Tagliaerba robotici contro il pericolo dei pendii erbosi

Il mondo moderno può riservarci a volte sorprese davvero straordinarie. Sapevate che è possibile acquistare oggi, a poco prezzo, un dispositivo che tosa l’erba in maniera straordinariamente efficiente? Dotato di quattro zampe indipendenti e una “testa” che risucchia via, letteralmente, la vegetazione indesiderata da ogni tipo di terreno, anche quelli più complicati… Mentre l’apposito dispositivo retroattivo rotante si occupa di scacciare le mosche e gli zoccoli sorpassano lievi ogni tipo di asperità. Ma Ca.Pra 15 è un tipo di soluzione oggettivamente, non alla portata di tutti. Ci sono persone che posseggono un appezzamento verdeggiante in situazioni urbane, dove la creatura belante potrebbe trovare difficoltà ad adattarsi o venire disturbata dal suono del traffico di passaggio. Per non parlare dei cani. E poi, che dire di chi ama andare in vacanza per periodi relativamente prolungati? Quel tipo di modello ha bisogno di un certo numero di attenzioni. Chi si occuperà, allora, di un simile Tamagotchi gigante?
Il problema del prato, per quanto si tratti di un’elemento dal notevole pregio decorativo ed arriverei a dire persino, inevitabile, è che non smette proprio MAI di crescere. Inverno, Autunno, Estate, Primavera. Come nei confronti settimanali con mostri giganti dei cartoon giapponesi, questa è una guerra che non può essere vinta in una sola, fulminea battaglia, ma che richiede dedizione costante, dal primo risveglio fino al giorno dell’imperscrutabile eternità. Ed è nell’abitudine, come sempre accade, che può attecchire il seme della disattenzione e a partire da esso, il fiore rosso del cappottamento imprevisto del trattore e purtroppo, il frutto dell’improvvido decesso. Immaginate voi, lo scenario: un uomo deve occuparsi del suo giardino sul retro, a partire dal portico fino alla recinzione situata strategicamente, sulla cima di una collina. Costui ha sempre amato l’apporto scenografico del dislivello di fino a 55° visto dalle finestre della vasta sala da pranzo, ma molto meno, invece, la fatica necessaria a tosarlo periodicamente tramite l’impiego di strumenti manuali. Così ecco che, per un giorno soltanto, decide di usare l’artiglieria pesante. Salendo la strada della condanna, a bordo del trono di comando, il motore a diesel che borbotta un avviso non ascoltato. Carrello di una montagna russa particolarmente malaugurata, il veicolo sale fin sulla cima, quindi inizia sistematicamente a percorrere il fianco della collina. Destra, sinistra, destra, sinistra… E una pietra non vista, d’un tratto, si frappone sul suo cammino. Le ruote anteriori si sollevano. Il mezzo, dal baricentro pericolosamente alto, inizia a inclinarsi su un lato. L’uomo trasale lasciando il volante e… STOP.
Fine della scena? Fine della SINGOLA scena. Perché se questa fosse una pubblicità del tipo “Dov’è finita la Coca-Cola” (I famosi infomercial statunitensi in cui il presentatore sembra aver perso ogni tipo di coordinazione motoria) si passerebbe adesso alla giusta soluzione di un tale imponente problema. Che passa, letteralmente, per il sentiero ideale del succitato animale barbuto. Per una Ca.Pra che può pesare, nello specifico, fino a 367 Kg. Certo, il tipico tagliaerba della pluri-premiata serie cecoslovacca Spider generalmente non ha le corna, ma è indubbio che il suo funzionamento possa dimostrarsi particolarmente risolutivo in tutti quei casi in cui il terreno è troppo inclinato per un trattore convenzionale, oppure non si desideri, per ovvie ragioni, di sedere in mezzo agli scarichi fumosi di un borbottante riciclatore d’anidride carbonica col volante. Il punto principale di un simile dispositivo, disponibile in varie dimensioni e prezzi, è che permette di separare il pilota dal meccanismo, riducendo notevolmente i possibili rischi a cui va incontro, sia nell’immediato che a lungo termine. Unendo inoltre l’esperienza di svago della guida di un grosso attrezzo radiocomandato con quella di una gradevole passeggiata in mezzo alla natura. E poi, ci sono tutti quei casi in cui di un simile approccio, semplicemente, non si POTEVA fare a meno…

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La serpe robot volante dei pompieri giapponesi

