Un rapace che ghermisce cavallette: attenti all’agile scaltrezza del baza nero

La maggior parte della documentazione foto/videografica reperibile su Internet dell’Aviceda leuphotes, uccello più comunemente detto baza nero, lo ritrae posato sopra un ramo o mentre sosta brevemente per abbeverarsi in uno specchio d’acqua dell’Asia Meridionale. Questo perché non è particolarmente facile, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, riconoscerlo mentre si eleva sopra il limite della foresta, librandosi alla ricerca di una preda. Non più grande di un comunissimo piccione e con ali nere simili a quelle di un corvo, simili pennuti si presentano da oltre una distanza media come nulla più che stormi di volatili perennemente intenti ad inseguirsi vicendevolmente, come fossero impegnati a prendere il controllo del territorio. Ma le apparenze spesso ingannano ed invero ciò diviene chiaro se si guarda nella loro direzione sufficientemente a lungo, o da vicino. Così che emerga nella percezione dell’immagine nel suo complesso l’essenziale sovrapporsi di una serie di righe contrastanti, di una doppia tonalità di marrone. E il petto bianco sopra quel disegno, con la testa di un colore nero ornata da una cresta verticale che ricorda vagamente un accessorio di moda. Non che al possessore o l’eventuale compagna tale tratto interessi particolarmente, con l’unico corteggiamento noto del genere Aviceda consistente in brevi esibizioni ed acrobazie in volo mentre il maschio s’inclina da una parte e dall’altra per poi posarsi sopra un albero vicino. Troppo intento ed in ogni concepibile circostanza professionale, mentre sorveglia dall’alto il territorio dei domini che condivide lietamente con i propri simili, ove lanciarsi per conquistare il premio che costituisce il principale mezzo di sostentamento concessogli dai pregressi fenotipi ereditari. Già, perché il volatile in questione, nonostante la lunghezza raramente superiore ai 30 cm, è un tipico rapace della stessa schiatta dei suoi simili, principalmente creati per ghermire piccoli mammiferi, rettili o altre prede di passaggio. Se non che i bersagli da egli preferito, analogamente a uccelli di tutt’altra e passeriforme schiatta, appartengono quasi esclusivamente alla genìa degli insetti. Ed a scanso di equivoci: non è senz’altro semplice avvistare ed afferrare qualcosa di tanto piccolo e sfuggente… Lo sappiamo fin troppo bene, in questa estate eccessivamente calda e popolata dal passaggio delle zanzare…

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Zerbini asfaltati: l’utilizzo della fibra di cocco nella costruzione delle strade indiane

La metodologia moderna dei trasporti è la fondamentale applicazione di due campi tecnologici paralleli e distinti: la motorizzazione dei veicoli, la costruzione di strade. Spazi deputati che non siano mera terra battuta, o strisce di ghiaia percorribili, bensì uno strato resistente all’usura e il calpestio, per cui la pressione ripetuta di un carico pesante non sia altro che una mera nota a margine, di una vita utile non propriamente costellata d’interventi di manutenzione o ripristino della superficie usurata. Il che significa in parole povere che il manto ruvido da noi percorso, quella grigia superficie appiattita, non è altro che la superficie dell’iceberg, parte visibile di un sandwich costituito da cielo, terra e bitume. Costruito per ironica evidenza, proprio dagli scarti di lavorazione di quel tipo di carburante fossile, il greggio, che spinge la in una forma oppur l’altra il maggior numero dei motori contemporanei. E se ci fosse una diversa maniera? Volendo prendere in analisi l’intero novero delle alternative nell’industria globalizzata, tutt’ora esistono dei luoghi dove la principale produzione, in termini di tonnellate oggetto di processazione nelle fabbriche, può essere di una diversa natura. Sto parlando del Kerala nella “punta” meridionale dell’India, dove ogni anno vengono prodotte ed in parte esportate circa 5921 milioni di noci di cocco, pari al 15% dell’intero GDP agricolo dello stato. Una fortuna in termini economici e di alimentazione, senza ombra di dubbio, ma anche la fonte di migliaia di tonnellate di dure scorze di scarto ogni giorno, fonte di un inquinamento solido per quanto biodegradabile, che tende a richiedere ampi spazi di stoccaggio ai margini delle zone dedicate alla processazione del loro commestibile contenuto. Qui potrebbe anche finire la nostra storia, se la cultura popolare dell’India non si fosse dimostrata, nel corso delle ultime decadi, una base solida per l’implementazione di numerose valide iniziative di riciclo, non del tipo creativo bensì integrato in effettive filiere utili in diverse maniere alla società civile. Ed è pensando certamente ad una simile missione, che a partire dal remoto 1953 il governo di questo paese ha previsto l’istituzione di un ministero, detto “del coir” dal nome internazionale delle fibre tessili ricavate da tale materiale, dedicato alla gestione tra le altre cose di un tipo d’industria collaterale ma non per questo meno produttiva in termini di metri quadri ricoperti. Da un tipo di manto versatile che potremmo accomunare in linea di principio all’aspetto pratico di uno zerbino gigante…

