Visivamente simile ad una sorta di mirtillo dalle dimensioni quattro volte superiori, quindi pari a 2 cm di diametro, l’acai è una drupa di colore scuro dal sapore aspro ed earthy (“terroso”) che è stata gradualmente trasformata da un sapiente marketing, nel corso degli ultimi trent’anni, in una sorta di super-cibo dei miracoli capace di curare una pluralità di afflizioni, contribuendo nel contempo alla salute ed il mantenimento di un fisico esteticamente perfetto. Per un’analogia soltanto vagamente giustificata, mediante l’inerente trasferimento al contesto contemporaneo di una costellazione di antiche credenze dell’Amazzonia, particolarmente attribuite alle popolazioni fluviali dei Ribeirinhos, che erano soliti consumarne ampie quantità con fini sia gastronomici che medicinali. Tanto da esser giunti, nel loro sistema mitologico tramandato per via orale, ad attribuirne la provenienza alle particolari circostanze di una carestia pregressa, durante cui un antico capo aveva dolorosamente decretato che i nuovi nati dovessero essere lasciati morire per l’intero anno a venire, affinché la tribù potesse riuscire a sopravvivere alla crisi. Norma applicata, spietatamente, al nipote messo al mondo dalla sua stessa figlia che dopo averlo seppellito, vide spuntare nel giro di pochi giorni dalla terra stessa un nuovo albero svettante, sotto cui decise di lasciarsi morire. Ma quell’albero (chi l’avrebbe detto?) cominciò di lì a poco a dare numerosi frutti nutrienti, che permisero alla gente del villaggio di sopravvivere fino al ritorno dell’auspicabile sostenibilità ambientale. Il nome della sfortunata donna: Iaca, ovvero acai al contrario. Non è certamente un caso. Ancorché l’etimologia effettivamente studiata del termine lo veda provenire dalla lingua portoghese , come adattamento della parola in lingua tupi ĩwasa’i, letteralmente traducibile come “frutto che piange acqua” in riferimento ai suoi notevoli presupposti d’idratazione. In aggiunta ai ricchi e più recentemente scoperti ingredienti attivi di numerosi flavonoidi ed antiossidanti, almeno in linea di principio associati alle presunte qualità benefiche di questa pianta. E ciò sebbene, resta fondamentale specificarlo, nessuno studio scientifico in materia le abbia mai davvero confermate, lasciando significativo spazio al cosiddetto passaparola online, molto spesso veicolato tramite l’opera degli stessi venditori o trattazioni tutt’altro che oggettive delle rilevanti circostanze. Da dove verrebbe, dunque, l’attuale successo internazionale, soprattutto concentrato negli Stati Uniti, che ha portato all’elaborazione di numerosi sistemi per l’esportazione di un simile frutto, tutt’altro che durevole e facile da conservare? Tutto ha inizio, o almeno questo è ciò che si dice, con il boom delle palestre di arti marziali miste all’inizio degli anni ’90, cui fece da apripista la celebre famiglia Gracie, considerata l’origine della moderna disciplina dell’MMA. Nelle cui gremite istituzioni, veniva insegnata l’importanza del mantenimento di una dieta sana, di cui una delle colonne portanti era proprio il frutto dell’Euterpe oleracea, ben presto contestualizzata in un crescente numero di coltivazioni intensive, non sempre etiche nei confronti dell’ambiente e rispettose dei confini della foresta. Un altro inaspettato problema, per così dire, dell’attuale condizione della Terra e tutti coloro che devono condividerne le limitate risorse…
Stati Uniti
L’improvvisa manifestazione dei gamberi miracolosi nelle pozzanghere del Maine
Quanto delicato è realmente questo ecosistema, fino a che punto dobbiamo pensare ai nostri gesti e quello che riescono a causare, più o meno direttamente, nello scivoloso rapporto tra gli eventi fino a condizioni non più necessariamente recuperabili, in alcun modo conduttive a condizioni che si oppongono all’entropia? Per comprenderlo davvero, utilizzando un caso come punto di riferimento, basterà guardare al triste fato del gambero fata della Florida (Dexteria f.) finito per estinguersi nel preciso momento durante l’anno 2010 in cui, per costruire un edificio, fu deciso di prosciugare un piccolo punto d’accumulo dell’acqua piovana, in una depressione totalmente indistinguibile da tutte le altre. Almeno finché non fu fatto notare, purtroppo in ritardo, la maniera in cui quel sito costituiva l’unico recesso noto per quella notevole specie animale, che a partire da quel momento sarebbe stata relegata alla memoria dei naturalisti e i libri scientifici sul tema dei piccoli crostacei nuotatori. Giusto, sbagliato, poco importa: il corso del progresso porta l’uomo a muoversi attraverso dei binari obbligatori. Che pur espandendo i territori e i margini del profitto materiale, tende a metterlo in conflitto con l’ambiente così com’era prima della sua venuta. E tutto quello che all’interno di esso, fin da un’epoca remota, continuava a vivere in maniera ragionevolmente indisturbata. Ma il problema principale, che esula persino dallo spettro dei problemi presi in considerazione negli ambienti dei commissari ambientalisti più appassionati, è la maniera in cui non tutti le creature sono carismatici, appariscenti, sufficientemente grandi da lasciare un chiaro segno nella mappa ideale delle circostanze. E ve ne sono alcune, in modo particolare, che sfuggono alla percezione della gente comparendo ai meri margini della coscienza, a stagioni alterne, per poi ritornare nuovamente nell’ottuplice ed impercettibile dimensione.
