Tutto molto bello, ma c’è vita su Keplero 452b?

452b

Sono spesso le piccole cose, che riescono a colpirci maggiormente. Non l’intera sequenza di complesse relazioni causa-effetto che conducono all’evoluzione, bensì la pecora, forse l’ape regina. Non la luce abbagliante di un’alba epica d’Agosto, che s’imprime nella retina impedendo di ammirare il mondo immerso nelle fiamme metaforiche d’estate, ma il suo geometrico riflesso dai contorni nitidi, sulla candida parete innanzi alla finestra. E non tanto gli enormi osservatori spaziali, come il vecchio Hubble da 11 tonnellate, con lo specchio iperbolico da 2,4 metri, o l’ancora più potente Herschel, che con i suoi 3 metri e mezzo è l’obiettivo più grande che sia mai stato messo in orbita dall’uomo, ma un qualcosa di molto più piccolo, lontano e specifico nel suo funzionamento. Nella logica del desiderio collettivo di conoscere lo spazio cosmico, la missione Kepler è certamente sempre stata poca cosa: “solamente” 18 milioni di dollari l’anno per un periodo tre/quattro anni, più la cifra non facilmente reperibile (si stimano i 500 milioni) richiesta per portare questo oggetto da 3.000 Kg appena in orbita solare, ovvero il più possibile lontano dalle interferenze di un pianeta uguale a quelli che avrebbe dovuto ritrovare, ma così tremendamente rumoroso e luminoso, un fastidio veramente duro da ignorare. Dunque, nel vuoto cosmico ha fluttuato, come fluttua ancora, a partire dal 2009 e lietamente ci ha fornito dati di alta qualità sul suo soggetto d’indagine, almeno fino ad Agosto del 2013, quando la NASA giunse darci la notizia: si, Keplero non funziona (bene) ormai da qualche tempo. Era in effetti un anno fa, quando uno dei quattro giroscopi al suo interno, usato per puntarlo verso la zona del centro galattico attorno alla costellazione del Cigno, si era guastato, smettendo di rispondere ai segnali inviati tramite la doppia banda radio a microonde per due volte la settimana, mentre la ruota di un secondo di questi dispositivi, a danno di noi tutti, stava sviluppando per motivi ignoti un certo grado di frizione. Nulla di eccessivamente significativo, in termini generali, ma più che sufficiente ad impedire il corretto funzionamento dell’intero apparato e continuare a svolgere efficientemente il ruolo per cui era stato portato fino a lì. Difficile, del resto, immaginare una missione di servizio e riparazione, come quelle effettuate a più riprese per il suo insigne predecessore Hubble, posizionato tanto più vicino a noi. Così, a partire da quella data, il telescopio è stato messo in stand-by, nella speranza di trovare nuovi metodi d’impiego (la futura missione, denominata K2, consisterebbe dell’osservazione di asteroidi e comete).
Eppure, la leggenda di Keplero vive ancora. Questo perché il suo compito principale, quel minuto strumento d’osservazione siderale riuscì a compierlo davvero molto, quasi troppo bene. Ed è un concetto che ormai diamo per acquisito, anche perché il senso comune era propenso a confermarlo, ma che dal punto di vista scientifico potrebbe dirsi una scoperta rivoluzionaria: noi (intesi come la Terra in qualità di pianeta) non siamo soli, là fuori. Anzi, tutt’altro! La prima ipotesi sull’esistenza di pianeti al di fuori del sistema solare fu formulata, neanche a dirlo, da quel gigante degli albori della scienza che è stato Isaac Newton, nell’ultimo libro del suo magnum opus, il Philosophiæ Naturalis Principia Mathematica (1687) mentre il primo che pensò di aver effettivamente osservato un simile corpo astrale fu soltanto Peter van de Kamp nel 1963, prima di essere smentito da John Hershey a distanza di 10 anni, che rilevò un errore sistematico nel funzionamento del suo telescopio. La prima scoperta confermata di un pianeta extrasolare fu invece quella degli astronomi canadesi Bruce Campbell, G. A. H. Walker e Stephenson Yang, che ne rilevarono l’esistenza da osservazioni sulla lunghezza d’onda della luce emessa dalla stella Gamma Cephei. A tutto questo, negli anni successivi fecero seguito altre timide e sofferte scoperte, sempre difficili da confermare, per lo più riguardanti corpi affini alla classe del gigante gassoso, ovvero troppo grandi e pesanti (pensate alla gravità folle di Giove) perché potessero ospitare qualsivoglia forma di vita. Per rinverdire l’interesse pubblico nella questione, ci voleva una svolta e quella svolta fu più che altro una catarsi.

