Uno dei tratti caratteriali dominanti nella psicologia umana, attraverso i secoli, è sempre stato l’anticonformismo. Il bisogno, espresso da artisti, tecnocrati e figure politiche, di “distinguersi” da chi è venuto prima, proponendo una strada nuova e proprio per questo, in qualche maniera maggiormente intrigante per un pubblico di potenziali seguaci. Si tratta di una soluzione adottata anche dalla Natura stessa, attraverso il sistema delle mutazioni genetiche che conducono alla selezione naturale, altrettanto utile nel migliorare la qualità della vita e le condizioni di una specie. Eppure non così propositiva, per quanto concerne il lato estetico della questione. Pensate ad esempio all’immagine popolare dello stregone: un individuo alto, con la barba, tendenzialmente dotato di un cappello a punta. Nel mondo moderno, generalmente, un semplice copricapo di stoffa incolore, sformato, talvolta persino assente. E noi dovremmo pensare che l’aspetto di un personaggio come il grande stregone Gandalf, più simile a un anziano viaggiatore che al druido che dovrebbe rappresentare, sia degno dell’esponente di un simile alto ufficio? Può diventarlo, in senso moderno, soprattutto attraverso il filtro dell’umile sacralità cristiana attraversò cui l’autore affrontava un simile tema. Ma basta risalire fino al Rinascimento, per trovare figure di profeti, fattucchiere, cartomanti ancora dotati di ornamenti improbabili, strane chincaglierie, mantelli degni di un esibizione teatrale. Mentre se si torna indietro fino al Medioevo ed al Mondo Antico, non possiamo che trovarci ad identificarli con lo stile eclettico dei loro Dei dalla testa conica, quali Baal degli Ittiti, El dei Canaaniti o la divinità fenicia Reshep. Per trovare alcuni i cappelli più fantastici mai costruiti, tuttavia, occorre risalire ancora fino all’epoca preistorica dell’Età del Bronzo: circa 3.000 anni fa. Il contesto è quello delle culture proto-celtiche europee, tra le più avanzate dal punto di vista metallurgico in quella particolare epoca della vicenda umana. Naturalmente, poiché si tratta di cappelli realizzati in lamina d’oro. Il più duttile, attraente e facile da lavorare dei materiali preziosi, i cui primi esempi fatti oggetto dell’artigianato sono stati ritrovati nei Balcani, all’interno della necropoli di Varna, una serie di sepolcri risalenti a quasi un millennio prima di questa data. Niente che fosse altrettanto fantastico e sfolgorante, s’intende.
I coni d’oro della Preistoria (o Protostoria) costituiscono una serie di quattro misteriosi manufatti, ritrovati tutti nel corso degli ultimi due secoli e custoditi in alcuni dei più importanti musei tedeschi, francesi e svizzeri, che assumono l’aspetto di alti ed affusolati coni cavi, dotati di una base del tutto simile alla tesa di uno Stetson o un Panama odierni. Ritenuti per lungo tempo degli ornamenti per i templi, come una sorta di vasi o in alternativa, coperture decorative per dei pali, sono stati rivalutati quando gli studiosi fecero notare la loro forma sostanzialmente ovale, più che mai utile a calcare un cranio, nonché l’affinità ad alcuni dei copricapi raffigurati negli affreschi schematici della Tomba del Re, un tumulo coévo presso Kivik, nella Svezia meridionale. Contrariamente a quanto si possa tendere a pensare, inoltre, i cappelli in questione sono relativamente leggeri (appena 490 grammi il più grande, che si trova a Berlino) e avrebbero potuto quindi trovare la stabilizzazione ulteriore di una sorta di velo di stoffa, che sarebbe ricaduto sulle spalle del portatore. Già, ma chi sarebbe stato costui? Esistono diverse teorie, tutte appartenenti alla sfera religiosa. Altrimenti come potremmo giustificare un simile dispendio di materiali e tempo, in una società ancora primitiva in cui il semplice sostentamento dei popoli era tutt’altro che garantito? Secondo alcuni, si trattava di sovrani o capi della comunità, per cui era importante al tempo stesso risultare riconoscibili e suscitare un senso costante di suggestione. Altri credono che si trattasse di sommi sacerdoti, profeti in grado di pontificare sull’immediato ed il più remoto futuro. Ma il consenso, soprattutto in epoca più recente, vi ha individuato la figura di astronomi, una funzione che soltanto nell’epoca moderna è riuscita a slegarsi dal mondo del sovrannaturale. La base di questa ipotesi è forse più salda delle altre due, poiché nasce da un’analisi numerologica delle stesse decorazioni presenti su ciascuno di questi cappelli, realizzate tutto attorno al cono grazie all’impiego della tecnica del repoussé (colpi di scalpello dall’interno) e lo stampaggio con apposite forme geometriche ricavate da metalli più pesanti.
