Camminando a piè leggero per i corridoi del MoMA di New York, è comprensibile avvertirne la pressione, come un richiamo magnetico che porta le persone a concentrarsi su un sentiero definito. Oltre Cézanne, dietro Monet, accanto al corridoio che conduce verso la sezione di Picasso, molti dei visitatori giungono al coronamento di un pellegrinaggio innanzi al singolo riquadro 92 centimetri più celebre del Post-Impressionismo, e forse tra le immagini alla base stessa della percezione artistica del diciannovesimo secolo. Spirali che racchiudono spirali, e linee serpeggianti della pennellata evidente. Lasciata indietro quella percezione che vorrebbe la pittura come uno strumento utile a ridurre la natura e catturarla su una parete. Semplicemente perché il suo autore, chiuso ormai da mesi in un’istituto psichiatrico, non aveva più alcuna possibilità di sperimentarla. Ed è per questo che Van Gogh, nella sua Notte Stellata, imprime sulla tela il semplice contenuto della sua memoria. “Ma il processo contrario è pur sempre possibile” sembrerebbe affermare di suo conto Halim Zukić di Visoko, nella Bosnia Centrale, assurto agli onori volitivi della fama internettiana a seguito della trasformazione, nel corso degli ultimi 6 anni, dei suoi 70 ettari di tenuta a circa 15 minuti dal centro cittadino del cantone Zenica-Doboj. Non mediante una speculazione filosofica, bensì la creazione del tutto tangibile di un luogo della mente e del cuore, la trasposizione in forma di effettiva land art a guisa di giardino di determinate linee e forme, che qualsiasi appassionato d’arte non potrebbe fare a meno di associare al dipinto di cui sopra, da cui appunto il nome in lingua anglofona di questo luogo: Starry Night Resort. Un’idea insolita e in un certo senso controcorrente, rispetto all’intento originario di questa tipologia di opere scolpite nel paesaggio, nate tra gli anni ’60 e ’70 come ribellione contro la deriva commerciale della creatività moderna. Laddove l’imprenditore parla esplicitamente, nelle interviste, di un intento mirato a creare un’attrazione turistica e fare la sua parte nella costituzione di un volano economico, per la sua beneamata regione d’appartenenza. Il che non toglie in alcun modo alla spontaneità ed intento rigoroso del progetto, nato da una tipica intuizione personale che potremmo definire rappresentativa del concetto di creatività in qualsiasi settore di competenza. A partire dal frangente, narrato dallo stesso Zukić, in cui anni fa osservava dalla sua tenuta i segni lasciati sul terreno di un trattore operativo nei campi vicini. Riandando con la mente all’immagine che tanto a fondo conosceva, e quei viaggi nel territorio della Provenza fatti con la sua famiglia, capaci di rappresentare uno dei trascorsi più piacevoli di una lunga passione per l’Arte. Dal che la domanda imprescindibile di cosa, esattamente, si potesse fare per portare ad un livello e proporzioni superiori la metafora spontanea di quello straordinario momento…
piante
Nuove vie di accesso al cosmo dietro l’orbita del primo cubo in legno spaziale
È un assioma totalmente giapponese, l’interpretazione del gesto artigianale che può raggiungere sostanzialmente la perfezione. Grazie all’esperienza individuale, soprattutto, ma anche le precise soluzioni tramandate lungo il correre delle generazioni, da maestro ad apprendista, come più importante eredità tangibile di antiche ed importanti linee di sangue (o d’adozione). Proprio per questo è soprattutto nel contesto culturale di quell’Arcipelago, che determinati tipi d’oggetti costruiti raggiungono un livello di nobiltà e costo notevolmente del tutto sproporzionati ai loro contesti d’impiego, soprattutto se connessi a loro volta all’operato di altre personalità sapienti: vedi le preziose forbici da giardinaggio, i pennelli da calligrafia, i coltelli da cucina… E forse proprio questo campo delle lame, più di ogni altro, vede l’utilizzo di singole parti o materiali con un’importanza pari o addirittura superiore al risultato finale, sia nelle modalità di presentarsi che nei materiali utilizzati. Il prezioso acciaio bianco del Giappone, più volte ripiegato come quello di Damasco, laddove parimenti celebrato è il tipo di sostanza frutto di foreste usata per la costruzione dell’impugnatura. Idealmente il frutto di alberi del genere honoki, ovvero appartenenti alla specie Magnolia hypoleuca, con stimate capacità di resistere all’usura e la contaminazione da parte di agenti esterni. Anche se nessuno avrebbe mai pensato, prima dell’ultima mezza decade, che potesse egualmente presentarsi come impervio alle problematiche dello SPAZIO esterno.
