“Sono davvero pazzi, questi pesci” Esclamò tra se e se Otto, con un improvviso sbuffo del suo sifone, mentre osservava uno dei maggiori, nonché il più strano e sgraziato possessore di pinne che avesse mai tentato d’invadere il suo spazio vitale. Intendiamoci: egli conosceva, come ogni suo simile, l’aspetto e il tipico comportamento di quel particolare tipo di creature, con i quattro tentacoli spessi e rigidi non diversi da quelli di un echinoderma, la testa minuscola rispetto al corpo e le appendici natatorie di un colore differente, quasi fossero degli oggetti che il mostro marino aveva incastonato nella parte terminale dei suoi limitati arti manipolatori. Giusto mentre ripassava, facendo affidamento sul suo approfondito acume, l’orribile descrizione dell’intruso, quest’ultimo sollevò l’altra coppia di terminazioni, che stringevano di contro un qualche cosa di molto più interessante; come una scatola, brillante per effetto della luce che filtrava oltre gli strati di superficie, dotata di una coda rigida e puntata con fermezza contro il polpo ed il suo piccolo ritaglio nel Mediterraneo, angolo di mare un tempo solitario e tranquillo a largo del golfo della della Napoule, non troppo distante dal comune francese meridionale di Cannes. Otto scrutò attentamente dentro l’obiettivo. Otto pensò all’arroganza di quel pesce ed Otto scelse, infine, d’agire: “Quella strana scultura starà benissimo nel mio salotto” Con un balzo fulmineo, come solo l’opportunità di proiettarsi direttamente dal fondale risultava in grado di garantire, raggiunse la scatola e la strinse tra i tentacoli, quindi tirò e tirò, con tutta la possenza offerta dai suoi ben 25 cm di lunghezza. Il che si rivelò bastante, a conti fatti, per strappare al pesce la sua possessione, facendola cadere sulla sabbia scintillante: “Strano tesoro, sei mio” Pensò il polpo, iniziando faticosamente a trascinare il premio, verso l’oscuro pertugio della sua tana. E fu allora che, con istantaneo orrore, Otto realizzò come il pesce a forma di stella marina non fosse in alcun modo intenzionato ad accettare la sconfitta, nuotando nuovamente verso l’infernale luogo che l’aveva generato. Con gli arti protesi, infatti, il mostro aveva nuovamente afferrato la coda della scatola, tirando con l’erculea forza offerta dalla sua impressionante stazza che dal punto di vista del polipo, avrebbe anche potuto essere quella di una balena. Era iniziata la lotta che avrebbe determinato, ancora una volta, chi era il Vero proprietario della baia…
Antica e per certi versi primordiale riesce ad essere tutt’ora, l’istintiva credenza secondo cui chi registra la tua immagine riuscirebbe, in qualche modo, a prendere possesso delle anime, imprimendone l’aspetto chiaro tra i recessi silicei della moderna alternativa alla pellicola di un tempo. E di certo sulla base di una simile situazione presunta sembrerebbe agire l’interessante protagonista di questo video emerso la settimana scorsa, sul variegato canale di ViralHog, probabilmente a seguito dell’acquisto diretto dal turista, o sub locale, che l’aveva registrato pochi giorni o settimane prima. L’epoca estiva è d’altra parte la più adatta a un tale fascino, delle fresche/chiare vivide profondità marine, ove la vita pare assumere un ritmo totalmente differente, e l’aumento di temperatura, purché ragionevole, non pare nuocere (ancora) al vasto ventaglio degli esseri dell’ecozona paleartica che include, per l’appunto, il grande mare interno che fu culla d’innumerevoli e importanti civiltà. Tra cui quella, osiamo ammetterlo? Dei polpi Octopus vulgaris, potenziali dominatori di quegli ambienti, oggi assediati e spesso cucinati da chi sotto le acque, in linea di principio, non dovrebbe neanche avventurarsi al fine di testimoniare. Non c’è nulla di strano, dunque, se ciò generi talvolta un qualche tipo di conflitto…
oceano
La baia canadese in cui l’oceano danza per l’origine dei continenti
In origine, era la Pangea. Ed ora un elefante parzialmente crollato, costruito in arenaria e conglomerato, sormontato da vegetazione rigogliosa nel clima umido della costa del Nuovo Brunswick, fa la guardia a una porzione ormai rimasta sola dell’originale ed unico super-continente. Come siamo giunti a questo punto? La risposta va cercata, ancora una volta, nell’impulso al cambiamento posseduto dai recessi esposti della Terra, sottoposti nel trascorrere dei secoli alla forza inarrestabile dell’erosione. Ma sarebbe approssimativo, e al tempo stesso superficiale, attribuire lo scenario unico della baia di Fundy solo al vento, la pioggia, il moto ricorsivo delle onde. Poiché se ciò fosse tutta