L’eccezionale realizzazione del primo carro armato in legno di quercia vietnamita

E poi, tra le più interessanti implicazioni delle tecniche di marketing virale post-moderno, figura questa: il classico momento in cui una grande compagnia multinazionale, nell’interesse di far meglio conoscere ciò che vende, contatta uno dei numerosi e notevoli artisti del Web. Per commissionare alla sua agenda, dietro il pagamento di una somma rigorosamente segreta, un suo personale contributo, spesso fantastico ed inimitabile, alla redditizia leggenda di quel franchise. È un capovolgimento di fattori di quel mondo, in cui ogni creazione viene raggiunta tramite crismi e linee guida dettate da un comitato, che il direttore creativo controlla soltanto in parte, dovendo rispondere alle direttive dei suoi manager, i superiori e gli azionisti della compagnia. Così il vero metodo di chi è pronto a sovvertire ogni legittima aspettativa, resta solo quella di chi ha il compito, sebbene temporaneo, di lavorare in pubblicità. Una notevole scoperta, capace di condurre a significative soddisfazioni, anche da parte del famoso carpentiere vietnamita Trương Văn Đạo, già famoso per il suo canale di larga fama ND – Woodworking Art in cui realizza, a partire dall’anno scorso, una vasta quantità di oggetti e supercars guidabili in scala ridotta 1 a 3, frutto del più fine modus operandi fatto di pazienza, attenzione per i dettagli, straordinaria perizia nell’impiego dei suoi strumenti. Doti che potrebbero anche cambiare, all’interno di un particolare universo parallelo, le sorti stesse di un conflitto armato tra due nazioni… Ed ecco a voi la prova.
La vegetazione si agita nel vento. Le nuvole corrono veloci. La gente per le strade di Bac Ninh, cittadina di 247.000 abitanti nella parte settentrionale della penisola indocinese, si ferma per qualche saliente attimo e scruta in quella memorabile direzione; mentre i pensieri corrono indietro, ai ricordi dei propri genitori e nonni del conflitto più recente e significativo della loro storia pregressa, durante cui armamenti francesi e statunitensi giunsero a diventare una visione drammaticamente comune tra le strade del paese dei draghi. Mezzi come il Panhard EBR, Engin Blindé de Reconnaissance, uno dei più iconici mezzi europei da ricognizione con armamento pesante della seconda metà del secolo scorso. Ripreso direttamente dalla sua fedele riproduzione introdotta soltanto 3 anni fa all’interno del sempre popolare ed ormai antico videogioco di combattimento strategico World of Tanks, capace di mantenere focalizzata l’attenzione di un pubblico di appassionati per un periodo di ormai ben 10 anni. Una singolare scelta, dopo tutto, nel vasto e celebre catalogo di un titolo focalizzato principalmente sugli anni della seconda guerra mondiale, assai probabilmente motivata, almeno in parte, dal tipo di risorse e materiali a disposizione dell’autore ed unico personaggio di questo singolare show. Che vedono protagonista, come al solito, oltre al telaio e motore recuperati da un furgone della Mitsubishi, la più fedele scocca realizzabile interamente in legno di quercia finemente lavorato ad intaglio, come una letterale scultura semovente, direttamente proveniente dalla più elegante scuola tradizionale di carpenteria vietnamita. Antico e moderno, dunque, uniti ad una delle più imprescindibili passioni dell’umanità (qualsiasi sia il mondo o l’universo d’appartenenza): farsi la guerra tramite l’applicazione di sistemi tecnologici che siano splendidi e riconoscibili, ancor prima che semplicemente letali. Visione prontamente ed appropriatamente sdrammatizzata, nell’intento dietro questa commissione realizzata su richiesta, grazie alla solita funzione dimostrata dai video prodotti dall’artista: far divertire, tramite partecipazione diretta, il suo simpatico e giovane figlio, imprescindibilmente invitato a prendere parte al collaudo del veicolo con evidente e comprensibile sorriso, mentre gusta lietamente l’ultimo residuo di un lecca-lecca, simbolo di spensieratezza totalmente all’opposto di qualsiasi conflitto armato in quanto tale…

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Startup dimostra le notevoli potenzialità ricreative di un drone personale gigante