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Le austere vette di boscaglia, punte di bambù draconico nel verde Oriente

In un celebre racconto popolare vietnamita, parte del canone orale di quel popolo, tanto tempo fa un povero contadino veniva sfruttato dallo spregiudicato padrone dei suoi terreni. Oberato di lavoro, senza giorni di riposo sul calendario né tempo libero da dedicare alla preghiera, gli veniva ripetuto falsamente: “Fai il tuo dovere, produci il più possibile, ed un giorno ti ricompenserò permettendoti di sposare mia figlia.” Ma il momento non veniva mai e ad al raggiungimento della maggiore età da parte della fanciulla, per dar seguito al pretesto, il suo signore aggiunse: “Certo che è una valida promessa. Portami un fusto di bambù della lunghezza di 100 nodi, ed avvierò la preparazione per le nozze oggi stesso.” L’uomo, per sua natura ottimista, si avviò nella foresta ma ben presto si rese conto che la sua impresa era impossibile. Se non che proprio in quel mentre, gli capitò di scorgere la sagoma di un viandante dalla carnagione pallida ed i lobi delle orecchie particolarmente lunghe, che gli chiese perché fosse tanto triste. Raccontata la sua storia, il contadino si sentì rispondere: “Taglia subito 100 fusti di bambù e portali qui da me, ti mostrerò una cosa.” Ottenuto quanto aveva chiesto la figura peculiare, che costituiva segretamente una manifestazione terrestre del Buddha Gautama, pronunciò la formula “Khắc nhập, khắc nhập!” (Attaccati assieme!) ed in un baleno, ciò che era plurimo divenne tutt’uno. Dopo aver appreso come far staccare e ricollegare a comando i 100 pezzi bambù, il contadino li legò assieme e trasportò al cospetto del suo aguzzino. Quindi ripetuta la magica esortazione, fece comparire nuovamente il lungo tronco risolutore. “Cosa stai facendo, tutto ciò non è permesso! Si tratta di una soluzione innaturale!” Esclamò il padrone. Ma nel momento in cui tentò di scorporare l’immenso costrutto, il contadino ripetè le mistiche parole affinché toccasse anche a lui di restare attaccato. Al figlio ed ai servi che tentarono di salvarlo, capitò la stessa sorte. Il che mise immediatamente la tradizionale vittima di tante angherie in una posizione di forza, tale da poter chiedere di nuovo la mano della figlia. Che molto questa volta per davvero, gli fu finalmente promessa. “Khắc nhập, khắc xuất” (Staccati subito!) disse allora, e legni e moltitudini tornarono del tutto indipendenti. In questo saliente racconto ci sono due morali: la prima è che talvolta se non resta nessun tipo di risorsa, è giusto utilizzare poteri miracolosi per instradare il corso degli eventi sulla falsariga della probità morale. D’altra parte, ciò che appare massimamente improbabile può anche essere possibile, nello schema generale degli eventi concepibili, e dunque percepibili dall’incessante macchina dei sensi.
Ed il secondo è che nella foresta, per quanto si possa cercare, non esistono bambù della lunghezza di 100 nodi! Ma ve ne sono alcuni che possono andarci molto, molto vicini. Al punto da essere chiamati, in senso idiomatico e nel contesto culturale cinese, 龙竹 – Lóng zhú, bambù del drago. Pur essendo originari del subcontinente, dove in condizioni ideali possono raggiungere i 45 metri di altezza. Sbucando come lance dei giganti, da un sottobosco solido e compatto, per sfidare le regioni stesse dell’Empireo limpido e incombente. A perenne testimonianza di quanto possa essere superba, quando agisce nel proprio assoluto e selvatico interesse, la natura che è il motore stesso del nostro mondo…

