La grande sfera trasparente sotto il mare della Turchia

Transparent Sphere

L’esplosiva esaltazione del senso umano d’avventura, un tuffo tra le acque a largo di Fethiye, importante località turistica non così distante dall’isola di Rodi. Con la maschera e la muta, le pinne, le bombole da usarsi per conoscere più a fondo le tiepide e attraenti circostanze, spinti dall’entusiasmo di essere in vacanza. Finché all’improvviso, le prime avvisaglie del più strano degli incontri: una leggera variazione della luce, appena percettibile allo sguardo, come una curvatura rifrangente sospesa fra la luce e l’ombra, in stato di galleggiamento stabile a circa 6 metri di profondità. La mente fatica a comprendere la situazione, mentre il tempo rallenta in modo percettibile, è prossimo a fermarsi. Nuoti più vicino, naturalmente, come altrettanto naturalmente, ciò non chiarisce affatto questa situazione, tutt’altro. Mentre giri attorno alla presenza, ne inizi a comprendere le proporzioni: 4 metri di diametro, all’incirca, con un aspetto floscio e globulare. Trasportata e mossa dalla corrente, la massa gelatinosa si agita, sviluppa dei bitorzoli sulla sua superficie. Tu, subacqueo, altro non puoi fare che puntare la tua torcia, riprendere, imprimere i dettagli della scena nella tua memoria soggettiva dell’evento. Un domani, forse, capirai la verità…
Qualcosa di simile succedeva lo scorso 9 Luglio all’intera equipe di Lutfu Tanriover, produttore di video sottomarini, quattro volte vincitore del  Golden Fin Underwater Imaging Championship e premiato in diversi prestigiosi festival internazionali. Che nonostante l’esperienza decennale, di fronte a un simile oggetto fuori dal contesto si era ritrovato nello stesso stato di assoluta perplessità di chiunque altro di noi. Una sfera, una palla, la bolla di sapone dei titani. Un chiaro segno di esistenze ultramondane? Questa ed altre assurde idee devono aver attraversato per qualche attimo fulmineo la sua mente, prima che decidesse per la via operativa di pubblicare il video non soltanto presso il suo canale ufficiale del portale Vimeo, ma anche in giro per i principali Social Network, incoraggiando quindi i molti lettori quasi accidentali a ricondividere il documento della sua escursione misteriosa nel Mediterraneo. Il risultato non tarda ad arrivare: nel giro di qualche settimana uno degli spettatori, probabilmente con già un’idea nella mente, mostra il video ad un oceanologo del museo Smithsonian di Storia Naturale a Washington D.C, il Dr. Michael Vecchione, rinomato esperto in cefalopodi di vario tipo. Il quale, senza un attimo di esitazione, esclama un qualcosa di simile a: “Fantastico, sono uova di seppia!” E in particolare di una specie molto nota ma della cui prassi riproduttiva abbiamo ad oggi poche informazioni: la Ommastrephes bartramii, comunemente detta seppia volante al neon. Un animale estremamente prolifico la cui femmina, che può arrivare a misurare fino ai 60 cm di lunghezza, depone in genere tra le 350.000 ed i 3,6 milioni di uova, dimostrando chiaramente l’appartenenza alla prima parte del gruppo biologico r/K, ovvero che si riproducono in grandi quantità, piuttosto che investire le energie nel curare e nutrire la propria limitata prole, preziosa e potenzialmente insostituibile. Come invece facciamo, incidentalmente, noi umani. I piccoli della seppia volante in effetti, alla schiusa misurano pochi millimetri e mancano di un apparato natatorio davvero efficiente, venendo sostanzialmente trascinati in giro dalla corrente. In questo stato, sono facilmente vittime dei predatori, che in un ciclo senza fine si occupano di limitare la crescita incontrollata della popolazione cefalopode, con conseguente collasso dell’intera nicchia ecologica condivisa in molti ambienti della terra, fra cui i freddi mari del Nord, dove le seppie in questione migrano dopo la stagione degli accoppiamenti.