Passando in rassegna le mitologie dei diversi paesi, esistono molti tipi di drago. La creatura mitologica per eccellenza, talvolta una belva crudele affamata di carne umana, altre saggia e benevola in maniera mistica, in grado d’influenzare il corso della storia con la sua semplice presenza, anche nel caso in cui si tratti di una semplice metafora per qualcosa di più tangibile ed immanente. Una caratteristica trasversale di simili creature, indipendente dalla nazionalità d’appartenenza, resta il loro alito incantato, sulla cui natura, tuttavia, Oriente ed Occidente non possono fare a meno di trovarsi in disaccordo. Basta in effetti considerare per un attimo la progenie del Fáfnir norreno, incluse la reinterpretazione tolkeniana e tutte quelle a seguire, per sentir parlare di fuoco e fiamme, lingue incandescenti, scintille vulcaniche in grado di radere al suolo intere città. Mentre per la tradizione asiatica e in particolare cinese, esemplificata dal signore dei quattro mari Sìhǎi Lóngwáng, il grande verme è una creatura che vive sott’acqua lungo il corso dei fiumi e nelle profondità oceaniche, da dove emerge occasionalmente per scatenare su di noi la furia degli elementi: il vento, le nubi e la pioggia. Il che faceva di un lui una delle forze sovrannaturali alla base dei ritmi e dei processi dell’agricoltura, oltre ad un consigliere dei regnanti e talvolta, una punizione inviata per punire i malvagi e redimere i giusti. Potrà dunque sembrarvi più che mai sensato, l’appellativo scelto da Satoshi Tadokoro e i suoi colleghi del dipartimento tecnologico dell’Università del Tohoku per la loro invenzione presentata il mese scorso alla Conferenza Internazionale di Robotica: il DragonFireFighter, nel cui aspetto stesso si riflette la forma longilinea e sinuosa di questo animale fantastico, protagonista di primo piano nelle storie folkloristiche e in molte leggende del loro stesso Giappone. Un parallelismo che si riflette chiaramente nel funzionamento dell’apparato, funzionante in effetti grazie alla forza stessa dell’acqua espulsa a forte pressione dalla comune manichetta di una squadra di vigili del fuoco, ovvero fatto muovere verso ipotetici spazi difficili da raggiungere per il principio di azione-reazione tramite l’impiego di una serie di ugelli direzionabili, posizionati a intervalli regolari lungo la sua intera estensione i quali dovrebbero ricordare, nelle parole stesse del creatore: “I figuranti della danza del drago di capodanno” un’importante nonché celebre esibizione praticata in tutto l’Estremo Oriente. Per una creazione che risulta essere, nella versione dimostrativa costruita fin’ora, di appena 3 metri, ma potrebbe facilmente raggiungere o superare i 20 nell’effettiva applicazione finale. Il che da luogo ad un video di presentazione potenzialmente interessante, che tuttavia occorre interpretare sulla base di quello che potrebbe diventare nel giro di qualche mese, piuttosto che il funzionamento corrente di quello che comunque resta nient’altro che un mero prototipo, di quello che non costituisce affatto il risultato desiderato.
Eppure, potete realmente dire che vi lasci del tutto indifferente? Spinto innanzi dall’operatore verso un piccolo fuocherello, il carrello presso cui è stato agganciato il tubo dell’acqua si avvicina a un pannello metallico con un’apertura rettangolare. Ora, dovete presumere che un tale scenario sia rappresentativo, in effetti, di un incendio presso un impianto chimico o radioattivo, come una centrale nucleare, al quale i pompieri saranno disposti a fare il possibile per non avvicinarsi. Riecheggiano le critiche degli scettici del web: “Sarebbe bastato sparare l’acqua a parabola per ottenere lo stesso risultato” Ma un getto d’acqua, per quanto possa essere preciso e potente, non potrà mai ricadere per la semplice gravità con la stessa forza di quella creata dall’effetto Bernoulli, ovvero l’aumento della velocità al diminuire della pressione, una volta fuoriuscito dall’angusto condotto flessibile che l’ha portato fino a destinazione. E c’è una cosa che tale fluido, inoltre, non potrà mai fare: girare gli angoli, giungendo alle stanze chiuse, veri punti caldi del disastro incipiente. Ecco dunque provata l’efficacia di un simile serpente/drago meccanico: orientare direttamente la propria “testa” e il conseguente getto verso l’origine delle fiamme, alla stessa maniera in cui dovrebbe idealmente fare una persona armata di estintore, ottenendo degli effetti decisamente più risolutivi nella sua mansione d’utilizzo primaria, lo spegnimento. Il che non può prescindere, per ovvie ragioni, la grande quantità d’acqua che appare chiaramente “sprecata” nella dimostrazione, tramite l’espulsione continua degli ugelli a reazione, nello scenario simulato del singolo barile col fuoco dentro. Ciò che avrebbero dovuto chiedersi i commentatori al video prima di offrire la loro opinione, resta: “Chi ha mai visto un incendio tanto localizzato?” Ovvero una volta fatto il suo ingresso nell’edificio prossimo all’incenerimento, gli stessi getti di manovra del DragonFireFighter finiranno per colpire zone in qualche maniera combustibili, se non già lambite dal lingue di fiamme. Il che risulterà essere, inevitabilmente, tutt’altro che inutile. Anzi…