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Le anziane cacciatrici che afferrano i serpenti a mani nude
L’acqua fredda fino alle ginocchia, dentro la caverna oscura, verso le ore più profonde della notte: è questo l’ambiente ideale per Yoko Fukuchi e Setsuko Kohagura, sacerdotesse noro del più alto grado fin dal 1978, nonché le ultime praticanti di un’arte culturalmente rilevante ed antica. Raggiunta un’età in cui la maggior parte delle persone preferisce passare le proprie ore sul divano di casa, meditando su un buon libro, la televisione o dinnanzi al PC, queste due famose signore dell’isola di Kudaka, situata pochi chilometri dinnanzi alla piccola città di Nanjō-shi ad Okinawa sfidano serenamente il fato, quasi ogni giorno, per il semplice senso di abitudine e la fedeltà all’importante ruolo rivestito nella società. D’un tratto, nell’oscurità si sente un tonfo: è il braccio di Setsuko, rigorosamente privo di guanti o altre protezioni, che s’immerge con sicurezza tra le rocce aguzze, quindi afferra saldamente con la mano… Qualcosa. “Yokatta!” Esclama sottovoce la collega (Buon lavoro!) Mentre la cacciatrice veterana raddrizza agilmente la schiena, estrae il pugno con cautela dall’acqua ed illumina con la sua torcia l’animale catturato, un esemplare femmina di oltre un metro. Contorcendosi vistosamente, la creatura agita la testa e mostra gli artigli grondanti la mortifera tossina, due volte più pericolosa di quella di un cobra con gli occhiali: è un serpente di mare bocca gialla (Laticauda colubrina) fantastico animale a strisce bianche e nere, che un tempo costituiva il pasto spirituale del re. Sorridendo soddisfatta, La catturatrice rivolge il serpente verso Yoko. Che secondo un codice di solidarietà acquisito grazie all’esperienza, l’assiste nel metterlo nel grosso sacco d’ordinanza. Immediatamente, sulla scena torna a regnare l’assoluto silenzio, fatta eccezione per il suono della risacca che s’insinua nella caverna. Illuminandone i più distanti recessi, le cacciatrici ricominciano a cercare…
È un’anomalia così profondamente rappresentativa dell’arcipelago delle Ryūkyū, questa, il singolo luogo con la vita media più lunga la mondo. Dove nel 2007 è stato calcolato che risiedevano 457 centenari, il 20% della popolazione, e i casi di malattie cardiovascolari sono inferiori dell’80%, per esempio, rispetto agli Stati Uniti. Ed è chiaro che a questo punto, il raggiungimento della pensione non è più il segnale che occorre cambiare vita, bensì l’inizio di una nuova, fantastica avventura. Che può culminare, in particolari casi particolarmente estremi, così. È in effetti la prima nozione inculcata a qualsivoglia turista di questa terra emersa di appena 8 Km quadrati, per lo più rurale, il fatto che non sia per niente una buona idea immergersi tra queste acque, per quanto limpide e attraenti possano apparire, se non presso particolari spiagge e prestando sempre la massima attenzione ai dintorni. Questo perché l’isola di Kudaka, fin da tempo immemore, è la patria di oltre 30 diverse specie di serpenti molto velenosi, dalla leggendaria vipera asiatica habu (fam. Trimeresurus, Ovophis) a creature più esclusive di questi luoghi come gli irabu (Elapidae) di cui fa parte per l’appunto il genus dei succitati Laticauda, riconoscibili dalla punta della coda adattata per funzionare come una sorta di pinna posteriore, ma anche perfettamente capaci di strisciare sulle assolate spiagge o tra l’erba. Il che significa, essenzialmente, che qui ci troviamo in un ambiente in cui è possibile morire, anche se si ricevono immediatamente i soccorsi, per la semplice incapacità d’identificare il rettile da parte dei non-nativi, che non riusciranno quindi a ricevere il trattamento del giusto siero. Tanto che si racconta di come a giugno del 1945, durante la drammatica battaglia di Okinawa sul finire della seconda guerra mondiale, i soldati americani fossero più propensi a tenere gli occhi rivolti verso terra piuttosto che in direzione di un possibile agguato nemico. Il che inevitabilmente, portò per loro a non poche infauste conseguenze.