È il tipo di notizia che riesce a presentarsi, tra l’ennesimo tragico bollettino di guerra ed il ritorno ad epoche politiche che credevamo ormai accantonate, non mancando di strappare almeno l’ombra di un sorriso da chiunque abbia mai scrutato il cielo con un senso di curiosità ed avventura, l’ambizione a poter vivere nell’epoca in cui finalmente, grandi misteri possano essere svelati a beneficio dell’umanità divisa: l’Università di Kyoto, rappresentata dal suo portavoce e professore di discipline sinergiche spaziali, nonché ex-astronauta Takao Doi, annuncia di aver completato il primo lancio nello spazio di un satellite spaziale costruito principalmente in honoki. Non ancora un colossale apparato per le telecomunicazioni, s’intende, bensì un cubo di 10 cm di lato e non più di 2 Kg creato sulla base delle linee guida del progetto CubeSat, così come delineate nel remoto 1999 dal prof. californiano Jordi Puig-Suari, al fine di permettere a studenti o associazioni di spedire i propri esperimenti fino all’ultima frontiera dei nostri giorni spropositati. Un DADO ligneo, nello SPAZIO, dunque. Possibilità infinite…
L’annosa infatuazione internettiana per la cosiddetta banana gigante
Nell’ultimo tra i video virali provenienti dal caotico TikTok, un uomo dai lineamenti orientali impugna l’incredibile oggetto con evidente senso di aspettativa, procedendo con un gesto abile a sbucciarlo in appena un secondo. Candida e perfetta, il suo arco il simbolo di un Universo che non ha misteri, l’individuo spalanca la mascella fino ai limiti permessi dall’anatomia umana. Quindi, lietamente, v’inserisce quella “cosa” straordinaria. Che cosa abbiamo visto, esattamente?
Assoluta unità di colore, sapore ed aspetto: questo in genere pretende la comunità indivisa, per quanto concerne ciò che riempie le sue tavole ed i recipienti dedicati agli apprezzabili frutti della natura. Dopo tutto è ancora una banana quando non è gialla, lunga e curva? Quando non contenga almeno 350 mg di potassio? Il che ci porta a un delicato ed altrettanto pervasivo tipo di fraintendimento. Poiché se qualche cosa tende a presentare l’evidente incontro di queste tre caratteristiche, cos’altro potrebbe mai essere, se non una banana? Genere Musa, ordine Zingiberales, la cui pianta è assai probabilmente originaria delle giungle di Malesia, Indonesia, Filippine… Ma che venne conosciuta in Occidente in occasione della campagna in India di Alessandro Magno, assieme al termine in lingua sanscrita impiegato per definirla: varana. Parola che persiste, con minime variazioni, nell’odierno panorama linguistico globalizzato, quasi a riconfermare la percepita ed altrettanto sacra invariabilità del dolce prodotto della pianta erbacea più imponente al mondo. Sarebbe stato dunque lo stesso Linneo, nel suo Systema Naturae, a stabilire in via preliminare la suddivisione di quelle che costituiscono effettivamente un tipo di bacche tra Musa sapientum e M. paradisiaca, definendo come le prime commestibili direttamente una volta colte, e le seconde che necessitavano di un processo di cottura prima di essere impiegate come ingredienti. In altri termini e secondo la nomenclatura corrente, dei platani. Il che permette di ridefinire in chiari termini la nostra questione d’apertura. Poiché fin dall’epoca della modernità, banana può e dovrebbe essere soltanto una di tre cose: un cultivar proveniente dalla specie selvatica Musa acuminata; oppure dalla sua cognata M. balbisiana. O ancora una combinazione di alleli provenienti dalle due distinte discendenze, combinate grazie all’applicazione di quella che potremmo definire ingegneria genetica ante-litteram. E questo tipo di banane assai difficilmente tendono essere molto più della stereotipica varietà di Cavendish come anche mostrata, tanto orgogliosamente, dal nostro misterioso Virgilio d’apertura. L’iconica rappresentante di un intero Paradiso di sapori ed apprezzabili realtà culinarie…