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I tre gradi dello spiaggiamento dei pinnuti

Beached dolphin

Due mondi contrapposti che non hanno che l’ossigeno in comune. Ma persino quello, sopra o sotto l’acqua, si presenta in forma totalmente differente. Tanto che coloro che hanno branchie, normalmente, non possono venire all’aria. Così viceversa per noialtri, pre-forniti di polmoni e due narici, nulla più. Eppure sussistono, in bilico nel luogo di passaggio, degli esseri specializzati, la cui vita già dall’epoca remota era del tutto simile a quella dei pesci vertebrati, nonostante fossero forniti degli stessi limiti respiratori. Poi con il trascorrere delle epoche, attraverso il passo dell’evoluzione, le cose sono largamente migliorate. Perché cetaceo vuole dire questo: specializzazione. Se sei un mammifero marino, non puoi farti condizionare dalla situazione. Il fatto è che un delfino, una balena misticeta, una focena, nelle due sacche per il gas hanno alveoli d’efficienza superiore. Laddove l’uomo, per quanto riesca a migliorarsi nella disciplina dell’apnea, può assorbire grosso modo un quinto dell’ossigeno nell’aria, esistono creature come quelle, in grado di sfruttarne fino a nove parti su dieci. Più che sufficienti a prolungare l’immersione per toccare il fondo, risalire, scendere di nuovo, fare incetta delle proprie prede e non sentirsi, in alcun modo, svantaggiati giù tra l’acque dei fondali. Tutto questo ha un prezzo, naturalmente. Giacché l’energia a disposizione, sia questa intesa come calorie dell’individuo, oppur mobilità tra una generazione e l’altra, resta ad ogni modo limitata. E nessuna specie potrà mai salvaguardarsi dalle situazioni rare, per quanto pericolose, ovvero inerentemente scollegate dalla selezione naturale in  larga scala.
Cominciamo in modo semplice, come si usa fare, soprattutto perché questo è un caso tanto immediatamente comprensibile, che non può fare a meno di evocare un certo grado di empatia e di compassione. Era soltanto un cucciolo di Criccieth Bay! Lassù nel Galles settentrionale, dove l’ombra dell’omonimo castello, costruito sulle rocce in grado di dominare l’intera regione del Cardigan, raggiunge ancora gli antichi tumuli dei Celti, residui silenziosi dell’Età del Bronzo. Qui si muove un pescatore che è anche il personaggio principale della scena, un tale di nome Rich Wilcock, con il suo springer spaniel, il fido cane Leia. I due che camminavano serenamente per il lungomare, telecamera alla mano del padrone, al fine probabile di documentare lo splendore (a dire il vero un po’ grigiastro) di una tale terra nordica e pacata. Quando all’improvviso, sopraggiunge la sorpresa. Il piccolo delfino scuro, lì nel bagnasciuga, intrappolato come un imenottero nella crudele teca tra la sabbia e il mare, il Sole, il flusso delle cose divergenti. Non siamo al cospetto in questo caso, ciò è subito evidente, di uno spiaggiamento estremamente significativo. L’odontoceta in questione, senza alcun dubbio, si sarà smarrito per l’inesperienza, perdendo sempre più l’orientamento e ritrovandosi alla fine, suo malgrado, in questa condizione totalmente priva di una prospettiva di salvezza. Neppure la famiglia o il clan di una simile piccola creatura sfortunata, superato l’attimo di dubbio, ricorderà la sua mancanza a lungo termine, perché in fondo questa è la natura. Procedere al di fuori del problema, risollevar le sorti dell’avverso fato. Continuare sulla propria rotta nonostante le tragedie, intempestive.
Se non che l’uomo intento nel suo vagheggiare, all’improvviso, sente il cane che si agita, comprende il segno del problema e realizza un piano che credo quasi chiunque di noialtri, trovandosi lì a fianco, avrebbe sùbito appoggiato. Così prende quella coda e la trascina via lontano, in mezzo al mare che vuol dire libertà. Poi di nuovo, visto che l’animale ritornava verso riva. Poi di nuovo.

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Tutti volevano vedere la lumaca-coniglio di mare

