Le ripide salite, le brusche discese, i robusti sollevamenti, i lunghi salti che colmano lo spazio tra i continenti. Ogni cosa è possibile se crederai in te stesso; perciò non perderti mai d’animo. E se mai dovesse vacillare la tua volontà, pensa a quello che ti ho detto credi intensamente a questa serie di parole. Soltanto in questo modo, potrai riuscire a superare la crisi. Già, completamente inutili verso l’inizio degli anni ’80. Fratello dirigibile, sorella mongolfiera, retaggi di un tempo in cui l’unico modo per sfuggire alla gravità era pesare meno dell’aria, grazie a un ingombrante bagaglio di quello stesso fluido attentamente riscaldato e/o gas particolarmente utili, incendiabili ma molto lievi. Poiché la capacità di carico, per quanto elevata, di un aeromobile realizzato con la foggia di uno pneumatico per biciclette (non a caso, continuava ad impiegarli la Michelin) è inerentemente privo di quella dote importante che possiamo definire il “controllo verticale”. Fondamentalmente necessaria a compiere molte delle imprese che oggi ci si aspetta da un comune elicottero ed aeroplano. Già, pensateci: come faceva l’Hinderburg (o uno qualsiasi dei suoi più fortunati successori) a salire o scendere a comando? Esisteva un modo soltanto, consistente nel rilascio pianificato dei suoi ingenti carichi di zavorra, qualcosa d’inerentemente e logisticamente complesso, nel caso in cui oltre a un numero preciso di passeggeri s’intendesse trasportare un carico variabile, costituito dai loro bagagli, merci oppure missive postali. Ed è questo problema che l’inventore statunitense parzialmente dimenticato dalla storia Arthur Crimmins, iniziando a lavorare proprio nel penultimo decennio del Novecento, si era prefissato di risolvere mediante un nuovo e rivoluzionario approccio alla questione. Quello del suo Aerolift Cyclocrane, finanziato da ben cinque diverse compagnie di raccolta e vendita del legname canadese, sostanzialmente un’aeronave ibrida in cui il volo veniva sviluppato (letteralmente) al 50% per l’impiego di grandi sacche d’idrogeno ed elio, ed al 50% da qualcosa di drasticamente inaspettato e brutalmente efficiente. In pratica la versione sovradimensionata di quattro ornamenti da cofano a forma d’aeroplano con tanto di motore funzionante, disposti in posizione cruciforme attorno a una struttura solida centrale. Ma soprattutto, capaci di ruotare lateralmente per un intero arco di 360 gradi, potendo sviluppare la stessa capacità di spinta sia verso indietro ed avanti, che nelle due direzioni perpendicolari al senso di marcia. Crimmins scelse quindi di chiamare simili apparati a forma di T gli stalks (gambi) e posizionare la cabina di pilotaggio, costituita nei suoi due prototipi dalla parte frontale di un elicottero, attaccata ad un lungo filo ben distante dal resto dell’improbabile congegno volante. Per una ragione che può essere facilmente identificata, nella specifica maniera in cui la sua creazione si sarebbe comportata durante l’utilizzo e soprattutto, in fase di decollo ed atterraggio. Il punto principale ed artificio risolutivo custodito nel cuore del Cyclocrane era la maniera in cui esso potesse sollevare se stesso mediante l’impiego della solita tecnologia del gas dei dirigibili, ma rigorosamente NON il suo carico. A vantaggio del quale sarebbe intervenuta la spinta verso l’alto generata dall’espediente aerodinamico che prende il nome di ciclogiro, oppure ciclo-rotore. In altri termini quella generata dalla rotazione longitudinale di una serie di pale capaci di sfruttare un principio simile, ma distintamente diverso da quello del normale rotore di un elicottero. Un sistema che si trovava essenzialmente rappresentato, nel caso della notevole invenzione americana, dall’intero veicolo indotto a ruotare su se stesso alla velocità di 13 giri al minuto, abbastanza da spingere la parte finale del gambo con le sue piccole ali (o blades/lame secondo la terminologia ufficiale) a una velocità soggettiva di quasi 100 Km orari. Il che avrebbe permesso al pilota, nella sua cabina posta a ragionevole distanza di sicurezza, d’inviare un comando ciclico capace di far puntare le loro superfici di controllo in direzione alternata, al fine di contrastare a seconda della necessità la naturale tendenza dell’aeronave a salire, piuttosto che quella indotta dal carico a scendere verso il terreno. In altri termini, restituendo alla sapiente mano umana l’assoluto controllo della sua altitudine all’interno della colonna atmosferica, anche senza ricorrere all’approccio più moderno di un vettore più pesante dell’aria. Soluzione capace di comportare non pochi vantaggi, come la quantità assolutamente ridotta di emissioni inquinanti, la marcia comparativamente molto più silenziosa e la sempre intrigante possibilità di raggiungere luoghi molto remoti, sollevando carichi pesanti (i.e. tronchi) per poterli riportare sani e salvi presso l’interessata civiltà in attesa. Ed anche qualche valido, persistente problema…