L’eleganza degli scheletri viventi del Benin
Le mani bianche, aguzze, gli occhi cavernosi e neri. Gli arti sottili e affilati. Le costole che protrudono ai lati, per tornare ad abbracciare una serie d’organi che non esiste più. Come potrebbe, da quando il corpo e la pelle si sono del tutto volatilizzati? Ecco, dunque, cosa resta: la parte macabra della struttura, il minerale che sostiene e dava la rigidità. Ma persino un Orisa, lo spirito degli antenati, non può svolgere al meglio le sue mansioni avendo l’aspetto della morte personificata in Terra. Così egli è ricoperto, da capo a piedi, da un costume variopinto. Un velo di perline copre il suo mostruoso volto. Un addetto con la frusta, in abiti soltanto lievemente meno sfolgoranti, lo segue da presso, per assicurarsi che nessuno lo tocchi. Altrimenti, sarebbe punizione capitale per entrambi. Scivolando silenziosamente oltre i confini della piccola città, l’essere non-morto e neanche-vivo si avvicina ad una casa, poi si ferma. Con una voce gracchiante, inizia a richiamare i suoi abitanti. Nessuno comprende le gesta degli Egungun, men che meno le loro parole. Ma le donne si rintanano nei più profondi pertugi dell’abitazione, come vuole l’usanza di Yorubaland. Quindi il vecchio patriarca, spalancando la porta, discende lo scalino sulla soglia. Piegato a causa dell’artrite, ascolta attentamente la disquisizione della strana creatura. Quindi annuisce, offre un obolo al guardiano armato e torna pensierosamente all’interno. Strofinando i piedi, lo strano visitatore si volta e se ne va. Cosa è successo? Quale oscuro segreto ha trasmesso, questa manifestazione sovrannaturale, come avviene ormai da secoli sotto il Sole bruciante dell’Equatore?
C’è un fondamentale fraintendimento, nella concezione universale di questi paesi, per cui qualsiasi luogo che si trovi a sud del Mar Mediterraneo non avrebbe mai contribuito alla cultura universale della società. Questa strana, assurda idea, secondo cui il più antico dei continenti sarebbe una sorta di distesa scarsamente popolata, priva di caratteristiche particolari dal punto di vista delle dinamiche artistiche e sociali. Ovviamente, chi lo pensa è un ignorante. Non in senso metaforico, ma in quello che gli mancano le cognizioni, come del resto a molto di noi, in merito alcune delle usanze, tradizioni religiose e pratiche più straordinarie al mondo. L’Africa è una terra di imperi Imperi sconfinati, difesi dal potere dei guerrieri. Di colori e straordinarie meraviglie. Una landa di terrori e mostri sconvolgenti. Come ogni altro luogo abitato dagli esseri umani, creatori di leggende ed altre storie. Grazie, se vogliamo, proprio all’opera di coloro che sono venuti prima, qui raffigurati dai cultori di una particolare forma di sciamanesimo dell’osso o dell’uomo-osso (ciò vuol dire un tale nome). L’Egun (pl. Egungun) è molto più che un semplice teatrante viaggiatore. Egli è una manifestazione di tuo padre, tuo nonno, il tuo bisnonno, talvolta anche se sono ancora in vita, mediati e interconnessi con le voci corali del Tutto. Che può dirimere questioni, esprimere profezie, comunicare con il mondo dei trapassati. Tra i servizi più importanti resi dai bardatissimi sciamani, quello relativo ai funerali. Quando è l’usanza che la bara del defunto venga accompagnata da una o più di queste figure, che gridi ossessivamente il suo nome. E che il giorno dopo torni a casa di chi l’aveva chiamato, per comunicare gli ultimi messaggi di colui che non risiede più tra i viventi. Un Egun non può mai scoprirsi, né essere scoperto del suo costume. Poiché se fosse possibile riconoscere colui che si trova al suo interno, ne deriverebbe che egli non era uno scheletro animato dal potere degli Orisa. E si trattava, dunque, di un impostore. Tuttavia il processo che gli dona i suoi poteri deve comportare un qualche tipo di trasformazione reversibile, se è vero che nelle abitazioni delle famiglie più abbienti di quest’area geografica, che include anche la Nigeria, possiedono almeno uno o più vestiti da indossare durante i riti sacri. In particolare verso l’inizio di giugno, quando si svolgono i sette giorni della Festa dei Morti. E per le danze del Gẹlẹdẹ, il rito pubblico che celebra le donne e la fertilità. Ma se pure si dice che l’abito non faccia il monaco, sentite a me: esso può certamente fare lo sciamano…