Chiunque, tra gli amanti della letteratura fantascientifica “di tutti i giorni” sia incline a lamentarsi della prolungata mancanza in questo mondo di automobili volanti, jetpack, hoverboard, intelligenze artificiali, robot antropomorfi che fanno le faccende domestiche, nanotecnologie, la clonazione umana, cyborg ed esoscheletri militari, dovrebbe guardarsi un attimo intorno e fare i conti con la realtà. Perché sebbene l’attuale società non sia esattamente simile a quella mostrata nei film degli anni ’80 come Robocop, Blade Runner o Aliens (mancano, in modo particolare, mostri xenomorfi ansiosi di deporre le proprie uova nello stomaco della gente) molti dei voli pindarici ed immaginifici relativi al tanto atteso nuovo millennio hanno a 20 anni di distanza assunto forma pienamente pratica e apprezzabile, sebbene siano ancora ben distanti dal fare parte inscindibile della nostra vita. Questo perché molte delle aspirazioni sin qui citate, nella realtà dei fatti, erano tutt’altro che adatte ad entrare a far parte dell’universo delle cose pratiche: chi desidera realmente un maggiordomo scintillante, quando un semplice aspirapolvere autonomo può svolgere la stessa mansione? Chi rinuncerebbe a un arto o organo con cui è venuto al mondo, per avere braccia allungabili, occhi capaci di vedere la notte, un stomaco capace di digerire il fegato di squalo? E i “cani” dal lungo collo della Boston Dynamics sono tutto quello che avevamo sognato in materia di compagni artificiali domestici, tranne per il piccolo dettaglio di un costo di 74.500 dollari. E per quanto riguarda l’aspirazione di spostare il traffico cittadino parzialmente sopra i cieli, basti prendere effettivamente in considerazione ciò che implica una tale scelta logistica ed operativa. Laddove le persone che risultano abbastanza prudenti e ragionevoli da usare la propria patente stradale sono già inferiori al 100%, dal che vi lascio immaginare i risultati di concedergli l’equivalente di un moderno brevetto di volo. Con aeroutilitarie che sfrecciano su più livelli, ed aeromacchine sportive che s’insinuano e sorpassano quando dovrebbero aspettare il proprio turno. Per non parlare degli aerofurgoni sempre in ritardo per la consegna, terribile pericolo per chiunque abbia mai provato a circolare su un’aerostrada di scorrimento che collega due quartieri all’altro lato del tentacolare agglomerato cyberpunk. Eppure non c’è dubbio che un sistema di trasporto personale in grado di sfuggire temporaneamente all’attrazione gravitazionale mantenga molto del fascino che si era guadagnato ancor prima dei fratelli Wright, nelle illustrazioni dei primi racconti e antologie speculative del Novecento. Ed ecco la portata, superficialmente dirompente, che accompagna la nuova invenzione della startup svedese Jetson, denominata proprio in base al celebre cartoon degli anni ’60 e ’70, nato come risposta futuribile alla strana esistenza domestica de “Gli antenati” (i Flintstones). Così pensando a George e Jane che circolavano al di sopra di Orbit City con i loro due figli nella propria vettura a forma di bolla, il fotografo e costruttore di droni polacco Tomasz Patan si è incontrato con l’esperto amministratore di venture motoristiche Peter Thernstrom nel 2017, per iniziare a perseguire la realizzazione fisica di quel sogno. Approdando ad un qualcosa che, sebbene non risulti effettivamente identico, sembra possedere buona parte dello stesso spirito, o quanto meno le due fondamentali funzionalità di partenza: poter andare là, dove osano le aquile a partire dal vialetto di un villino schiera del tipo statunitense, e non richiedere avanzate tecniche di pilotaggio, frutto di molte ore di pratica pregressa ai comandi. Questo perché il Jetson One, come è stato ribattezzato dopo l’appellativo preliminare di PAV (Personal Air Vehicle) non si presenta nella tipica configurazione elicotteristica bensì quella di un vero e proprio drone, con otto motori ad elica a passo fisso in configurazione accoppiata due-a-due, nonché avanzati sistemi di stabilizzazione giroscopica e un abitacolo compatto e maneggevole, al punto da richiamare l’istantanea attenzione di tutti gli amanti degli sport estremi. Costantemente in cerca di un nuovo sistema valido per mettere in pericolo se stessi e (potenzialmente) gli altri…