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La folle invenzione tedesca dello scivolo d’acqua rotante
Verso gli ultimi anni di conflitto contro le creature aliene provenienti dal gigante gassoso ZX-372, le cose iniziarono a prendere una piega decisamente più favorevole dal punto di vista dello schieramento umano. I coraggiosi marine spaziali avevano scoperto infatti come, proiettando uno schermo fumogeno prima di avvicinarsi ai vermi giganti, questi ultimi andavano immediatamente in confusione, ruotando su se stessi fino all’approssimazione ragionevole del proverbiale nodo gordiano. A questo punto diventati totalmente incapaci di praticare la masticazione mediante i loro denti più lunghi di una spada da samurai, tutto quello che restava era farsi trangugiare intenzionalmente all’interno del loro sistema digerente enorme e longilineo, percorrendolo per l’intera lunghezza grazie all’impiego di un apparato di scivolamento privo di alcun motore. Il che avrebbe sorpreso, in un primo momento, l’intelligente e normalmente pericolosissima creatura, per poi renderla incapace di bloccare la produzione di succhi gastrici progressivamente superiore alla normalità. Impervi ai proiettili, le bombe atomiche, il fuoco ed ogni tipo di assalto psichico da parte degli specialisti della Seconda Ondata, i mostri cosmici a quel punto iniziavano progressivamente a sgretolarsi dall’interno, a patto che una serie senza fine di “pillole troiane”, ciascuna composta da una squadra di quattro soldati, continuasse a fuoriuscire a getto continuo dall’uscita di sicurezza al termine di quel viaggio estremamente educativo. Tra coloro che avevano vissuto una simile esperienza, considerata la sua efficacia e relativa semplicità d’impiego, essa iniziò ad essere chiamata per scherzo: “Lo scivolo da Luna Park” e al ritorno dell’auspicata condizione di pace per le 13 colonie stellari, simili strutture iniziarono a venire costruite in lungo e in largo, incrementando notevolmente i propositi turistici delle diverse località planetarie. Come tende a capitare tanto spesso, quindi, ci fu la solita fuga d’influssi psionici attraverso i condotti retroattivi dei condotti temporali. E nella storia del terzo millennio terrestre, cose del tutto simili iniziarono a fare la loro comparsa in Cina e Polonia.
Ora secondo il tipo di approfondimenti nozionistici di cui possiamo disporre nella nostra esperienza sensibile lungo i recessi dettagliati di Internet, quello che viene ad oggi definito 摇滚巨轮 – 世界上首个自转水上滑道 (Yáogǔn jùlún – shìjiè shàng shǒu gè zìzhuǎn shuǐshàng huá dào*) oppure “Aquaspinner” risulta essere formalmente un’attrazione concepita nella ridente cittadina tedesca di Starnberg, presso il land della Baviera, grazie all’ingegno e l’esperienza della compagnia locale Wiegand Waterrides, specializzata nel manipolare la fisica gravitazionale al fine di creare vari tipi d’esperienze in qualche modo fisicamente memorabili per coloro che ne sperimentano l’utilizzo in prima persona, auspicabilmente accompagnati dai loro amici, familiari e fidanzati/e. Questo perché il primo vantaggio offerto dall’avveniristico acqua-scivolo riguarda soprattutto gli operatori del parco e risulta essere di tipo logistico, dato il volume di persone pari a 480 l’ora processabili, o per meglio dire digeribili, all’interno dell’impressionante groviglio motorizzato lungo 140 metri, suddivise in tre squadre da quattro persone l’una. Ciascuna posizionata nel segmento molto convenientemente colorato da cinesi, per lo meno nel caso della prima versione della strana giostra, in altrettante vivaci tonalità verde, viola ed arancione. Inaugurata nell’estate del 2018 presso il grande parco gestito dall’ente multinazionale canadese Whitewater nelle vicinanze della grande metropoli di Guanzhou, dal nome puramente corporativo di Chimelong Huānlè Shìjiè (Il Paradiso di Chimelong). Verso un’esperienza destinata a rimanere del tutto unica al mondo, per lo meno per un altro paio di anni e fino all’ulteriore propagarsi della singolarità…
