La paura non facilita la pesca, la paura è il grande capogiro che impedisce il decollo. La paura non permette d’insinuarsi con il becco in mezzo ai flutti, e fare seguito a tal gesto con l’intera parte rimanente del proprio corpo. Agitandosi e fluttuando, come un piccolo pinguino, in mezzo ai turbini ed ansiosi mulinelli. Creati dalle circostanze al fine di permettere lo scorrere delle acque verso valle, ma anche uno strumento implicito della natura, per proteggere i suoi membri privi di ali “fatte” per volare. Ma c’è un cielo e ce n’è un altro tipo, mormorava sobbalzando il concentrato Ouzel, grigio sovrano dei due contrapposti elementi. Quello sovrastato dalle stelle. E quello sovrastato dalle stelle in mezzo a cui si trovano i neonati scintillanti dei gamberi e delle zanzare. Non più posizionati nella forma di asterismi come l’Orsa Maggiore, dunque, che gli americani chiamano il Grande Mestolo (o Big Dipper). Ancorché soggetti alle attenzioni particolarmente problematiche del Dipper (in questo contesto: tuffatore) altrimenti soprannominato come il merlo acquaiolo. Compatto volatile noto anche in Europa, dove si presenta con il petto bianco ed Asia, dove invece tale parte è caratterizzata da un colore rossastro. Luogo di specie simili ma in effetti dalle dimensioni superiori, al nostro amico di 16-17 cm e totalmente grigio Cinclus mexicanus, così chiamato nonostante sia presente sull’intera costa Ovest, fino alle propaggini più estreme del Canada e della gelida Alaska.
Una creatura che non teme… Nulla. Come narra in un suo celebre capitolo il naturalista e “padre” dei parchi nazionali John Muir, che dedicava nel 1894 all’interno del suo famoso testo Le montagne della California argute metafore e una sincretistica narrazione, sulle notevoli qualità di quello che più volte avrebbe definito come il suo volatile preferito. Perché a differenza di qualsiasi altro produttore d’armoniose melodie, non si ritira quasi mai nei mesi invernali, né compie migrazioni eccetto per qualche spostamento di poco conto, continuando imperterrito a industriarsi nelle attività che gli sono affini. Ivi inclusa quella, fortemente caratterizzante, d’immergersi parzialmente o del tutto, giungendo addirittura a nuotare controcorrente mediante l’impiego delle corte e forti ali, nella ricerca di valide fonti d’approvvigionamento alimentare. Primariamente artropodi di vario tipo, benché non disdegni l’occasionale pesciolino da ghermire col suo becco appuntito. Confermando un rapporto stretto ed indiviso con le acque in rapido scorrimento che semplicemente non ha equivalenti nell’intero mondo degli uccelli, al punto da portarlo a difendere un territorio in configurazione lineare che è anche l’asse logico dei propri spostamenti. Perché quasi mai, uno di loro, volerebbe dritto verso l’obiettivo, preferendo seguire ed orientarsi in base alle multiple anse del proprio ininterrotto corso d’appartenenza…
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Di antiche tavolozze dei giganti e laghi taumaturgici nella Columbia canadese
Nessuno sa esattamente quanto possa essere antica la cerimonia curativa degli Okanagan, un rituale condotto periodicamente sotto la supervisione degli anziani, depositari del potere filosofico e spirituale della tribù. Ciò che sembra aver costituito, ad ogni modo, una costante imprescindibile nella pratica di questa circostanza originaria della regione sul confine tra lo stato americano di Washington e il Canada, centrata sulla valle omonima dai 400.000 residenti complessivi, è l’utilizzo del singolo elemento che le credenze locali hanno sempre giudicato responsabile di consentire e preservare l’esistenza umana: siwɬkʷ, l’acqua che compete agli sciamani, responsabili di preservarne la sacralità e purezza soprattutto nel procedere di un’epoca fermamente determinata a farne un’imperterrito sfruttamento. Per quanto possibile e comunque non sfruttando, per ovvie ragioni di contesto, una piccola pozza endoreica come quello di Kłlil’xᵂ (pron. Kliluk) più comunemente detta del lago maculato per il suo aspetto talvolta estremamente caratteristico e distintivo. Una depressione impermeabile vagamente reniforme della lunghezza di 0,7 Km per 0.25 di larghezza, unite a una profondità molto variabile in funzione della quantità di precipitazioni cadute annualmente. Questo per l’assenza, come implica la sopracitata qualifica idrologica, di alcun affluente o emissario, presumendo un ciclo che deriva unicamente dall’accumulo delle acque discendenti dalle colline circostanti e conseguente evaporazione, durante i mesi dell’estate priva di umidità. Periodo in cui, con precisione