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Funghi del futuro: il mondo immerso nella plastica che ricomincia dal suo micelio

Irraggiungibile potrebbe rivelarsi, col procedere e con l’inasprirsi delle condizioni presenti, l’agognato azzeramento dell’impronta di carbonio di una società prettamente industriale come la nostra, per cui il consumo di risorse, d’acqua e l’emissione di sostanze innaturali nell’atmosfera rappresentano effettive conseguenze inevitabili, così come la produzione di anidride carbonica lo è dell’atto stesso di respirare. Ma c’è un qualcosa, nella lenta progressione del pianeta verso l’auto-annientamento, che potrebbe avere conseguenze irrimediabili in un tempo ancor più breve: e questa è la saturazione dell’ambiente con il tipo di prodotto “collaterale” che frequentemente incontra la definizione di spazzatura. È stato stimato ad esempio, dalla Ellen MacArthur Foundation in collaborazione con il World Economic Forum, che gli oceani della Terra conterranno 937 milioni di tonnellate di spazzatura contro 895 m.d.t. di pesce, confermando e definendo un capovolgimento che potrà soltanto continuare a peggiorare. Questo in forza di quel materiale, più di ogni altro, nato da macromolecole e additivi frutto della scienza chimica, assolutamente non biodegradabile e per questo in grado di durare ancor più a lungo di un reperto preistorico di pietra d’ossidiana. Eppure se osservando la storia nel suo complesso, potremo ragionevolmente osservare la sopravvivenza della specie umana per molti millenni potendo contare su sostanze forse non altrettanto impermeabili o indistruttibili, ma comunque funzionali ai suoi bisogni primari: la ceramica, il legno, il cemento… Fino alla creazione, in epoca moderna, di una ricca serie di contesti in cui è proprio la plastica, con la sua notevole praticità e versatilità d’impiego, a giustificare la sua stessa imprescindibile essenza. Al punto che sarebbe sembrato totalmente impensabile, al principio degli anni 2000, immaginare un mondo che si sposta in avanti, sostituendo tale pilastro con un qualcosa che sia meno problematico nei confronti del nostro singolo ambiente. Poi è arrivata la Evocative di Green Island, NY, e le cose hanno iniziato a prendere una piega del tutto inaspettata.
Dev’essere d’altronde stata un’esperienza notevole, quella vissuta all’epoca degli studi dal futuro laureando in botanica e futuro CEO Eben Bayer, in occasione della presentazione al suo professore dell’Università della California di un progetto teorico per la coltivazione con finalità industriali di diverse specie di funghi, durante un forum accademico per le invenzioni e l’innovazione da parte delle nuove generazioni. Occasione nella quale, non soltanto l’accademico in cattedra si dimostrò entusiasta dell’idea, ma consigliò caldamente al giovane di percorrere un tale sentiero fino alle sue estreme conseguenze, poiché avrebbe rappresentato un letterale barlume di speranza per tutti coloro che avessero finito per supportarlo. Così incontrandosi col suo collega scienziato Gavin McIntyre, Eben decise di lasciare il mondo del lavoro da dipendente in cui era entrato subito dopo la conclusione del suo percorso di studi e fondare assieme a lui nel 2007 la spesso rischiosa impresa di una start-up, chiamata in un primo momento Greensulate. Un’iniziativa destinata a confermare la sua correttezza con il primo conseguimento di un premio da 16.000 dollari entro lo stesso anno e soprattutto un finanziamento in quello successivo di 700.000, ricevuti a seguito della vittoria nella Picnic Green Challenge, evento europeo tra le più grandi riunioni comparative di nuove invenzioni tecnologiche nel campo dell’imprenditoria sostenibile. Abbastanza da stabilire i confini entro cui l’azienda avrebbe operato con l’assunzione di un certo numero di dipendenti e la costituzione del primo stabilimento operativo, presso Green Island, progressivamente riempito da contenitori dall’umidità controllata, ed un misterioso cubo gigante al centro esatto del suo cavernoso ambiente di lavoro. Forma nella quale, con laborioso e continuativo impegno, i suddetti avrebbero inserito mero materiale di scarto dell’industria agricola, assieme all’ingrediente segreto, per dar forma all’evidente aspetto candido di un materiale del nostro domani…