Anostraca, forse saprete già di cosa parlo. O più nello specifico Branchinecta, Branchinectidae. Non le tipiche “scimmie” di mare in salamoia, questa volta (giocattolo scientifico dei tempi andati) né il triops, minuto fossile corazzato dal guscio idrodinamico (di cui pure parlammo in tempi non sospetti) bensì quei loro umili cugini raramente superiori ai 3-5 cm di lunghezza, disseminati nell’intero territorio degli Stati Uniti a partire dalla penisola meridionale nell’Atlantico ai fino ai territori ricoperti di foreste, pianure aride, colline remote lungo il tragitto della costa situata maggiormente a settentrione. Questo perché di animali acquatici che vivono primariamente circondati dalle acque ce n’erano già troppi. Laddove il gambero fata essenzialmente non ha nessun reale bisogno di quel tipo di presupposto. Facendo del suo stile la capacità di prosperare non soltanto nell’entroterra, bensì sfruttando quel tipo di pozza d’acqua dolce meramente stagionale, che compare al culmine della stagione delle piogge per poi evaporare o essere assorbita dalla terra, nel corso dell’estate più secca e incombente. L’inizio ricorrente, per tali esseri, di una drammatica ed al tempo stesso imprevedibile avventura…
120 anni dopo, come sopravvivono le capanne costruite per il terremoto di San Francisco
Nell’autunno del 1906, come conseguenza del quinto peggior disastro naturale ad aver mai colpito gli Stati Uniti (e di gran lunga il peggiore a non avere un’origine meteorologica) la brava gente ancora gravemente scossa della Città Dorata si ritrovò ad affrontare un dilemma di rara e significativa entità. Come assicurare la sicurezza di molte migliaia dei suoi abitanti, ancora costretti a vivere all’interno di tendopoli create per rispondere alla grave crisi degli alloggi, conseguente dalla distruzione di una percentuale stimata dell’80% dei suoi edifici? Di certo, lo spirito del mutuo soccorso aveva aiutato fino a quel momento e il clima della California era stato d’aiuto, ma il progressivo abbassarsi della temperatura non stava facendo altro che accelerare l’inevitabile: c’era bisogno di un approccio abitativo migliore e sarebbe stato meglio, se possibile, muoversi in tal senso prima dell’aumento esponenziale dei disagi e potenziali problematiche per il benessere comunitario. Dal che l’iniziativa, in prima battuta teorizzata dal membro della commissione finanziaria della Croce Rossa, il Dr. Edward T. Devine, di stanziare tra i 3 e i 4 milioni dollari di aiuti pubblici al fine di costruire un nuovo tipo di ricoveri semi-permanenti, da affittare e vendere ad un prezzo calmierato utile a garantirne la distribuzione il più possibile democratica tra coloro che ne avevano maggior bisogno. Un approccio così distante dallo stereotipo del capitalismo permanentemente alla ricerca di possibili occasioni di guadagno, che tuttavia piacque a tal punto al sindaco Eugene Schmitz ed il suo comitato speciale, costituito da 50 rappresentanti e suoi concittadini, che in breve tempo vennero coinvolte personalità dalla qualifica rilevante, affinché l’idea potesse trasformarsi in una concreta verità. Dovete considerare a tal proposito come l’epoca vigente fosse ancora ben lontana dal potersi affidare a soluzioni prefabbricate o catene di montaggio parzialmente automatizzate, rendendo perciò opportuno l’immediato impiego di ampie maestranze finemente addestrate al fine di garantire rapidità, standardizzazione, qualità del prodotto finale. Le due persone chiave del progetto furono per questo fin da subito il maggiore generale Adolphus W. Greely per la parte tecnica, e dal punto di vista dell’ergonomia e design, niente meno che John McLaren, l’esperto ed eccentrico orticoltore di origini scozzesi, già da una quindicina d’anni a capo dell’Ente Parchi cittadino nonché assoluto supervisore del Golden Gate Park. Uno dei luoghi designati, in maniera imprescindibile, come punto d’assemblaggio e schieramento delle nuove abitazioni, assieme agli attuali spazi verdi di Dolores, Precita, Camp Richmond, Columbus Square e il Presidio. Luoghi dove venne infine concordata la messa in opera di un gran totale di 5.610 case, che sarebbero giunte ad ospitare all’apice del loro impiego