svizzera ed ineluttabile, il livello complessivo cala fino al punto di lasciare ben visibile una matrice di circa quattrocento pozze dalla forma circolare, ultimo residuo del precedente specchio di superficie. Elementi ben distinti tra di loro perché formano un gradiente cromatico varabile, ciascuna caratterizzata da un colore come il verde, marrone, rosso ed azzurro. Ancor più visibili grazie al fondale fangoso che li circonda con il suo colore biancastro, derivante da un affioramento di significative quantità del sale sottostante. Non c’è quindi molto da meravigliarsi se gli Okanagan, anche detti Syilx o per traslitterazione di epoca coloniale identificati come il gruppo etnico dei Salish, abbiano lungamente attribuito a questo luogo il coinvolgimento in un’ampia serie di miti e leggende, la maggior parte collegate ad una particolare circostanza. Quella di uno spirito superno, antica madre dei processi naturali, che piangendo lacrime amare per la malattia dei propri amati figli le avrebbe lasciate cadere per un anno intero nel bacino del Kliluk, ciascuna delle quali andando a formare una singola delle pozze variopinte del particolare contesto lacustre. Donando ad esse la particolare qualità di agire come cura possibile per una delle malattie della Terra, mediante il tramite di un giusto grado di rispetto spirituale e la capacità di compiervi abluzioni nel modo corretto. Una credenza con più basi logiche e comprovate evidenze, di quanto si potrebbe idealmente essere inclini ad immaginare…
Storia recente di Sant’Elena, monte che risorge dalle profondità del suo stesso cratere
L’enorme senso di aspettativa, non necessariamente condiviso dall’intera collettività di chi poteva o doveva mettersi in salvo, le reiterate vibrazioni e deformazioni della massa solida soltanto in apparenza. E poi, alle ore 8:30 della mattina del 18 maggio 1980, la frana destinata a scatenare una catastrofica detonazione. Pari a 26 megatoni di TNT fatti saltare in aria, sufficienti a devastare un’area di foresta a forma di ventaglio dalle dimensioni di 37×31 Km, come colpita dall’impatto di un potente lanciafiamme. Interi tronchi, con decadi o persino secoli di storia, sradicati via da terra, mentre quelli più sottili furono spezzati facilmente a metà. E trasportati dallo spostamento d’infiniti metri cubici d’aria fino allo Spirit Lake ed il Fork Turtle River, creando uno strato solido di copertura che persiste ancora, sebbene soltanto in parte. E strati, su strati, su strati di cenere grigio scuro, capace di ricoprire le (poche) abitazioni nei dintorni, le automobili, le strade stesse. Interi cumuli di questo materiale, che soltanto molti anni di pioggia avrebbero contribuito, gradualmente, a far scomparire tra le pieghe della terra. Ma mentre il paesaggio continuava il suo processo di recupero, lo stesso non poteva dirsi del Lawetlat’la/Louwala-Clough, o come gli intraprendenti coloni del Pacific Northwest avevano scelto di chiamarlo “Monte Sant’Elena” orgoglioso stratovulcano di diorite risalente all’epoca del Pleistocene, epoca durante cui la placca tettonica della Siletzia, massiccia formazione basaltica sottomarina, andò ad impattare contro l’attuale zona di subduzione di Cascadia. Mentre plurime fuoriuscite di lava, nelle generazioni a seguire, avrebbero fatto il resto: 2.949 metri d’altitudine, raggiunta nella guisa di un’elegante cono innevato tanto distintivo da essere stato soprannominato a più riprese “il monte Fuji americano”, almeno finché il realizzarsi del suo devastante destino non ne trasformò radicalmente l’aspetto. Fino a quello ancora oggi osservabile di un ferro di cavallo poco più alto di 2.500 metri, evidentemente spezzato al punto che nessun passeggero all’interno di un volo di linea, che stesse guardando fuori dal finestrino al momento giusto, potrebbe mancare di riconoscerlo indipendentemente dalle sue conoscenze pregresse in materia. Eppure così devastato, eppur mai privo della propria forza ed una volontà imperitura, come la stragrande maggioranza delle formazioni vulcaniche più celebri Sant’Elena non ha cessato in alcun modo di creare e dare forma al proprio destino. Una tendenza chiaramente evidenziata dalla presenza di un terribile rigonfiamento sopra il centro stesso del suddetto cratere, come la sommità di una mongolfiera, egualmente sottoposta all’accumulo di una pressione che non cala, ma piuttosto aumenta in modo progressivo ed esponenziale. Senza potersi sollevare verso l’alto, in questo caso, nella ricerca di un qualsivoglia presupposto valido a sfogare la sua potenza. Con il risultato che possiamo osservare in questo video timelapse dell’USGS (Servizio di Osservazione Geologica Statunitense) che copre il periodo tra il 2004 ed il 2008, quando a partire da 24 anni dopo il giorno zero dell’evento, nuovi sommovimenti tellurici hanno dato luogo ad una ripresa del più antico processo vissuto dalla montagna: quello valido a tentare di raggiungere, con la propria sommità svettante, le propaggini inferiori delle nubi stesse…