Hare Nudibranch

Ambigua è la natura, seminata d’innumerevoli presupposti di fraintendimento. Quando poi a questo va ad aggiungersi, come inevitabilmente accade, l’innata tendenza dell’uomo a generalizzare, nascono strane commistioni di concetti, precedentemente totalmente alieni tra di loro. Una lepre, un coniglio, il mangiatore di carote.  Animale quadrupede che vive nei pascoli, nelle foreste, nei deserti ed in palude. Le sue lunghe orecchie non mentono all’evidenza: tale bestia vive sempre sull’attenti. È rapida ma vulnerabile, come qualsiasi preda degna di occupare un luogo scomodo della catena alimentare. Mentre la Jorunna parva, buffo gastropode che vive in buona parte dell’Oceano Indiano, dalle Filippine al Giappone, è una vera regina del suo ambiente, divoratrice di ogni cosa piccola che strisci sul fondale, da lei raschiato grazie all’uso di una radula, il nastro chitinoso ricoperto di dentelli. La quale inquietante abitudine non gli ha impedito, ad ogni modo, di acquisire sulle onde del Twitter dell’Estremo Oriente una presa alquanto significativa, tale da portare la sua immagine all’acquisizione di epocali proporzioni. “È…È…TROPPO kawaii” (carina) Semplicemente: “La cosa più ADORABILE del mondo.” Si tratta di un’iperbole? Giudicate voi. È indubbio che la forma tondeggiante di questa lumaca totalmente senza guscio, ricoperta di pelucci candidi a pois neri, sia già sufficiente a creare un aspetto estetico degno di nota. Quando a questo si aggiungono, incredibilmente, quelli che parrebbero a tutti gli effetti due svettanti padiglioni auricolari neri, si chiarisce l’origine della metafora d’apertura. Ma già l’animale si è voltato nel suo vagheggiare, quando le cose iniziano a farsi davvero comiche: sulla parte posteriore spicca infatti un vistoso ponpon a fiorellino, con petali disposti in modo grossomodo circolare. Diciamo pure, senza entrare troppo nei dettagli, che se il classico coniglio dalla coda di cotone (genere Sylvilagus) si fosse evoluto per vivere sott’acqua, un simile ornamento avrebbe preso facilmente il posto dell’eponima appendice vaporosa.
Esiste una tradizionale illusione ottica, attestata per la prima volta in un numero del 1892 della rivista umoristica tedesca Fliegende Blätter (Foglie Volanti) in cui un’illustrazione ambigua viene usata per porre la fondamentale domanda: “È un coniglio o un’anatra?” Ad accompagnare il testo, l’illustrazione oggetto del quesito: un globo grossomodo circolare guarnito da un occhio e sostenuto da quello che parrebbe essere a tutti gli effetti un collo, con due propaggini da un lato con la forma di uno stecco da cremino. L’osservatore, così richiamato a decidere, potrebbe almeno teoricamente interpretarle nel duplice modo di un paio d’orecchie oppure il becco di un uccello, modificando in alternanza nella sua immaginazione anche il resto di quell’ipotetica creatura. Si tratta di un paradosso interessante, basato su un’applicazione altamente specifica di quel processo che comunemente da luogo alla pareidolia, ovvero la tendenza a riconoscere dei volti dove in effetti non ci sono. La mente umana, come è noto, tende a riempire i vuoti e collegare i punti di sua innata iniziativa. E può così succedere che una forma geometrica soltanto vagamente somigliante a un animale, talmente approssimativa che non si capisce neanche quale, può dare luogo a innumerevoli disquisizioni.
Il che trova applicazione, in modo totalmente inaspettato, anche nella classificazione di questa creatura estremamente inusuale. La Jorunna Parva appartiene al genere dei Doridoidea, dal nome della ninfa Doride, figlia dei titani Oceano e Teti, e fa parte del gruppo non filetico degli opistobranchia, ovvero un certo tipo di gastropodi (lumache, per l’appunto di mare) le cui branchie non sono soltanto esposte e ben visibili, ma site in posizione arretrata rispetto al resto dell’organismo, ben lontano dalla bocca e gli organi di senso. Se non fosse ancora chiaro, stiamo nei fatti parlando dell’organo che costituirebbe la coda della lepre, in realtà usata dalla creatura per filtrare l’acqua e respirare. Mentre per quanto concerne le altre due escrescenze a vista, la definizione di apparente sede della percezione uditiva non era poi così lontana dalla verità. Si tratta, in effetti, di una coppia di rinofori, ovvero le caratteristiche appendici sensoriali usate dalle lumache per tastare il suolo e sondare la composizione chimica dell’acqua. Gli occhi di queste creature marine, in effetti, sono in genere estremamente semplici di dimensioni ridotte, risultando in grado di distinguere soltanto tra la luce e l’ombra. Il che potrebbe essere considerato un notevole svantaggio evolutivo, visto che vivono sui fondali di soltanto 1-6 metri di profondità. Mentre probabilmente sono proprio le sue ridotte dimensioni (2-3 cm complessivi) a permettergli di sfuggire ai predatori.

