Ultima frontiera della guerra corazzata: un WC russo dentro il carro del domani

Con un sibilo imprevisto, il sistema d’intercettazione reattivo Afghanit scatena l’inferno. Il proiettile nemico, rallentato sensibilmente, impatta contro l’armatura del T-14 Armata con traiettoria diagonale. Colpi, scosse tremebonde, il rombo senza sosta del motore. Un tocco delicato sul sistema di controllo d’armi, in grado di ruotare l’armamento in direzione del nemico. “Fuoco” grida il comandante; ma voi sapete, molto bene, che la situazione sta per prendere una piega totalmente differente. Avete mai provato il senso di quel brivido freddo che vi percorre la schiena? L’orripilante consapevolezza, poco dopo che lo scritto è cominciato, di come avreste fatto meglio dopo tutto ad andare al bagno, piuttosto che ripassare per l’ultima volta gli argomenti dell’esame. Seguìto da quel senso di condanna ineluttabile, l’inesprimibile terrore, di chi sa che non potrà recarvisi per oltre un’ora. Fretta. Sudore. Agitazione. Ebbene ciò è una parte, prima o poi, profondamente inevitabile dell’esperienza umana. Poiché meri esseri viventi siamo, ed in quanto tali, concepiti per sopravvivere grazie a un ciclo che non al 100% regolare. Ma vi sono attimi, drammatici momenti, in cui la società ci vieta d’espletarlo; ed uno di essi, come ben sappiamo, è pericoloso il fronte di battaglia organizzato tra due contrapposti schieramenti di veicoli da guerra: carri armati. Cari amati, oggetti fatti al fine di annientare ciò che si trova all’esterno, ma che talvolta possono finire per fiaccare anche lo spirito dei loro passeggeri. Poiché un soldato, per quanto abile e disciplinato, resta fatto della stessa carne e sangue, e tutti gli altri materiali, che caratterizzano la nostra forma fisica di questa Terra. E questo include, chiaramente, la copiosa risultanza dell’imprescindibile escrezione. Se hai mangiato, devi farlo, se hai bevuto non potrai resistergli. E talvolta, tanto basta a far la differenza nel momento della verità.
Nessun problema! L’UralVagonZavod (Bureau di Progettazione d’Armi degli Urali) ha pensato veramente ad ogni cosa e tale ogni, come largamente trattato negli ultimi giorni dai siti d’argomento tecnologico di questo mondo, non prescinde l’inclusione all’interno del nuovo progetto di carro armato russo, dal costo unitario di 3,7 milioni di dollari ed un peso di 48 tonnellate, un gabinetto “dotato di sciacquone” perennemente disponibile a vantaggio dell’equipaggio di comandante, pilota e cannoniere. Si tratta, in parole povere, del primo carro armato della storia a presentare un tale accorgimento, che oltre a colpire chiaramente la fantasia popolare potrebbe a conti fatti riuscire a far la differenza tra la vita e la morte. Poiché tra tutti i membri della guerra meccanizzata, probabilmente non ve ne sono altri costretti a passare un maggior numero di ore dentro ad una scatola impenetrabile quanto i carristi, pena il rischio di trovarsi pericolosamente esposti nel momento in cui, infine, il nemico dovesse presentarsi all’orizzonte. Ed il bisogno di condurre a greve compimento il ciclo del proprio processo energetico mitocondriale, nella maggior parte delle situazioni, non può che rivestire un ruolo di primo piano a margine di tutto questo. Ora come d’altra parte avremmo potuto facilmente prevedere, tali aspetti chiave della nuova piattaforma d’armi russa restano largamente protetti dal segreto militare, benché sia possibile ipotizzare la presenza a bordo dello stesso tipo di gabinetti normalmente utilizzati negli RV (camper e roulotte) coadiuvato da un serbatoio chimico posizionato in una zona protetta dell’involucro impenetrabile del carro armato. Questo in considerazione, largamente discussa negli ultimi anni, di come il T-14 Armata possa in effetti giungere a costituire uno dei mezzi più previdenti e “sicuri” dell’interno campo di battaglia contemporaneo, quando finalmente entrerà in servizio in un qualche momento imprecisato dell’incipiente anno 2020…

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Il mercato futuribile di una sgommata che perpetra se stessa