Lo spavento presidenziale di fronte alla temibile creatura lagomorfa della palude
Campione dell’America democratica con un messaggio d’inclusione e rivalsa, dopo i lunghi anni della guerra del Vietnam e lo scandalo del Watergate, che definì entrambi degli errori nel suo discorso al giuramento sulla Costituzione, Jimmy Carter giunse alle porte della Casa Bianca con il fermo intento di proteggere un paese finalmente unito, economicamente solido e forse anche, per quanto possibile, ridurre il numero dei suoi nemici senza posa. Nei precisi quattro anni in cui rimase al potere tuttavia, prima di essere travolto dall’ondata di sostegni al carismatico Ronald Reagan, non mancarono accese critiche alle sue idee e scelte politiche, talvolta basate su di un filo logico, qualche altra, su improbabili e altrettanto insoliti catalizzatori. Nessuno dei quali, nella misura in cui fu registrato dalla storia, più della vicenda metaforica ed alquanto surreale del terribile “coniglio mannaro”, così chiamato per analogia col recente successo cinematografico dei Monthy Python e il Santo Graal, quando il 20 aprile del 1979 avvenne l’imponderabile e l’imbarcazione presidenziale, impiegata per una battuta di pesca presso la località di Plains in Georgia venne momentaneamente presa d’assedio da una creatura al tempo stesso familiare e spaventosa, di aspetto gradevole ma caratterizzata da un latente quanto innegabile senso di minaccia. Era un Sylvilagus aquaticus o coniglio dalla coda a batuffolo di palude, come avrebbe potuto facilmente identificarlo qualcuno di abituato a vivere all’aperto, sebbene la rapidità delle vigenti circostanze, unita all’esigenza di fare immediatamente qualcosa, avrebbe potuto infrangere la sicurezza di chicchessia. Ma non quella, si narra, del presidente Carter che, sollevando sopra la sua testa la pagaia della piccola barca a remi, la calò con forza nell’acqua, producendo un suono ed uno spostamento liquido fortunatamente sufficienti a scoraggiare la rabbiosa creatura. Il che sarebbe stato sia l’inizio che la fine della vicenda, se non fosse per la maniera in cui l’addetto stampa dello Studio Ovale, Jody Powell, narrò ingenuamente l’episodio ad alcuni giornalisti durante una serata a base di alcol generando un caso che sarebbe stato destinato a coinvolgere la nazione. “Come ha potuto il nostro presidente, rischiare di nuocere a una creatura protetta?” Seguito dall’ipotesi religiosa: “I valori cristiani dello schieramento democratico passano di nuovo in secondo piano, mentre un leader tanto di rilievo non si preoccupa di pagaiare un povero coniglio.” E chiaramente all’estremo opposto dello spettro, non mancò l’inclemente postulato: “Non ordinando alle sue guardie del corpo di sparare al coniglio, Jimmy Carter si è mostrato debole. Ciò ha causato ondate di instabilità mondiale ed indirettamente, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e la crisi degli ostaggi in Iran.” Eventualità apparentemente poco probabile, ma che sarebbe stata almeno in apparenza corroborata da alcuni documenti in russo visionati dal celebre giornalista dell’epoca della guerra in Corea, Robert Novak. Spuntò fuori anche una fotografia del temibile aggressore, destinata ad ispirare una pletora di parodie che avrebbero smesso di essere prodotte soltanto a settimane di distanza, mentre riferimenti all’episodio continuano ancora ad essere una parte inscindibile della cultura popolare statunitense. Tanto che oggi si è ancora soliti affermare: “Chi si prende gioco di un coniglio, non è mai stato aggredito da un coniglio.”
E del resto, avevate mai sentito parlare di un leporide tanto a suo agio dentro l’acqua, da poter pensare di aggredire a nuoto un’imbarcazione? Se così non fosse, ve ne svelo subito la ragione: in qualità di silvilago del Nuovo Mondo, genìa in effetti ben più simile alle nostre lepri, l’essere protagonista di questa vicenda è caratterizzato da un’appartenenza esclusiva all’area nordamericana, dove costituisce una vista piuttosto comune in determinati stati ed il secondo lagomorfo più cacciato nello scenario contemporaneo. Con buona pace dei suoi molti, opportunisti cavalieri bianchi all’acquisizione transitoria di rilevanza politica, attraverso le alterne vicende di una Nazione…