la storia, altri simili recessi farebbero a gara, sulle guide turistiche del mondo, nell’attrarre l’attenzione della gente armata di macchina fotografica delle alterne nazioni. Qui dove al dividersi di ciò che un tempo era unito, la crosta terrestre e la litosfera si sono distese fino al formarsi di profonde spaccature o in termini geologici, rift riempiti dall’oceano, entro i quali molto gradualmente, col trascorrere dei secoli, furono depositati strati successivi di detriti. Fino al formarsi, attorno a 200 milioni di anni fa, dei rinomati graben ovvero sezioni della faglia poste ad un livello più basso, capaci di agire come naturali punti di raccolta delle acque, non importa quanto tranquille o in tempesta. Ma capaci di ricevere, soprattutto quando dimensione e forma degli spazi risultano perfetti per indurre l’effetto oscillante noto come risonanza, l’equivalenza liquida di una costante lavatrice naturale, corrispondente nel caso specifico a una marea dall’escursione verticale di 17 metri, che s’incunea nell’imbuto geografico situato tra le coste del continente nordamericano e la penisola di Nova Scotia, poco a meridione della regione di Terranova. Per un’altezza equiparabile, in altri termini, a una palazzina di tre piani, come ampiamente esemplificato dall’aspetto notevole di questa costa del tutto priva di termini di paragone.
Simbolo maggiormente rappresentativo di Fundy, frequentemente rappresentato nelle cartoline e altro materiale commemorativo in vendita da entrambi i lati della baia, risultano essere nel frattempo le notevoli rocce di Hopewell (dal nome della località) anche dette dai locali “vasi da fiori” per la forma esteriormente riconoscibile con la sommità di una certa ampiezza, ed il collo più stretto rimasto solo a sostenerne l’intero peso. Una visione vagamente surreale capace di ricordare gli scenari di Wile E. Coyote, sebbene trasportati in luogo oceanico piuttosto che la secchezza priva di confini dei vasti deserti situati nell’entroterra dei confinanti Stati Uniti. Ed ha costituito verso la fine dello scorso luglio un indubbio, nonché ampiamente giustificato momento d’orgoglio nazionale il momento in cui, al termine di un lungo processo di valutazione, questo luogo è stato inserito ufficialmente dall’UNESCO nell’elenco dei parchi geotermici patrimonio naturale dell’umanità, all’inizio di un percorso che potrebbe renderlo, nel giro di pochi anni, una delle attrazioni turistiche più importanti del Canada intero. Si tratta certo di una visita, questo resta evidente, con ben pochi termini di paragone nel pur ampio repertorio paesaggistico di un continente…
L’ancora fuori controllo, pericolo sommerso in alto mare
Se il dispositivo di arresto impiegato all’interno di un grande vascello può corrispondere, in chiave d’interpretazione anatomica, a un importante arto del corpo umano, come un braccio o una gamba, è naturale pensare ad esso come l’amico affidabile che non tradisce, lo strumento valido a risolvere il problema di arrestare, e mettere al sicuro lo scafo della propria navigazione in temporaneo stato d’arresto. Persino la tecnologia costruita rispettando un codice deontologico che tende all’eccellenza, tuttavia, incamera inerentemente il seme del disastro che incombe sulla progressione delle circostanze, in modo particolare quando in essa è insita la problematica gestione di forze, pesi e misure sulla scala di decine, quando non addirittura centinaia di tonnellate. Esistono così gli spasmi muscolari, gli improvvisi sussulti ovvero le visioni mistiche che cambiano le carte in tavola, trasformando certezze della mente in attimi di crisi la cui ultima risoluzione, nella maggior parte dei casi, può apparire drammaticamente deleteria: osserva, assieme ad altri due milioni e mezzo di persone. La scena è di quelle che hanno circolato su Internet per lungo tempo, grazie alla natura chiaramente impressionante delle immagini. Eppur nessuno, sfortunatamente, sembra riconoscerne la provenienza; il che può essere di certo motivato dalla gravità del rischio corso, assieme al danno monetario di una tale contingenza, difficilmente definibile come l’ora migliore dei coinvolti marinai. Un argano di orientamento orizzontale, del tipo usato in genere sul ponte delle grandi navi da trasporto, campeggia al centro dell’inquadratura in corso d’opera, mentre la pesante catena che vi gira attorno lentamente avanza, producendo conseguentemente un familiare suono. Il rombo sferragliante, e reiterato, che ad un tratto sembra crescere di frequenza mentre ogni cosa accelera, nella ragionevole realizzazione di un girone dell’inferno, trasportato