Rossi, esteriormente distintivi e molto spesso croccanti: niente risulta rappresentativo dello spirito natalizio nella parte meridionale degli Stati Uniti più che un piatto di mudbugs, i cosiddetti “insetti del fango”. Più comunemente riconducibili, secondo schemi di classificazione meno regionali, al concetto universale di gamberi di palude. Di fiume. Di lago. Di ogni ammasso d’acqua anche soltanto vagamente umido perfettamente funzionale ad uno scopo; quello d’offrire un luogo abitativo e campo riproduttivo per l’esecuzione delle fasi propedeutiche ad un ciclo vitale ben collaudato, che consiste di nascita, crescita e riproduzione… Riproduzione senza limiti né considerazioni per le risorse o lo spazio effettivamente a disposizione. Un approccio all’esistenza che caratterizza tutte le specie appartenenti al genere Procambarus, ma particolarmente quelle due varietà riconducibili alle categorie P. clarkii e P. zonangulus (il gambero “bianco”) ormai da tempo instradate in un settore gastronomico particolarmente rappresentativo di un intera discendenza etnica e per antonomasia, la popolazione che ne condivide l’ambiente. Quei Cajun o eredi delle genti francesi d’Acadia, la regione canadese soggetta a purga etnica e religiosa nei confronti degli Ugonotti nel XVIII secolo, costretti dagli Inglesi a rifugiarsi nell’estremo meridione delle 13 colonie. Gli attuali stati della Louisiana e parte del Texas orientale, dove lungi dal perdersi d’animo e non potendo farne a meno, i sopravvissuti del difficile periodo storico iniziarono a individuare i lati positivi delle nuove terre d’adozione. Tra cui il clima mite, ed il particolare componente della loro dieta, ricco di minerali e povero di grassi, oggi alla base di una pletora di ricette locali ed almeno un’importante tradizione conviviale. Il celebrato Crawfish boil, momento in cui tutti i membri di una famiglia allargata, un vicinato o un’intera comunità rurale si riuniscono per festeggiare tra ottobre e novembre, ascoltando musica Cajun, danzando e conversando amabilmente, mentre letterali migliaia di piccole creature innocenti vengono bollite all’interno di grandi recipienti e in seguito, servite a tavola idealmente all’interno di una tradizionale piroga rappresentativa degli antichi metodi e mestieri di qui. L’ideale e irrinunciabile coronamento, in altri termini, di una filiera industriale ben precisa, ogni anno responsabile di un guadagno stimato di 300 milioni di dollari e responsabile di circa 1.600 posti di lavoro, derivante dai moderni metodi di coltivazione intensiva di questi crostacei, un tempo raccolti in modo assai più laborioso e meno efficiente in territori liberi e incontaminati. Dal che deriva la legittima domanda di come, esattamente, sia possibile adibire interi bacini idrici del tutto artificiale all’allevamento di una classe di creature che si riproduce estensivamente soltanto una volta l’anno, stabilendo una singola stagione di raccolto e processazione determinata in base ai rapidi ritmi di crescita con cui la natura le ha sapute caratterizzare. Un mistero per il quale ci viene in aiuto la ben nota tecnica del mondo agricolo della rotazione dei raccolti, soltanto incanalata al fine di permettere il passaggio reiterato da un particolare cereale all’animale simbolo dei decapodi mangiati da queste parti. Tramite una tecnica molto precisa, al punto da essere il principale oggetto di una lunga serie di guide operative pubblicate dallo SRAC, l’Ente dell’Acquacultura Meridionale Statunitense…
lavoro
La fabbrica nella foresta: uno spazio verde per l’industria metallurgica vietnamita
La creazione di un ambiente ideale dovrebbe essere l’obiettivo di qualsiasi architetto operativo nel campo degli edifici professionali, benché l’ottenimento di un simile obiettivo sia condizionata una problematica essenziale: la maniera in cui non sempre ciò che massimizza la produttività coincida sotto ogni punto di vista rilevante con l’esigenza di vivibilità della forza lavoro umana. Un tipo di conflitto incontrato, a quanto si narra nelle pubblicazioni d’accompagnamento, durante la costruzione del primo impianto vietnamita della Jakob Rope Systems, compagnia svizzera produttrice di cordame in acciaio ed altri metalli plasmati alle esigenze dell’architettura e l’assemblaggio di macchinari dall’alto grado di complessità operativa. Un tipo di fabbrica che potremmo definire totalmente “convenzionale” essendo dotata di alte mura in cemento bianco, finestre luminose ed un potente impianto di condizionamento climatico per combattere le temperature particolarmente elevate. Se non che dopo appena un anno dalla sua apertura, la direzione dell’azienda incominciò a rendersi conto di aver commesso tutti i più tipici errori di chi viene a costruire edifici nel territorio dell’Asia Meridionale, creando un spazio totalmente chiuso e dal cattivo ricambio dell’aria in un luogo tropicale e andando così incontro