L’ipnotica tecnologia del macchinario che confeziona gli alberi di Natale
Era circa la metà degli anni ’70 quando l’olandese naturalizzato in Canada Henry Tillaart scrutò, dall’alto della collinetta che sovrastava il suo vivaio nella regione di Durham, i remoti confini del suo dominio. Schiere di conifere ordinate, fatte crescere secondo i metodi applicati di una lunga tradizione, ma in quantità abbastanza significativa da potergli garantire un’utile fetta del mercato di stagione. Il vento d’inverno faceva muovere quei rami, accentuando le caratteristiche e la forma dei diversi aspetti del suo prodotto: c’erano abeti affusolati, per l’impiego nelle case meno spaziose. E ce n’erano degli altri più larghi e rigogliosi, adatti al posizionamento nei giardini antistanti, per chi disponesse di decorazioni capaci di resistere alle intemperie. E poi, presso un particolare sito “sperimentale” erano stati fatti crescere per qualche anno più a lungo degli alberi decisamente più imponenti. Alti 5 metri, 6, 7, da impiegarsi nelle piazze cittadine e in quel nascente tipo di attrazione ingombra di luci, divertimenti e negozi che gli abitanti urbani stavano iniziando a definire il Centro Commerciale. Lì un gruppo dei suoi impiegati, lavorando sotto la supervisione diretta di un addetto alla logistica, facevano del loro meglio per affrontare una situazione decisamente complessa. Del tutto inadatti si infatti si erano dimostrati, i normali tubi di metallo con la “calza a rete” normalmente impiegati al fine di raccogliere e contenere quei rami dalle propaggini aghiformi, costringendo il personale all’improvvisazione. Così alcuni uomini erano saliti su una scala appoggiata ad un furgone, mentre altri con un lungo bastone stavano tentando di far girare l’involucro di plastica e filo metallico tutto attorno all’imponente essere vegetale. Il quale, soltanto successivamente sarebbe stato tagliato e disposto sul cassone aperto dell’autoveicolo, per il trasporto fino al sito di raccolta e spedizione. “Possibile che questo sia il modo migliore?” Esclamò l’industriale con la giacca ben serrata, rivolgendosi a un disordinato gruppo di ghiandaie grigie, che discutevano animatamente per il controllo di un tratto di terra, dove probabilmente avevano scovato alcuni dei pregiati lombrichi dell’arboreto. E fu allora che Tillaart notò, in prossimità di quel piccolo caos, una pianta rampicante che iniziava ad arrampicarsi sul palo di un vicino lampione. Girando tutto attorno ad esso, formava una sorta di spirale, capace di racchiudere ed abbarbicarsi con la massima efficienza a quella forma tubolare. “E se, abbracciando il tronco, si potesse convincerlo a collaborare…?”
Non è in effetti semplice, da una posizione esterna all’azienda, risalire all’effettiva origine e storia del dispositivo noto come Tree tyer (legatore d’alberi) della Dutchman Industries, azienda nordamericana rinomata per la propria competenza nel campo della meccanizzazione arbustiva, ovvero la creazione di metodi industriali e tecnologici finalizzati alla gestione di codesti esseri dalle simmetriche ramificazioni. È tuttavia piuttosto ragionevole immaginare, visto l’ingegno ed il talento di coloro che seppero cambiare in modo significativo le regole di questo grande gioco, immaginare una versione preliminare di quel meccanismo, risalente all’epoca in cui venne messa in produzione la prima pala triangolare dell’azienda. Ciò di cui sto parlando ora, potreste anche conoscerlo (e d’altra parte, ne abbiamo già parlato sulle pagine di questo blog) nella foggia distintiva di un attrezzo tripartito maneggiato da un braccio idraulico, capace di tagliare e immergersi dentro la terra, incapsulando un arbusto assieme al proprio suolo ed una parte considerevole di radici. Al fine di piegarlo da una parte e assicurarlo sul pianale del trasportatore, verso nuove mete utili a un trapianto con dei validissimi propositi di sopravvivenza. Lasciando semmai il problema, in corso d’opera, di come proteggere ed assicurare i rami più piccoli, destinati altrimenti a riportare significativi danni soprattutto dalla parte schiacciata verso il basso, per effetto della gravità spietata. A meno di averne effettuato un’efficiente legatura, con metodi il più possibile rapidi e funzionali allo scopo. Ecco dunque la più futuristica proposta tra quelle impiegate per affrontare, ed in qualche modo risolvere il problema…