Seduto rigido sopra il sedile, il pilota creativo affronta il rally col tenore di una sola pennellata: al termine di ciascun tratto rettilineo, quando giunge l’attimo cruciale della svolta, gira il suo volante “appena il giusto” affidandosi all’intuito del momento. Egli può esser abile, se vanta un certo grado d’esperienza, ma ogni sfida può della sua carriera è inerentemente soggetta ad influenze esterne: sta piovendo? Quanto sono consumate le sue gomme? C’è uno spettatore sull’interno della problematica banchina? Gli imprevisti che persistono, possono portarlo ad un errore. Mentre la sua controparte, per così dire, scientifica, può essere considerata ben diversa. Perché giunge a un tale gesto sopra le ali di una precedente Conoscenza; il senso esatto, frutto di precisi calcoli, di quanto sia possibile spingersi oltre, piuttosto che frenare con un’enfasi frutto di calcoli profondi. Il pilota razionale: ciò che tutti aspirano a poter infine diventare, se riescono a durare sufficientemente a lungo nei recessi impegnativi di quel mondo. Che è poi anche il NOSTRO mondo, se soltanto ci pensi: poiché questo è quello che succede, specialmente in inverno, quando l’aderenza delle ruote si trasforma in un fattore ormai facoltativo. Per l’effetto di quel ghiaccio, oppur la pioggia assieme al vento, l’auto si trasforma in un proiettile fuori controllo destinato all’autodistruzione.
Attimi, momenti dal profondo dramma dell’introspezione. E non sono molti, tra gli autisti del comune quotidiano, a potersi dir capaci di restare calmi in tali circostanze, affidandosi a un principio di ragionamento. Il che potrebbe relativamente presto, d’altra parte, cambiare: già perché per quanto ne sappiamo, da qui a 20-30 anni, le strade potrebbero trovarsi popolate di una nuova stirpe di piloti. Senza volto e senza corpo, a meno che per “corpo” non s’intenda il mezzo stesso di metallo dentro cui si trovano gli umani stessi. Ed è questa, per l’appunto, la domanda che hanno scelto di porsi J. Christian Gerdes e i suoi studenti del Dipartimento di Progettazione Dinamica dell’Università di Stanford, con la creazione a partire dal 2015 di un nuovo tipo di veicolo, chiamato niente meno che Multiple Actuator Research Test bed for Yaw control (o MARTY) data la passione duplice di questo professore per gli acronimi e una certa serie di film iniziata negli anni ’80. I più attenti tra voi avranno infatti già notato come il mezzo in questione abbia l’aspetto esteriore di niente meno che una DMC DeLorean l’iconica (terribile) automobile frutto del desiderio d’innovazione dell’ex direttore del marketing di varie importanti compagnie motoristiche statunitensi John Zachary D, successivamente trasformatosi nel promotore del più disallineato parto della sua mente: un’auto dall’aspetto sportivo che era tutto, fuorché sportiva. A meno prima che scienziati più o meno sani di mente, provenienti dalle regioni maggiormente irriverenti del cinema di genere, riuscissero a trasformarla in una piattaforma straordinariamente solida del sogno umano di viaggiare nel tempo. E chi l’avrebbe mai detto, sul finire esatto del 2019, che un simile proposito potesse tornare nuovamente rilevante…

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X-59: quasi pronto l’aereo che oltrepasserà la barriera del suono in silenzio

Lungo e aerodinamico essere da 25 metri, le ali raccolte lungo i lati a un’estensione di 9 soltanto. Così affilato da non poter sembrare possibile, mentre neppure l’ombra di un finestrino “rovina” la parte frontale del tuo aghiforme muso. Quale potrebbe mai essere lo scopo di una simile meraviglia della tecnica parte della lunga serie degli “X” planes, ennesimo frutto del dipartimento progetti segreti della Lockheed Martin, nome in codice Skunk Works? Era il marzo del 1964 quando, ormai dopo un mese dall’inizio degli esperimenti, una troupe incaricata dalla Federal Aviation di documentarne i risultati tra la gente di Oklahoma City scoprì qualcosa di peculiare. Un gruppo di operai impegnati in un cantiere cittadino, piuttosto che aspettare il suono della propria sirena per andare a pranzo, avevano preso l’abitudine di sincronizzare la fine del turno con il passaggio di un aereo sopra la loro posizione. Il passaggio di un’aereo tanto rumoroso e preciso da non poter semplicemente passare inosservato, così veloce, in effetti, da rompere il muro del suono. E non soltanto… Quello.
Se c’è una lezione che possiamo trarre in effetti dalla serie di test sul volo ultra-veloce condotti dal governo degli Stati Uniti a spese della propria stessa popolazione, più o meno lieta di collaborare, è che l’orecchio umano può abituarsi a tutto; non così, invece, le ancor più vulnerabili vetrate dei palazzi: nel giro delle prime 14 settimane dell’operazione in effetti, la città scelta per il suo “grado di tolleranza” considerato superiore alla media, 147 tra le sole finestre dei due edifici più alti della città erano andate in frantumi. Ed entro l’arrivo della primavera vera e propria, gremiti gruppi di protesta erano stati organizzati al fine di chiedere l’immediata chiusura dell’iniziativa. La famosa operazione Bongo II, come era stata soprannominata, costituisce dunque oggi una delle maggiori basi (più o meno) scientifiche che operano a sfavore dell’adozione su larga scala del volo supersonico commerciale, permettendo nei fatti il superamento della barriera del suono soltanto sopra zone disabitate o le acque dell’oceano. Perché contrariamente a quello che si potrebbe pensare, tale roboante suono perfettamente udibile terra persino dalla quota elevata di un volo di linea, non è un qualcosa di momentaneo che termina alla successiva accelerazione, bensì un vero e proprio cono geometrico in grado di seguire il passaggio dell’aereo, udibile di volta in volta ad una precisa distanza del suo passaggio, PER TUTTO IL TEMPO in cui esso continuerà a muoversi al di sopra della velocità Mach 1. Ecco, dunque, la base operativa del progetto X-59 QueSST (dove Que sta per “quiet” ed SST vuole significare, per l’appunto, super-sonic transport) iniziato su richiesta della NASA nel febbraio del 2016 e con la sola partecipazione di uno dei maggiori fornitori aeronautici dell’esercito statunitense. Verso la creazione di un nuovo velivolo in grado di raggiungere i 1.510 Km/h (1,42 volte la velocità del suono) producendo un “boato” percepibile di appena 60 decibel contro i 105, ad esempio, del Concorde. Un qualcosa di effettivamente paragonabile, in modo prosaico, al rumore prodotto dalla chiusura decisa dello sportello di un’automobile finalmente lasciata nel suo parcheggio. Un proposito questo, ideale continuazione del processo iniziato nel 2003 con la definizione di Shaped Sonic Boom Experiment, finalizzato ad andare ben oltre i semplici F-15B con la forma di ali e fusoliera modificate al fine di limitare la coalescenza dell’aria sopra queste ultime, lasciando il posto ad un vero e proprio velivolo costruito da zero. Sostanzialmente diverso, dal punto di vista esteriore, da qualsiasi altro abbia mai solcato i cieli fin dal primo decollo sperimentale dei fratelli Wright…