a spese energetiche del tutto fuori dalle aspettative ragionevoli inserite nei propri preventivi di budget. Non al punto tale, tuttavia, da compromettere completamente l’operatività aziendale nel paese, tanto che a partire dall’inizio del 2019 iniziarono a essere redatti i piani per l’apertura di una seconda struttura, costruita questa volta in base a crismi operativi e priorità letteralmente all’opposto. Dal che l’idea di coinvolgere stavolta lo studio architettonico di Berna fondato da Francesco Marchini e Michael Rolli con l’appellativo di Rollimarchini, per una collaborazione con i colleghi locali g8a Architects situati a Saigon/Hoh Chi Min City, al fine di rivoluzionare totalmente i presupposti nell’elaborazione teorica dei propri ambienti futuri. Verso l’ottenimento prima teorico, e quindi pienamente tangibile e visitabile, di un luogo destinato ad essere battezzato con il nome programmatico di Tropenfabrik o “Fabbrica Tropicale” perfettamente racchiuso tra il verde di pareti nella loro essenza distinte dalla generalizzata definizione di tali elementi strutturali basici e concettualmente privi di variazione. Se ancora effettivamente possiamo giungere a definirle tali, essendo effettivamente costituite da una serie di capienti fioriere di metallo, sospese ed attaccate l’una all’altra grazie a un reticolo di funi metalliche create dalla stessa compagnia proprietaria dello stabilimento. Il che non vuole effettivamente costituire una mera pubblicità in essere dei loro prodotti (benché sia ANCHE quello, visto lo spazio riservato nei cataloghi alle soluzioni per il giardinaggio verticale) bensì l’approccio alternativo alla ventilazione in base ai presupposti dei tradizionali palazzi vietnamiti, in cui dev’essere il ciclo stesso delle alte e basse pressioni atmosferiche terrestri a veicolare l’aria fresca nell’interno degli ambienti operativi. Magari coadiuvato, in casi estremi come questa imponente struttura multipiano, da poderosi ventilatori situati in punti strategici, finalizzati ad eliminare ogni potenziale residuo di aria appesantita dal calore generato dai macchinari. Un approccio certamente alternativo, ma indubitabilmente superiore, al raggiungimento degli standard ottemperati in linea di principio dal primo, fallimentare edificio della compagnia…
Energia, risolutezza ed altre doti dell’ideale giovane taglialegna cinese
Come una matrice di punti che diventa progressivamente più definita, così le multiple espressioni del flusso di dati digitale tendono a moltiplicarsi, rimpicciolirsi ed estendersi oltre i matematici confini di ogni ragionevole aspettativa. Da una manciata di emittenti televisive, alle migliaia di canali rilevanti di YouTube, fino a dieci volte tanti profili di una pletora di social, Facebook Instagram, TikTok… Dove ogni aspetto dello scibile si trova in qualche modo rappresentato, diventando oggetto di disanima più di quanto potesse mai esserlo stato in precedenza. Avevate mai pensato, ad esempio, che una ragazzina del peso apparente inferiore ai 45 Kg, con abiti alla moda e un aspetto decisamente “urbano” potesse sollevare agevolmente una coppia di tronchi grandi almeno quanto le colonne di un tempio romano? Nella solitudine della foresta, dove nessuno avrebbe mai potuto assistere alla scena. A meno di volerci ricamare sopra un qualche tipo di “sovrastruttura cognitiva” in grado d’attirare l’attenzione e le interazioni dell’impressionabile collettività internettiana…
La storia di oggi è quella dell‘utente di TikTok “1l50v8l” un nome che potrebbe anche sembrare un messaggio segreto, o forse il codice ASCII di un qualche carattere cinese, la cui attività e specializzazione fondamentale appare quella di eseguire faticose opere logistiche direttamente interconnesse all’industria del legname del suo paese. E nella fattispecie il sollevamento di carichi dal notevole livello d’ingombro, un compito comunemente riservato a nerboruti possessori di folte barbe, o le loro colleghe dall’aspetto altrettanto resiliente alle fatiche del corpo e della mente, all’interno di situazioni così remote e distanti dalla quotidianità contemporanea. In una serie di gesti ripetuti all’infinito sulla sua pagina personale immancabilmente accompagnate da una breve didascalia in lingua inglese sulla falsariga di “È dura la vita delle ragazze di campagna…” oppure “Quanto bisogna faticare per vivere!” o ancora il vecchio classico: “Questo metodo per l’utilizzo della sega elettrica mi è stato insegnato da mio padre” etc, etc. Sempre silenziosa, stoica e concentrata, qualche volta accompagnata dalla “sorella minore” (in Estremo Oriente non è raro utilizzare termini di parentela per amici e colleghi) l’antologica selezione di contesti appare quindi a pieno titolo inserita in un’estetica assolutamente definita, quella del cosiddetto trend cottagecore della nuova comunicazione cinese, in cui le sfide costanti di chi sceglie di vivere