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I soccorsi non arrivano? Cinque minuti per montare l’elicottero e decollo da me

Il problema: coraggiosi piloti d’aerei da combattimento vengono talvolta, sfortunatamente, colpiti dal nemico in territorio ostile. l molti fondi investiti nei sistemi di eiezione o la resilienza dei motori costruiti dalle compagnie statunitensi, quindi, permettono a costoro di toccare terra sani e salvi, qualche volta senza riportare nessun tipo di conseguenza alla persona. Nell’immediato. Perché a quel punto, se c’è un qualche tipo di conflitto in atto (e non può certo essere altrimenti, giusto?) ciò che tende a capitare è che truppe di terra sufficientemente astiose accorrano sul luogo del disastro. Per catturare tali uomini, portarli presso il proprio campo base, farli propri prigionieri ad libitum. Pure leggi della guerra, si potrebbe anche affermare, intese come implicazioni inevitabili per chi si arma e affronta gli avversari politici della sua nazione. Accettando, se vogliamo, il pericolo assieme alle speranze di gloria. Eppure verso il concludersi del sanguinoso conflitto coreano, con ancora nella mente ben impressi i ricordi della seconda guerra mondiale, l’aviazione statunitense elaborò un particolare processo mentale; per cui tale sconveniente piega degli eventi si era ripetuta fin troppe volte. Lasciando il posto, per chi avesse avuto l’intenzione d’imboccarla, all’invitante tracciato di una possibile strada alternativa.
L’idea: era la seconda metà degli anni ’50, dunque, quando i vertici dell’Arma stabilirono una serie di parametri, applicando i quali sarebbero stati proprio tali falchi appiedati, per la prima volta, a mettere in salvo loro stessi dal pericolo, mediante l’attuazione di un progetto alternativo. Quello per la costruzioni di particolari mezzi volanti, che potessero essere tenuti a bordo dei velivoli più grandi come letterali scialuppe di salvataggio, oppure paracadutati sul bersaglio pronti ad essere sfruttati per tentare il tutto per tutto. Qualcuno ricorderà, a tal proposito, l’argomento precedentemente trattato su queste pagine del Goodyear Inflatoplane, un letterale aereo gonfiabile conforme ad una simile ambizione, rimasto allo stato di prototipo sebbene costruito in ben 12 esemplari. Un destino simile a quello toccato, pochi anni prima, ad un diverso approccio nei confronti della stessa identica questione: quello offerto al volo ad ala rotante, grazie al contributo di uno dei maggiori pionieri di questo ramo. La Hiller Helicopters, come si chiamava in quegli anni, era la compagnia californiana fondata da Stanley Hiller, personaggio di caratura paragonabile a quella del più celebre Igor Sikorsky, altrettanto strumentale per validazione negli anni ’30 e ’40 del concetto quasi-folle di volare a bordo di un marchingegno diabolico come un’aerodina a sostentazione dinamica, vibrante ed instabile per sua stessa concezione. Con abbastanza convinzione ed attenzione ai dettagli da permettergli di vincere, entro il 1953, il concorso indetto a tal proposito, grazie all’elaborazione preventiva di quello che sarebbe diventato uno dei primi e meglio riusciti elicotteri ultraleggeri della storia: il ROE Rotorcycle, destinato ad essere soprannominato dai cinegiornali come una sorta di “bicicletta dell’aria”. Ed osservandone caratteristiche, ingombro e configurazione, non è affatto difficile comprenderne la ragione: con un peso complessivo di appena 140 Kg, il singolo sedile sovrastato dal rotore principale e quello di coda al termine di un palo in grado di raggiungere i 3,84 metri dallo schienale inclusivo d’impianto di propulsione, l’oggetto volante parzialmente identificato ricorda molto da vicino il tipico gadget sfoderato nel momento culmine da un personaggio come James Bond, con la significativa differenza di esistere davvero, ed avere per lo più uno scopo pratico definito in maniera estremamente chiara. Quello di entrare all’interno di un cilindro standard di trasporto grazie a un’ingegnosa serie di piegature e paletti di fissaggio, tali da renderlo perfetto da sfoderare e montare in tempi estremamente brevi nel giro di appena 5 minuti. O almeno, questo è quello che si pensava all’epoca della sua preventiva approvazione…

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