all’incirca 17.000 persone. Nello spazio oggettivamente ridotto di 4,2 x 5,4 metri per ciascuna famiglia, tuttavia efficientemente protetto dagli elementi e costruito in base ai migliori crismi possibili con la tecnologia dell’epoca. Tanto che in molti avrebbero successivamente dichiarato di aver visto migliorare esponenzialmente la qualità delle proprie condizioni abitative a seguito del terremoto, sebbene nessuno di loro avrebbe mai potuto immaginare l’aumento drastico di valore a cui sarebbero state destinate le proprie anguste capanne, capaci al giorno d’oggi di sfiorare, e qualche volta addirittura superare, il milione di dollari cadauna…
Il fato del rapace in estinzione collegato alle lumache clandestine delle Everglades
Per anni, secoli una situazione simile poteva essere scongiurata. Magari cambiando l’educazione della gente, imponendo regole all’esportazione di creature invasive. Prevenendo alla radice ed attrezzando le persone addette, affinché nell’estremità meridionale della Florida non comparisse il chiaro segno dell’inizio della fine: qualche migliaio di uova di colore rosa, esteriormente simili a caramelle, saldamente assicurate a un filo d’erba nella palude. Figli futuri di Pomacea, l’essere dotato sia di branchie che polmoni, una solida corazza, occhi attenti sulla cima di peduncoli divergenti. Una di quelle presenze, in altri termini, che non sembrano particolarmente forti, resistenti, scaltre eppure in qualche modo si sono trovate al vertice dei processi evolutivi, potendo conseguire il proprio successo imperituro non importa in che contesto ambientale, dentro quale circostanza difficile o transitoria. Ed è fondamentalmente un classico esempio di conseguenze non del tutto prevedibili, la maniera in cui questa lumaca tropicale, comunemente detta della mela (vers. isolana) ha spodestato la sua cugina endemica arrivando a popolare in grandi quantità le paludi del famoso Fiume Verde, una regione dalla biodiversità già nota e molti rari animali originari unicamente di queste parti. Uccelli come il Rostrhamus sociabilis plumbeus o nibbio chioccioliere delle Everglades, il tipo di carnivoro pesantemente associato ad una fonte di cibo e solamente quella, che come potrete ben immaginare corrisponde per l’appunto all’occupante tenero di quella chiocciola di carbonato calcio. Una barriera che non può essere facilmente superata ma che in questo caso diventa una mera ed insignificante formalità, dinnanzi allo strumento predatorio di un becco ricurvo, capace d’insinuarsi oltre la curva ed estrarre il dolce, dolce contenuto del tutto inerme di salvare se stesso. Per lo meno… La maggior parte delle volte. Questo per il modo in cui diversi studiosi a partire dalla metà degli anni 2010, tra cui Chris Cattau dell’Università della Florida, non hanno notato la maniera in cui le nuove lumache introdotte della specie P. maculata, considerevolmente più grandi, pesanti e in grado di raggiungere fino ai 15 cm di diametro, tendessero frequentemente a sfuggire dalla presa degli esemplari di nibbio giovani, causando in loro uno stato di malnutrizione e qualche volta progressivo deperimento. Un’influenza dunque assai negativa, per questa notevole specie aviaria già da tempo soggetta a una considerevole riduzione della propria popolazione complessiva, fino agli ormai soli 700 esemplari rimasti nell’intero territorio degli Stati Uniti. E questo anche senza considerare le già acclarate implicazioni problematiche di un’invasione di Pomacea, gasteropodi capaci di annientare letteralmente la biodiversità vegetale, fagocitando quantità notevoli di piante acquatiche e non solo, all’interno di un ecosistema già in bilico, per la sua parziale riconversione ai fini di piantare canna da zucchero ed altre coltivazioni intensive utili e redditizie nel mondo contemporaneo. Una tendenza, quest’ultima, decisamente difficile da compensare benché se non altro, nuovi dati raccolti e recentemente pubblicati dal collega professore Robert Fletcher, a capo del programma di monitoraggio del nibbio, sembrino chiarire una netta inversione di tendenza per il pennuto. Capace di dimostrare come non soltanto l’uomo, possa trasformare un difficile ostacolo in opportunità…