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Le catene da neve che si attivano con la pressione di un interruttore

Il tempo è denaro, indubbiamente, il tempo è può essere un tiranno. Ma può anche capitargli di rappresentare, in determinate circostanze, la linea divisoria tra la vita e la morte. Immaginate ad esempio il caso di stare guidando a velocità sostenuta lungo una strada dell’Ohio, del Wisconsin o del Minnesota… Qualcosa di relativamente pesante, come un furgone, scuolabus, camion dei pompieri o autoarticolato dall’alto numero di ruote. Quando a un tratto vi rendete conto che il tempo di risposta ai movimenti del volante si è allungato, i freni non funzionano, il veicolo è del tutto fuori controllo! Immagino sappiate già di che si tratta: il temutissimo ghiaccio nero, conseguenza del fenomeno meteorologico noto come gelicidio, che diventando un tutt’uno inscindibile con l’asfalto, lo rende totalmente impervio alla trazione veicolare e al tempo stesso Imprevisto. Perché ovviamente, non è certo possibile montare le catene come precauzione, laddove il ricorso a un simile espediente in condizioni d’assenza di neve, oltre ad essere contrario alla legge per i danni causati al manto stradale, accorcerebbe la durata dei nostri pneumatici in maniera esponenziale. Niente paura, tuttavia! Poiché è quello l’unico momento, nel corso del nostro scenario ipotetico, in cui il fantasma di un anziano maestro Jedi dal color verde oliva comparirà dinnanzi al vostro parabrezza, declamando con voce stentorea: “Il pulsante devi premere, soltanto in questo modo sopravvivere potrai” E… CLANG!
Non è magnifico? Non è forse un’incredibile miracolo della scienza? Nel giro di appena un secondo, un secondo e mezzo, il sufficiente numero di ruote sotto la carrozzeria ritorneranno a fare presa lungo l’impossibile sentiero. Proprio come se fermando momentaneamente il tempo, il vostro angelo custode nella Forza avesse provveduto ad installare l’unico sistema in grado di risparmiarvi il pericoloso incidente. Ed è in effetti proprio questo l’episodio a cui abbiamo assistito, con la sottile differenza di esser stato il frutto di una tangibile invenzione umana, piuttosto che l’intervento sovrannaturale di un qualcuno oltre lo spazio “visibile” del mondo. O per esser più precisi, frutto del progetto originariamente disegnato da Mr. W.H. Putnum di New York nel 1915, benché, molto probabilmente a causa delle possibilità tecniche relativamente limitate dell’inizio del secolo scorso, non sarebbe stato lui a portare a compimento le più estreme conseguenze dell’idea. Bensì lo svedese Göran Törnebäck di Linköping, che aveva acquistato il brevetto nel 1977, al fine di proteggere la propria piccola flotta di furgoni per la consegna del latte dal terribile pericolo del ghiaccio nero. E non soltanto quello: anche permettergli di navigare adeguatamente, senza le perdite di tempo dettate dalla continua applicazione e rimozione delle catene da neve, per le strade spesso congelate della sua città. Ma le drop chain o automatic tyre chain (entrambe definizioni previste dall’odierna anglofona nomenclatura) possono essere molto più di questo, proprio per la capacità di entrare in funzione nel giro di pochi attimi e con il veicolo già in movimento. Grazie all’ingegnoso principio che caratterizza, ad oltre trent’anni, il loro semplice funzionamento. Avete presente in parole povere, il leggendario funzionamento dell’arma di Xena, regina guerriera delle Amazzoni dal volteggiante disco chakram preso in prestito direttamente dalla dinastia indiana dei Moghul?

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