all’antica e fuori dalle grandi città vengono idealizzate in una sorta di scenario fiabesco, in cui si muovono spesso ragazze dall’aspetto impeccabile e perfettamente curato che raccolgono verdure, cucinano o costruiscono opere del fai-da-te una martellata alla volta. Come una sorta di principesse Disney dei nostri giorni, in un termine di paragone esplicitamente richiamato dalla più famosa iniziatrice di questo stile a livello internazionale, la celebre Li Ziqi (vedi articolo del 2018) che in più occasioni si è vestita con abiti idealizzati simili a quelli di Elsa di Frozen, Biancaneve o altre colleghe del mondo del vasto repertorio immaginifico post-moderno. Il che non placa d’altra parte il mistero in linea di principio di come riesca questa giovane collega a sollevare carichi tanto imponenti, finché non ci s’interroghi su cosa, esattamente, siano i tronchi co-protagonisti delle sue notevoli scene…
In questo luogo nasce il timbro univoco di mille cetre d’Oriente
L’abile artigiano coreano taglia e leviga la lastra di paulonia un lato alla volta, dandogli una forma allungata che solleva nella mente immagini di skateboard pronti a scendere lungo il vertiginoso mezzo tubo di Tony Hawk. Ma al momento in cui starebbe per aggiungere le ruote, mani esperte incollano piuttosto delle sponde a quella forma lievemente concava o convessa (dipende, come si dice, dai punti di vista) e quindi forano, inchiavardano, sistemano il coperchio sull’estremità finale. La vera parte surreale giunge tuttavia nell’ultimo capitolo, quando presa una dozzina di corde, accuratamente le annoda e tende fino all’altra estremità, non prima di disporvi al di sotto un’intrigante serie di piccoli attrezzi realizzati con lo stesso legno. Quindi, annodando elegantemente il complesso groviglio risultante, inizia soavemente a pizzicare…
Alla corte ancestrale della dinastia Zhou, durata approssimativamente 700 anni tra il XII e III secolo a.C, i rituali che sancivano il potere passavano frequentemente per il ritmico vibrato dell’arte della musica creata da professionisti di due strumenti. Da una parte, il trillo rimbombante del bianzhong (编钟) complesso marchingegno con campane sovrapposte di bronzo, percosse alternativamente tramite l’impiego di multiple bacchette utilizzate allo stesso tempo. E dall’altra, la melodia riconoscibile del se (瑟) un’imponente cassa di risonanza in legno sollevata da terra come un’asse da stiro, sopra cui venivano laboriosamente tese una quantità variabile tra 25 e 50 corde di seta intrecciata, tenute sollevate mediante l’utilizzo di un pari numero di ponticelli grazie all’insegnamento del Dio della creazione Fuxi, artefice della Terra assieme a sua sorella Nuwa. Tralasciando momentaneamente il primo di questi strumenti, di cui abbiamo già parlato precedentemente in questi lidi, possiamo dunque affermare senza ombra di dubbio come nei letterali millenni a venire sia stato più che altro il secondo a generare un lascito duraturo nel tempo anche al di fuori di contesti specialistici e religiosi, grazie alla naturale predisposizione ad un processo che permette ad ogni cosa di adattarsi al mutevole contesto delle Ere: l’Evoluzione. Così scrutando il novero degli strumenti a corda dell’Asia Orientale, possiamo scorgere appoggiati al muro della conoscenza una pluralità di adattamenti ai contesti culturali più diversi, giunti fino a quei paesi grazie all’interscambio culturale e dei commerci. Attrezzi come lo yatga mongolo, il đàn tranh vietnamita, il kacapi giavanese… Non senza passare come tramite, s’intende, per i cambiamenti indotti nei contesti culturali più prossimi alla regalìa fondamentale della più antica e duratura dinastia del Regno di Mezzo, tra cui per l’appunto la versione coreana del gayageum (가야금). Giacché si narra del modo in cui presso la più vasta ed influente delle nazioni limitrofe, almeno verso la fine del periodo degli Stati Combattenti (453-221 a.C.) al termine del quale una Cina ormai divisa sarebbe stata nuovamente forgiata sotto l’egida del “primo” imperatore Qin Shi Huang, l’unico cordofono dal nome di una sola sillaba avesse già dato i natali a due derivazioni chiaramente distinte. La più importante delle quali collegata strettamente alla figura di Confucio, che poche generazioni prima aveva già lasciato il proprio segno indelebile nel sistema culturale e dei valori dei suoi numerosissimi connazionali mentre accompagnava le proprie lezioni strimpellando da seduto un oggetto vagamente misterioso. L’apparato musicale dall’alto livello di prestigio e complessità d’impiego, destinato a passare alla storia con il nome di guqin (古琴) ma poco udibile a causa dell’assenza di ponticelli. Più complessa l’origine semi-mitica, e teoricamente molto più antica, del guzheng (古筝) a 21-25 corde, la quale non risulta essere meno curiosa ed improbabile di quella di un dono divino, almeno dal punto di vista di un comune osservatore occidentale…