L’ostinata concorrenza in Dorset per l’ortica cruda dei campi conviviali
È uno stereotipo più volte confermato il fatto che l’abitante d’Inghilterra apprezzi, nella maggior parte delle circostanze, effettuare scommesse su eventi non soltanto sportivi, bensì a margine di situazioni o contingenze di molteplici tipologie. Con l’intento non sempre o necessariamente allineato sulla previsione oggettiva di quanto potrebbe verificarsi, preferendo a volte dare priorità alle proprie sensazioni, l’opinione di un fugace attimo percepito come il modo d’influenzare il corso successivo degli eventi. Così nel 1986, famosamente, due agricoltori dei dintorni di Marshwood in Dorset s’incontrarono nel più famoso e antico pub della ridente cittadina, risalente addirittura a cinque secoli a questa parte. “Sai quanto sono grandi le ortiche dei miei campi?” Disse il primo. “Mai quanto le mie!” Rispose la controparte. Dal che nacque un’agguerrita discussione, all’apice della quale uno di loro postulò: “Ah, si? Allora facciamo così: se le tue sono più grandi, le mangerò con queste stesse mani.” Affare fatto, sul concludersi del pomeriggio effettuarono il confronto desiderato. E sebbene la storia non tramandi, per nostra sfortuna, chi abbia vinto la tenzone si usa dire che l’estemporanea sfida sia stata portata ad effettiva realizzazione. E l’agricoltore sfortunato, mantenendo la parola, abbia assaggiato il gusto amaro di quell’erba dolorosa.
Fine del racconto? Non proprio. Giacché caso volle, o forse il goliardico pensiero della gente di qui, che da quel giorno periodicamente diventò un’usanza radunarsi presso la fatidica Bottle Inn sulla strada comunitaria. Per osservare il comprovato mangiatore all’opera o a seconda dei casi, celebrarlo unendosi a lui. Forse un senso d’emulazione, o magari l’incoraggiamento derivante da espressioni incredule o emotive nella folla degli spettatori presenti. Galeotta fu per questo la prudenza, e incarcerato il senso di moderazione: tutti cominciarono a fagocitare, per gioco, scherzo o semplice dimostrazione di coraggio, l’erba selvatica più rappresentativa delle urticacee, U. dioica, famosa per l’irritazione causata dai sottili peli del suo gambo e le foglie. Il che potrebbe anche sembrare poco praticabile, finché non si prende atto di una tecnica affinata ormai da lungo tempo che consiste nello stringere ciascuna foglia tra indice e pollice, avendo cura di non toccare il punto centrale, dove si trova la maggiora concentrazione di tricomi. E ripiegandola come un pacchetto, masticarla attentamente, smorzandone la pericolosità prima che discenda nel canale digerente umano. Diretta conseguenza del diffondersi di questa prassi, alquanto inevitabilmente, fu l’istituzione di una ricorrenza estiva o sagra del divertimento popolare. Per cui ogni anno a giugno, fin da prima di questo XXI secolo, le persone si riuniscono e si cerca di capire chi apprezzi “maggiormente” l’ortica che riempie i tavoli di un’Olimpiade vagamente disallineata. Una misurazione, fatta in metri e metri di gambi denudati delle fronde, che tende ad aumentare in modo esponenziale ogni anno…