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Il potenziale terzo braccio dei soldati del futuro

Basta dare un’arma in mano ad un soldato, per fargli perdere immediatamente la sua umanità. E non mi sto riferendo, in modo particolare, al naturale senso d’empatia e pietà di tutte le persone verso gli altri esseri viventi, bensì alla caratteristica che più di ogni altra accomuna gli animali di questo pianeta: la simmetria. Poiché la natura stessa delle nostre limitazioni fisiche e sensoriali comporta una modalità d’impiego, per qualunque strumento in grado di far fuoco a distanza, che non può prescindere dalla piena attenzione di colui che intenda colpire il bersaglio. In altri termini non trova posto, fuori dal cinema d’azione, la figura del guerriero contemporaneo che impugna una pistola, o una mitragliatrice per ciascuna mano, poiché in tal caso la sua efficienza in battaglia risulterebbe drasticamente ridotta. Ma caso vuole che neppure l’impiego di un’arma singola, in se stesso, risulti del tutto ideale. Poiché noialtri abbiamo due occhi, e due mani situate in posizione diametralmente opposta, mentre un fucile è uno strumento oblungo che si tiene in modo perpendicolare al corpo. Avete presente la prospettiva usata nei primi videogiochi FPS? Pensate a Doom: con la pistola vista da dietro, perfettamente situata al centro della visuale. Una totale impossibilità allusiva ad a una mano e dito sul grilletto che, in qualche maniera, scaturivano dal petto stesso del protagonista. Eppure all’epoca, difficile negarlo, tale artificio grafico ci appariva “corretto”. Per una sola e semplice ragione: si trattava di una condizione ideale, che ci rendeva quasi fisiologicamente incapaci di sbagliare il bersaglio.
L’oplita spartano, all’epoca dei feroci conflitti tra città stato del Peloponneso, era visto come il soldato perfetto: una lancia, uno scudo, l’elmo e la corazza bronzea in grado di rappresentare il non-plus-ultra delle convenzioni guerriere del mondo antico. Sarebbe stato del tutto impossibile, per lui, deviare dalla normalità, poiché era proprio la natura coerente della sua panoplia rispetto a quella dei compagni, a renderlo una forza inarrestabile dai barbari del Settentrione e gli imperi d’Oriente. Con l’evolversi del concetto stesso di battaglia di fanteria, da due schieramenti che si affrontano a viso aperto in pianura a tattiche di diversione e guerriglia che tentano di avvantaggiarsi grazie alle condizioni del territorio, le priorità sono drasticamente cambiate. Occorre pensare fuori dagli schemi. Immaginate il re Leonida, alle Termopili, che avanza verso Serse per tentare d’infilzarlo con la sua lancia tenuta a due mani. E uno scudo per proteggersi, anche in assenza del compagno che secondo il concetto della falange avrebbe dovuto farsi avanti assieme a lui, se non che il nemico l’aveva già eliminato. A difendersi dai colpi, infatti, questa volta ci pensava lo stesso sovrano. Grazie a un terzo braccio spuntatogli per concessione divina dal fianco.
Magia, tecnologia, che differenza volete che ci sia? Facendo un balzo drastico in avanti, passiamo adesso all’opera maestra di Dan Baechle, ingegnere meccanico di ruolo presso l’Army Research Laboratory (ARL) istituzione militare che mira a fornire ai soldati americani gadget utili all’impiego nei campi di battaglia del mondo contemporaneo. Apparecchi come l’Esoscheletro Mobile per la Stabilizzazione della Mira (MAXFAS) da lui brevettato nel 2013, nient’altro che un’adattamento di una manica fisioterapica per stabilizzare un braccio infortunato, da lui adattata alla mansione di tenere ben stabile una bocca da fuoco. Eppure un tale arnese, in qualche maniera doveva essergli sembrato insufficiente, se proprio oggi possiamo assistere alla scena di un sergente armato che si applica nel celebre percorso d’addestramento degli Aberdeen Proving Grounds (Maryland) con una mano sull’impugnatura di un fucile M4, e un’altra sul calcio, e un’altra a lato della canna, per stabilizzarla. Ma forse “mano” nel terzo caso è un termine non appropriato, visto l’aspetto dell’arto in questione, notevolmente più sottile degli altri due, termina con una sorta di uncino interconnesso direttamente all’apposito aggancio. L’uomo corre, si getta a terra senza intralci, punta l’arma in tutte le direzioni. E se potessimo disporre dei dati relativi ai bersagli che gli è riuscito di colpire, noteremmo subito qualcosa d’importante: un drastico aumento di centri, rispetto alle sue prestazioni antecedenti a quando è entrato a titolo temporaneo tra le sparute schiere dei cyborg transumani, al tempo stesso molto più,  molto meno, di un onorevole guerriero spartano.