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Stella di metallo, perché pulsi quando giri?

Brusspup Star

Nel 1967, gli astronomi Jocelyn Bell e Antony Hewish scoprirono qualcosa d’incredibile, e non solo! Ciò avvenne come al solito, per puro caso. Mentre puntavano il proprio radio-telescopio, da scienziati di già larga fama, verso il nucleo galattico di una quasar, chiaramente alla ricerca delle origini dell’universo, furono improvvisamente abbacinati da un perfetto sfolgorìo del tutto regolare, quella che sembrò a tutti, in un primo momento, la chiara dimostrazione di una civiltà galattica sperduta all’altro capo del Creato. Era infatti impossibile spiegare, altrimenti, quel fenomeno: una luce intermittente, sempre uguale a se stessa, spenta e accesa, spenta e accesa all’infinito. L’energia, per quanto ne sappiamo, non si comporta a questo modo. Una volta accesa una fornace intergalattica, con una potenza sufficiente a scalvacare i parsec millenari, questa può soltanto ardere, fino all’esaurimento. Eppure…
Si accendano i riflettori. Uno spazio cosmico infinito, punteggiato da sperduti sprazzi di materia. Globulari ammassi opachi, qualche volta riflettenti, appena. Certe altre, invece, fulgidi di splendida energia. E speranza ed opulenza! Chi ha spostato le nubi molecolari fino all’incontro degenere, portando a poderose onde d’urto iper-cariche di gravità? Chi ha messo in moto i fiumi di gas pesanti e polveri oscure, accelerati fino a celeri conglomerati rotativi? Chi ha compresso il vento di particelle cariche, finché l’idrogeno, senza più una via di fuga da quel pozzo inconoscibile, si è riscaldato fino ad ardere, di un fuoco appassionato e senza un grammo di pietà? Chi mai? Chi potrebbe? Se non Brusspup, il presunto “autore” qui già trattato ben due volte ma che stavolta finalmente dico, si è dimostrata essere un’autr-ice (lo smalto azzurro sulle unghie, guarda caso, l’ha tradita) Tanto intenta ad appendere un pezzo di metallo, all’apparenza privo di segreti, sotto l’architrave abitativo, l’attaccapanni, addirittura un lampadario chi lo sa. Ma quel maneggevole oggetto con tanto di cristallo giroscopico nel centro, per girare meglio, è stato intagliato con una particolare attenzione alla sua ricorrenza matematica, per cui la stessa forma, ricreata, esattamente identica ma in scala ridotta, ivi ricompare nei diversi gradi dell’inclinazione rotativa, sui diametri del tempo di rivoluzione. E la forma è il fondamento dell’azione, in questo caso, perché pare un asterisco del pensiero. Si tratta dello stereotipo geometrico, tanto antico quanto immotivato fisicamente, utile a rappresentare quel concetto astrale… Niente affatto astratto, per inciso. Di un corpo spropositato in grado di produrre luce, e calore, e potenza e un peso filosofico per niente indifferente. Quand’ecco, si accende un riflettore sul fondale bianco. Stars shining bright above you! Di stelle si riempiono le case, in determinate occasioni, perché si usa dire che tali figure segnino il sentiero delle aspettative. Che ponendole su un piedistallo, in qualche figurativo modo, si possa giungere a uno stato di coscienza superiore. Sia pure questa, guarda caso, frutto dell’incontro con un bambinello artificiale, il semplice simbolo di…

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