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L’occhio del discernimento creativo in un sacro dedalo di bambù e spazzatura

L’ineffabile presenza del Divino è spesso resa manifesta da fattori di contesto accidentali, circostanze atipiche o di tipo transitorio. Dal punto di vista soggettivo di Teseo nel Labirinto, l’essere supremo da cui guardarsi e se possibile ricevere il via libera verso un piano d’esistenza superiore (lo stesso da cui, incidentalmente, proveniva) era senz’altro l’uomo con la testa del possente bovino. E non c’è niente che possa scrutare con maggiore tenerezza la malcapitata mosca nella ragnatela, che il proprietario zampettante di quel sospeso ed intricato recesso abitativo. Perché mai, allora, l’uomo del mondo contemporaneo non dovrebbe scendere a patti con l’essenza di ciò che, più di ogni altra cosa, condiziona e detta il ritmo della sua esistenza quotidiana? Quel prodotto inerentemente collaterale, eppur non meno necessario, cui abbiamo attribuito la definizione di “rifiuto”. Eppur mai, per quanto si possa continuare ad auspicarlo, sparirà dal segno e il passo dell’ininterrotto prosieguo della nostra esistenza. Il che presta l’incipiente prospettiva ad una ricca serie di eventualità ulteriori. Come l’emersione di un Demiurgo, quanto meno, per il prolungarsi del precipuo patto finzionale temporaneamente stabilito tra l’artista ed il suo fruitore. Colui, il primo, che domina la testa del draconico contesto. E colui che, invece, tenta di afferrarne per quanto possibile la coda e le ali. Un tema di fondo il quale, se vogliamo, prende vita e si anima rapidamente nelle opere dell’artista indiano Asim Waqif, praticante di una sua particolare versione della creatività di recupero, mirata alla messa in opera di colossali installazioni localmente specifiche in prestigiose gallerie, luoghi pubblici e musei di tutto il mondo. Realizzate, di volta in volta, mediante l’utilizzo preponderante del materiale che meglio sembra esprimere il concetto di fondo. Sebbene nel corso dell’ultima decade, ritrovando l’originale passione dell’inizio della sua carriera, tale plastica sostanza sembri esser diventata primariamente il legno di bambù, cui sembrerebbe in grado di donare una vita, ed al tempo stesso una mente, quasi del tutto indipendenti dal consueto approccio umano alle questioni della vita di tutti i giorni. Verso la creazione di un qualcosa come Loy (লয়, 2020) ovvero vedi sopra, il padiglione creato a Calcutta come tradizionalmente viene fatto in occasione della festa del Durga Puja, la cui propensione al Caos fondamentale degli spazi architettonici, posizionati a circondare ed in un certo senso proteggere la statua della Dea, sembra alludere in maniera trasversale alla questione tematica di fondo: “Schegge lanciate in modo incontrollabile noi siamo. Non questa materia iscritta alle nozioni del razionalismo del senso comune.” Se anche può sussistere una simile dicotomia, una volta che il creatore riesce a fondersi con la sua creazione. In questo caso tanto efficacemente individuabile nel saliente e continuativo rumore di fondo udito dalla civiltà vigente, ogni qual volta un singolo oggetto o materiale da cantiere sopravvive, nonostante i presupposti, all’unico scopo per cui era stato originariamente sottratto al mondo…

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