La danza delle mille braccia e il suo significato in Cina
Tai Lihua, ballerina rimasta sordomuta all’età di soli 2 anni, è famosa nel mondo per una particolare performance teatrale, diventata veramente internazionale durante lo show della China Central Television per il capodanno lunare del 2005: al rombare di una musica di flauti ed archi, accompagnata da quello che sembra a tutti gli effetti un canto sacro, ella esce da un portale fiammeggiante che rappresenta l’ingresso dell’Inferno, in abiti dorati e con vistosi ornamenti a punta che si estendono dalle dita delle mani. Quindi, rivolgendosi frontalmente al pubblico, cammina fino al bordo più estremo del palco, raccogliendo le mani in un gesto elegante all’altezza del suo petto. Poi, le allarga in un ampio abbraccio, mentre all’altezza delle sue spalle, ne spuntano un altro paio. Ma l’imprevidibilità della scena non termina lì: nel giro di pochi secondi, ai due lati del suo corpo spuntano una miriade di arti, che realizzano una serie di figure ed intriganti gestualità. Completata la prima sequenza, ai presenti viene mostrata la verità: 21 danzatrici anch’esse non udenti, che si nascondevano dietro la schiena di lei, si raccolgono a gruppi di tre, ciascuno dei quali disposto in fila rigorosamente indiana, per continuare separatamente l’improbabile pantomima. Ciascuno impegnato nel rappresentare lo stesso importantissimo personaggio. La “Dea” della Misercordia Guanyin, dalle 11 teste, le mille braccia e quasi altrettanti occhi, altrimenti nota col nome sanscrito di Avalokiteśvara, colei (o colui) che contempla [il male].
Dal punto di vista della Cristianità moderna, il dubbio non può sussistere in alcun modo: la religione Buddhista rientra nel gruppo dei politeismi, ovvero i culti non fondati sull’esistenza dell’unico Dio. Poiché Buddha non è un’entità singola, onnipresente ed onnisciente, bensì un princìpio oscuro che si trova nell’anima di tutti noi, che possiamo arrivare ad illuminare e liberare nel mondo, una volta superato il peso doloroso dell’Esistenza. Per la dottrina fondamentale iniziata da Siddhārtha Gautama, non esiste dunque neppure il concetto di teismo, poiché tutti gli esseri, terreni o ultramondani, sono fondamentalmente la stessa identica, suprema cosa. Eppure, ci sono dei punti di contatto tra le due distanti religioni. Uno di questi è la fiducia che nel mondo siano sempre esistiti, ed esistano tutt’ora, degli individui in grado di esprimere in maniera altruistica la loro probità, ricevendo in cambio il potere salvifico dei loro devoti. Sono costoro i santi, infusi del potere di miracolare la gente osservando le ingiustizie dal Cielo, oppure i santi Bodhisattva, coloro che una volta giunti sulla soglia della suprema realizzazione, hanno scelto di dargli le spalle, e guardando coloro che ancora giacevano intrappolati nel ciclo infinito ed inutile del Samsāra, sono tornati nel mondo per aiutarli. Ce ne sono svariate centinaia, a cui vengono dedicati dei templi in buona parte dell’Asia, più altri innumerevoli e poco noti. Come per i nomi che si affollano nel nostro calendario, ci sono entità Buddhiste che proteggono le madri, i padri, i camionisti, gli idraulici, gli studenti… Una grande proliferazione d’entità specializzate, a cui rivolgersi per determinate situazioni e causalità. Ciò che manca, invece, è la figura uguale per tutti della Madonna. Un’entità supremamente benevola, a cui persino il malfattore possa rivolgersi, nell’attimo fondamentale del pentimento. Eppure… Secondo il Sutra del Loto, il primo e più importante dei testi sacri del Mahayana (“Grande Veicolo”) oggi la corrente più seguita della religione Buddhista, c’è una preghiera che “[…] per un singolo secondo, porterà maggiori benedizioni di tutti i tipi di offerte ad una quantità di Dei pari ai grani di sabbia presenti in tutti e 62 gli aspetti del sacro Gange, per il periodo di una vita intera.” Ed è questa, ovviamente, la preghiera rivolta alla misericordiosa Guanyin.