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Un incontro col robot che amplifica i movimenti del suo pilota

Nel 2008, anno delle Olimpiadi di Pechino, ci fu una piccola nazione che nonostante i duri allenamenti, portati avanti per molti mesi sotto lo sguardo di una moltitudine di persone, non riuscì a qualificarsi per far partecipare alle gare il suo singolo atleta. Il nome di questo paese? In realtà non lo conosciamo. Ma l’appellativo di costui ci è giunto attraverso la fama imperitura: QWOP, come il suono che fa una scarpa da ginnastica quando colpisce il tartan rossiccio, pavimento per eccellenza nelle discipline dell’atletica leggera; no, QWOP: Quite Worthy Operative Person, acronimo soltanto parzialmente suggestivo dell’intento procedurale originario; no, QWOP: i primi due, e gli ultimi due tasti sulla prima riga della tastiera. Un chiaro rifermento al particolare stile deambulatorio dell’individuo in questione, la cui corsa, idealmente, era la risultanza di una serie d’impulsi (avanti, indietro, sopra sotto) inviati separatamente alle due gambe perfettamente capaci di condurlo nell’Olimpo degli atleti generazionali. Se soltanto non fosse stato così… Terribilmente scoordinato. Capite di cosa sto parlando? È il celebre giochino da browser, che spopolò nelle classi e negli uffici poco prima della rivoluzione smartphone, in cui la sfida principale per l’utente era riuscire a padroneggiare un sistema di controllo tutt’altro che semplice, efficiente o sensato. Eppure, così perfetto, da un certo punto di vista: poiché permetteva un controllo diretto dei muscoli dell’omino, ovvero la perfetta sovrapposizione tra le nostre dita alle sue scattanti caviglie. Tra un capitombolo e l’altro. Mentre nel più famoso gioco di corsa fino ad allora, Track & Field della Konami (Hyper Olympic, 1983) tutto quello che veniva chiesto in termini d’interfaccia per andare più velocemente era premere molto rapidamente il pulsante. Al giorno d’oggi, nessuno si sognerebbe di definirla un’esperienza in qualsivoglia modo edificante. Perché, dunque, dovremmo modellare l’imminente sport della corsa tra robot giganti sulla base di una tale attività, banale quanto ripetitiva?
Già, imminente. Qualcuno tra voi potrebbe, forse, aver assistito al cosiddetto “scontro di wrestling” tra i due sistemi meccanici da combattimento, costruiti rispettivamente da Stati Uniti e Giappone, organizzato lo scorso ottobre grazie alla campagna pubblicitaria della Megabots, piccola azienda finanziata online. Un’esperienza che in molti hanno definito deludente, per il semplice fatto che i mech in questione erano lenti, goffi e l’intera azione appariva di conseguenza  basata su un rudimentale copione. Tanto che dopo un simile exploit, comprensibilmente, molti sarebbero propensi a lasciare lo sviluppo dei sistemi robotici semoventi a mega-zaibatsu con i fondi pressoché illimitati, come la Boston Dynamics passata dal governo statunitense a Google, riprendendo una dinamica commerciale anticipata in pieno dal movimento letterario cyberpunk. Eppure, sono possibili anche vie di mezzo. Come l’ultima creazione di Furrion, multinazionale americana attiva nel campo del lusso dal 2004, che sembra al tempo stesso riconfermare, e smentire, i nostri preconcetti frutto di delusioni pregresse. Come sempre avviene nelle storie di robot, ad ogni modo, sarebbe riduttivo attribuire il Prosthesis mostrato per la prima volta allo scorso CES (robot dal nome, permettetemi di dirlo, poco ispirato) alle macchinazioni di un’intera compagnia senza volto, quando in effetti rappresenta il sogno di vecchia data, e il frutto di un lungo percorso personale, di Jonathan Tippett, l’uomo che parla finalmente per più di un minuto al vasto pubblico nella breve intervista realizzata dal canale Tested, durante una sua dimostrazione alla Maker Faire di San Francisco. Il che è senz’altro utile, dopo una serie di video di presentazione che iniziavano a ricordare in maniera preoccupante, con il loro stile eccessivamente enfatico, le pubblicità della Megabots. Quando qui di sostanza ce n’è eccome, soprattutto nel meccanismo alla base dell’intera faccenda, inaugurato dall’inventore dopo 10 anni di ricerca e sviluppo, con quella che lui definì il progetto Alpha Leg. Ipotesi: riuscire a controllare un arto metallico lungo svariati metri grazie ai movimenti diretti del proprio corpo. Esecuzione: difficile, anzi difficilissima…

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