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Lo strano fascino del polpo a ombrello

Octopus Adorabilis

È una vecchia regola non scritta del mondo della scienza il fatto che chiunque descriva per primo/a, in una sua pubblicazione, le caratteristiche di una specie animale o vegetale, riceva l’indubbio onore di scegliere il suo appellativo. Così abbiamo, fin dall’inizio dall’epoca delle prime sperimentazioni, curiose creature con il nome proprio di persone (quale miglior modo di aspirare all’immortalità?) Piuttosto che lievi variazioni lessicali dei termini precedentemente usati per i parenti biologici più prossimi, perché non tutti hanno una grande fantasia, né voglia di mettersi in mostra per il proprio gusto personale. Ma l’approccio più accattivante usato per denominare una creatura, indubbiamente, resta quello che consiste nel cristallizzare l’emozione provata nel momento in cui l’esponente della comunità scientifica se l’è trovata innanzi per la prima volta: così nascono binomi quali “il geco diabolico”, “la scimmia ragno” oppure “la farfalla illusoria” che generalmente riescono a colpire subito la fantasia dell’uomo della strada. E forse proprio a margine di tale considerazione, tanto maggiormente rilevante in quest’epoca di comunicazioni digitali, la scienziata Stephanie Bush, ha deciso di associare la sua occupazione principale di ricerca in questi ultimi mesi a un concetto talmente semplice e diretto che, in effetti, a molti sarebbe sembrato buffo nella sua spontaneità. Così giunge, per la prima volta sotto i nostri occhi, la forma fluttuante dell’Opisthoteuthis Adorabilis, leggera variazione di una vecchia conoscenza di molti pescatori della California, che spesso di simili polipetti a ombrello ne trovavano qualcuno casualmente nelle reti. “Non è adorabile?” Scherza lei, tra un segmento e l’altro del video, mentre mostra l’esemplare sezionato sotto formalina. Si, davvero l’opera dello scienziato si perpetra tramite sentieri differenti. E ciò che per qualcuno appare degno di un’occhiata o poco più, all’interno dei laboratori può essere mostrato al mondo in luce nuova.
Stiamo parlando, per intenderci, di un vicino parente del cosiddetto flapjack devilfish, una creatura della foce del Columbia River talmente bizzarra, nonché invendibile per scopi alimentari nella sua piccolezza (misura circa 20 cm) che colloquialmente era stata sempre associata all’arbitraria categoria dei cosiddetti “pesci del diavolo” concettualmente associata a certe specie di razze, polpi, rane pescatrici e addirittura la balena grigia dai fanoni, astuta filtratrice di Km di plankton galleggiante. Non chiedetemi perché! Mentre la dicitura flapjack proveninva, nel suo caso, da un termine gergale usato per riferirsi al semplicissimo pancake, il dolce statunitense simile a una crepe che tante volte abbiamo visto nelle sit-com degli anni ’90, accompagnato da una generosa dose di sciroppo d’acero d’importazione canadese. Questo perché la delicata creaturina in questione, una volta trascinata a forza via dal fondale, generalmente giungeva in superficie già defunta, spianata come una frittella, striata dai segni della rete e con gli occhi sporgenti, simili ad antenne degli alieni dei pulp magazine. Soltanto in tempi recenti, con il miglioramento e la diffusione delle tecniche legate all’immersione individuale, assieme al fortunato caso di esponenti del Genere che si spingessero in relativa prossimità della riva continentale dai 300 e passa metri sotto la superficie del loro habitat naturale, sono iniziati degli avvistamenti che ci hanno fatto conoscere il vero, grazioso aspetto di queste creature. Così, in modo graduale, hanno iniziato a sovrapporsi i soprannomi: dal polpo di Pac-Man, per la sua vaga somiglianza con i fantasmini del gioco in questione, a “Dumbo” visto l’aspetto delle sue due vistose pinne sopra il pallio (corpo principale) collocate giusto dietro agli occhi, così apparentemente simili ad orecchie da cartone animato. Che per di più, durante gli spostamenti, vengono agitate dall’animale, per bilanciarsi e dirigere la spinta offerta dalla sua membrana principale, in un moto non dissimile da quello di una medusa, con due piccole bandiere sulla testa. Adorabilis, nevvero?

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