mrgvlovani (l’alfabeto “tondo”) realizzate su una lastra in pietra calcarea dai pochi, silenziosi monaci che vissero isolati quassù, almeno fino all’epoca delle invasioni Ottomane. Ma era un simbolo legato ad un’importante tradizione, questo monolito alto 40 metri svettante sopra il fiume di Katskhura, uno degli affluenti del vorticoso Q’virila, legato al concetto della vita ultraterrena e della Vera Croce. Così, col trascorrere degli anni, alla sua base sorse una piccola comunità religiosa, che avrebbe attratto, nel 1879, anche il poeta Akaki Tsereteli. Il quale durante un’escursione, per puro caso avrebbe scoperto sopra le montagne circostanti, preziosi depositi di manganese, un elemento usato in molti campi della metallurgia. E fu così, nel giro di appena 16 anni, in questo luogo fu fatta giungere la ferrovia, ed a poca distanza dal pilastro venne costruita in primo luogo una miniera, quindi, tutto attorno, la città.
Ai tempi della Rivoluzione Russa del 1905, Chiatura era un importante centro minerario con almeno 3.700 addetti all’estrazione, che ogni giorno dovevano arrampicarsi sulle ripide pendici del dirupo, per raggiungere le alte aperture che conducevano nel sottosuolo. In quello stesso anno, un giovane idealista in fuga dalle autorità si presentò ai monaci che qui avevano costituito la loro residenza, in un appassionato discorso di 15 minuti che riuscì a convincerli e portarli alla sua causa, al punto da guadagnarsi la nomina ipso facto di sergente maggiore, e la costante protezione di una squadra di milizia popolare soprannominata “guardia rossa”. Il nome di quell’uomo era Joseph Stalin, e questo luogo, per i pochi anni che mancavano alla caduta degli zar, sarebbe diventata la sua prima roccaforte. Per tutta l’epoca del suo dominio, quindi, egli si sarebbe ricordato della piccola città georgiana, dando disposizioni occasionali affinché essa ricevesse molte significative opere pubbliche, il meglio dell’urbanistica moderna, e soprattutto, un particolare servizio di trasporti pubblici, che potremmo definire senza alcun problema unico al mondo: 22 distinte funivie, in grado di risolvere il problema della quotidiana scalata da parte dei minatori. Il progetto non si sarebbe realizzato, ad ogni modo, se non dopo l’epoca della sua morte, quando verso la metà degli anni ’50 venne ultimata l’ultima stazione del servizio, e gli urbanisti del partito, soddisfatti dell’opera svolta, non avrebbero di nuovo fatto rotta verso la distante capitale moscovita.
Così la ruota gira, ed il tempo passa per tutte le cose. Oggi, delle originali cabine volanti ne restano operative esattamente 17. Scrostate nella verniciatura e consumate dalla ruggine, oscillanti nel vento, residuato affine a quello di molti altri luoghi di un’epoca di più significativo ottimismo, battuta dal Sole entusiastico dell’avvenire. La popolazione locale le ha soprannominate “bare di metallo” eppure, questione indubbiamente sorprendente, continua quasi quotidianamente ad usarle, per il semplice fatto che non c’è un modo migliore, allo stato attuale dei fatti, per raggiungere le pendici soprastanti ed andare finalmente a lavorare. Nei caratteristici edifici religiosi circostante, una fervente comunità rinnova costantemente le proprie preghiere. Viene da chiedersi se non sia proprio questa, l’unica ragione per cui è ancora non si verifica l’irreparabile tragedia.

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