L’elettrizzante corsa della prima macchina capace di superare i 100 Km orari
Le nubi iniziavano a addensarsi minacciose, sulla piana erbosa di Achères dove trovava posto il nuovo impianto per il trattamento delle acque reflue provenienti dal sottosuolo della vicina Parigi. Un luogo destinato a passare alla storia, in quel fatidico 29 aprile 1899, per un’ancor più notevole (e meno maleodorante) passaggio nella storia della tecnologia: la dimostrazione tanto a lungo meritata che le auto dotate di batterie, per loro implicita natura, erano superiori alle due alternative motoristiche più diffuse. Uno spalto improvvisato era stato montato dal sindaco del vicino comune omonimo, dove si affollavano i giornalisti e rappresentanti delle tre fazioni oggetto della contesa: vaporisti, petrolieri ed elettricisti. Ma soprattutto appartenenti a questa terza categoria, per il semplice fatto che i due partecipanti alla tenzone avrebbero guidato per l’appunto, durante quella semplice gara, auto incapaci di produrre alcun suono udibile in fase d’accelerazione, marcia e frenata. Il duca Gaston de Chasseloup-Laubat, con i folti baffi ed il cappello da corsa sopra l’elegante impermeabile, guardò ancora una volta in direzione del suo avversario. Il facoltoso figlio di commercianti di prodotti in gomma, proveniente dal Belgio, dalla folta barba rossa e una sfolgorante serie di successi nella registrazione di record di velocità pregressi. “Mio rivale, mio collega.” Pensò tra se e se il nobile della Charente (regione della Nuova Aquitania) che aveva iniziato con l’automobilismo facendo da autista a suo fratello, il marchese Samuel Prosper, discendente diretto del più importante geniere militare soltanto 30 anni prima al servizio dell’Imperatore Napoleone III. Così chiuse il cofano della sua famosa Jeantaud Duc, prodotta dall’omonimo e migliore fabbricante di Parigi, per scrutare ancora una volta il veicolo e l’uomo che avrebbe dovuto sfidare. Camille Jenatzy si trovava a bordo, ancora una volta, del suo strano sigaro dal numero di telaio 22 che la stampa aveva iniziato a chiamare La Jamais Contente, su suggerimento del suo stesso creatore e proprietario, forse alludendo all’aspirazione avventurosa di chi tenta di stabilire nuovi record. Forse con riferimento ai precedenti insuccessi riportati in occasioni del tutto simili a quella presente. Mancata partenza, problemi all’alimentazione, guasti di varia natura successivamente alla prima vittoria incontrastata nel 1898, in una gara in salita contro la Léon Bollée tri-car, lungo la collina del castello di Chanteloup alla vertiginosa velocità di circa 20 Km/h. “Ma quella, avrei potuto batterla facilmente anche con la mia Jeantaud” Pensò tra se e se il duca, che nel frattempo aveva superato di 9 secondi il ciclista che lui e il barbarossa belga si erano impegnati a superare, mentre l’auto della controparte cessava improvvisamente di funzionare. Battendolo di nuovo, a gennaio del 1899, con 69 Km/h contro 65 sul chilometro lanciato in territorio pianeggiante. Ed ancora 91 Km/h il 4 marzo dello stesso anno, superando di gran lunga qualsiasi altra velocità mai raggiunta da un autista veicolare fino a quel giorno. Perciò Gaston era piuttosto sicuro, ancora una volta, di poter riuscire a trionfare contro quell’uomo venuto da lontano.
Nessuno, d’altra parte, avrebbe potuto dare una grande fiducia alla Jamais Contente sulla base del suo bizzarro aspetto. La forma simmetrica per ragioni di aerodinamica, che la faceva assomigliare a una bombola per il gas. Ma la posizione del pilota sporgente vistosamente verso l’alto, come si trovasse a cavallo (naturalmente, senza nessun tipo di cintura di sicurezza) e soprattutto quelle ruote piccolissime, con pneumatici prodotte da una nuova e sconosciuta azienda che prendeva il nome di Michelin. Questo perché il suo creatore belga, nel creare la prima vettura della storia realizzata ad hoc per lo stabilimento di un nuovo record di velocità (essenzialmente, la prima “Formula 1”) aveva scelto di piazzare l’intero blocco del motore elettrico sopra il semiasse anteriore, eliminando in questo modo la perdita d’energia dovuto all’inefficienza degli antichi sistemi di trasmissione veicolare. Una scelta, assieme a molte altre fatte in quel particolare contesto, destinate a rivelarsi capaci di capovolgere le aspettative, fornendogli l’accesso ai magnifici allori della vittoria…