innanzi agli occhi spalancati dell’osservatore. Poiché l’enorme catena, continuando a srotolarsi, genera un attrito impressionante, che ben presto da l’origine a copiose quantità di fumo, scintille e infine fuoco vivo, benché non trovi fortunatamente alcunché di combustibile nei suoi nautici dintorni in puro acciaio. Pericolo. Terrore. Perplessità: che cosa abbiamo visto succedere, esattamente? Come mai il marinaio incaricato di maneggiare il meccanismo, all’evidente degenerazione degli eventi, non si è allontanato quanto prima ad una ragionevole distanza di sicurezza? Come spesso avviene in tali casi digitalizzati, il diavolo si annida nei dettagli e quello che traspare agli angoli della saliente inquadratura. Poiché al diradarsi della cortina fumogena, tutto ciò che resta è quell’acuta consapevolezza del danno subìto, nel momento in cui l’ultimo tratto di catena (in inglese chiamato “the bitter end“) si è schiavardato dal bullone di arresto, andando dietro all’uncinato orpello sito al termine di tale lunga linea. Per un danno misurabile, nella maggior parte dei casi, attorno al milione di dollari e fino al doppio di una tale significativa cifra…
L’anguilla col becco d’anatra che ha più vertebre di una balena
Orribile è l’aspetto della tipica creatura che riemerge, quando i pescatori con la rete a strascico sbagliando le misure, prendono di mira quegli abissi inesplorati che precorrono in maniera biodinamica, nell’ideale progressione dell’oceano, gli affollati e più desiderati branchi dei visitatori della superficie. Sotto il pelo e dietro il muro, metaforico, d’oscurità che interferisce con la percezione sensoriali delle cose, almeno fino a quando tali esseri non compaiono sul ponte della nave, innanzi all’occhio spalancato, e inorridito, degli esseri umani. Ma sono a presentarvi pure il caso, statisticamente alquanto raro, che quei pesci si presentino con un profilo differente: strano, certo, ma capace di suscitare quell’innato senso di curiosità che è per certi versi l’antidoto, e portale contrapposto, alle visioni dell’inferno in Terra che appartengono alle rane pescatrici con la faccia gonfia e zannuta. Puoi toccarla, accarezzarla, giungere persino a parlargli (e lei sembrerà rispondere, con le fauci lievemente aperte che completano il profilo ultramondnano) Nemichthys larseni, o scolopaceus, queste le varianti più spesso incontrate, dell’anguilla che in gergo marinaresco prende il nome di “becco” “d’anatra” o per gli anglofoni di “snipe” il genere d’uccello che in Italia siamo soliti identificare con la scolopacide, anche detta beccaccia comune. Placido e armonioso essere, particolarmente quando danza per attrarre il verme con il battere dei grossi piedi tridattili, le cui somiglianze con tale versione sottomarina finiscono piuttosto presto, quando si prende nota dell’estendersi di tale creatura fino a 150-160 cm, con una larghezza comparabile in diversi punti a quella di una matita. Dimostrandosi l’essenza, in altri termini, dell’essere più lungo in proporzione alla larghezza di qualsiasi altro animale terrestre, frutto delle situazioni ambientali piuttosto estreme della zona batipelagica che è solito chiamare casa propria, tra i 300 e 600 metri di profondità. Con fino a 750 ossicini e quasi altrettante spine dorsali (record assoluto nel regno animale) ad ulteriore chiarimento di quel record anatomico assolutamente privo di concorrenti. Per un pesce che, spostandosi in modo passivo grazie alle correnti oceaniche, lascia soltanto la sua lunga bocca semi-aperta contando sulle centinaia di minuscoli denti, sottili come capelli, per far impigliare in quantità sufficiente gli invisibili microrganismi di quel grande brodo vivente che è l’oceano, di cui entusiasticamente si nutre. Senza dover fare troppo affidamento predatorio sui suoi occhi sovradimensionati, comunque ragionevolmente inutili alle oscure profondità ove mette in pratica la sua particolare scuola di sopravvivenza. Finché l’incidente involontario di un pescatore, teso a guadagnarsi un ragionevole profitto, non finisce per portarla in superficie dove in breve tempo, inevitabilmente, muore.
É l’effetto del massiccio differenziale di pressione, questo, che impedisce all’ideale sirenetta dell’oceano di fare ritorno ai palazzi della propria gioventù, una volta che ha sperimentato sia pur attraverso un velo d’acqua lo sguardo indagatore della scienza. Così abbandona la scintilla che riusciva a farne ciò che era; nella riconferma del processo, tristemente oceanico, che tutt’ora c’impedisce di conoscere realmente a fondo le abitudini di simili misteriose creature…