Le case prefabbricate create per resistere nell’America degli uragani

Poco meno di 12 ore fa su Facebook, finalmente il post che in molti stavano aspettando. Soprattutto nell’azienda che l’ha pubblicato: la casa ha riportato qualche danno, ma ha resistito. Di fronte alla furia spaventosa dell’uragano Dorian, capace di sradicare alberi e portare il mare fino al secondo e terzo piano delle abitazioni, la residenza privata più caratteristica delle isole Abaco appare scossa, le pareti parzialmente rovinate, una buona percentuale delle tegole sono sparite ma la struttura è straordinariamente integra, pronta dopo un rapido restauro a ritornare pienamente abitabile, a fronte di uno o due giornate al massimo di lavoro. Un altro successo dunque, come quello già registrato nel 2015 per l’uragano Joaquin assieme ad altre strutture simili nell’arcipelago caraibico maggiormente amato dai turisti nordamericani (e non solo) per le rinomate, nonché originali soluzioni tecniche della Deltec Homes, produttore sito in North Carolina ed impegnato, ormai da mezzo secolo, nel commercializzare uno speciale approccio ad una delle più importanti necessità umane: creare spazi abitativi che siano pratici, vivibili e pronti con un rapido preavviso…Ma soprattutto, e ciò costituisce forse il punto principale dell’intera questione, capaci di resistere agli eventi meteorologici non importa quanto impressionanti, in maniera largamente insospettabile vista la loro frequente collocazione in posizioni di alto valore panoramico e proprio per questo, dalla significativa vulnerabilità. Chiunque può del resto, premunirsi per difendere la propria sicurezza domestica dagli elementi, a patto di essere disposto a trasferirsi entro giganteschi condomini, oppure sottoterra in veri e propri bunker delle circostanze, pronti all’uso ogni qualvolta i telegiornali annunciano l’arrivo dell’evento di devastazione. Che cosa dire, invece, del concetto della tipica villetta isolata nel suo terreno, quel punto fermo irrinunciabile del sentire architettonico statunitense? Dovremmo forse rinunciare a costruirne delle altre?
Caso vuole che la soluzione fosse geometricamente semplice, nella pratica, come una ruota. Quella adottata come modello per la prima volta dai due figli del fondatore e venditore di soluzioni per l’isolamento edilizio Clyde Kinser, Robert e Wayne, a fronte dell’acquisto verso l’inizio degli anni ’80 dei progetti della compagnia locale Rondesics, successivamente sottoposti a una completa rivisitazione e miglioramento funzionale. Fino all’apparizione, nel giro di pochi anni proprio lì nella cittadina di alto interesse turistico di Asheville NC dell’affascinante serie delle cosiddette rondettes, residenze per le vacanze circolari con il tetto supportato dalle sole pareti esterne, e quindi capaci di essere adattate nel loro interno a qualsiasi tipo di soluzione abitativa considerata rilevante. Un successo capace di portare gradualmente a fama nazionale, e persino oltre, l’azienda a conduzione familiare ribattezzata per l’occasione Deltec, dalla forma della lettera greca Δ, la cui struttura avrebbe dovuto ricordare quella di un tetto visto di profilo.
Detto questo e come già accennato in apertura, tuttavia, la qualità più interessante di simili edifici doveva ancora emergere dinnanzi all’opinione comune, essendo destinata a materializzarsi soltanto una volta che gli affari avessero raggiunto il territorio particolaramente fecondo della cosiddetta hurricane belt

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Il salvataggio di un pilota sopravvissuto grazie al paracadute del suo intero aereo

Ciò che state per vedere costituisce un’impossibilità apparente, come gli eventi fuori dal contesto del telefilm LOST, o la descrizione tematica di un complesso indovinello situazionale: ecco un piccolo aeroplano, o per essere precisi un esemplare quasi-integro del popolare monomotore Cirrus SR22, che ha compiuto un evidente atterraggio di emergenza. Ma non in mezzo a un campo, lungo una strada asfaltata o quanto meno, tra le lievi asperità di una collina erbosa. Bensì nel bel mezzo di una foresta in Ontario, totalmente tappezzata d’alberi, al punto che il suo muso poggia contro la corteccia di un tronco, mentre le ali e la coda, seriamente ammaccate pur restando relativamente integre, ne toccano almeno un’altra mezza dozzina. La benzina esce copiosa, pur non essendoci alcun principio d’incendio. Un ramo, nel frattempo, si protende a trafiggere lo sportello sinistro, che risulta spaccato perfettamente a metà “Per mia fortuna!” Esclama con tono chiaramente su di giri, il pilota statunitense rimasto perfettamente incolume Matt Lehtinen, “Altrimenti, come avrei fatto ad uscire?”
Il velivolo in questione non si è frantumato in mille pezzi per una singola, notevole ragione: esso è atterrato in maniera perfettamente verticale, dopo la perdita di pressione dell’olio e il conseguente spegnimento del motore, un po’ come avrebbe potuto fare un elicottero andato in autorotazione ed affidato alle manovre di un esperto salvatore della sua stessa vita. Grazie, tuttavia, ad un diverso tipo di prontezza e l’unico strumento che avrebbe mai potuto permettergli di compiere l’impresa: il paracadute ad apertura balistica CAPS (Cirrus Airframe Parachute System) installato di serie su svariati modelli di piccoli aeroplani prodotti dalla compagnia del Minnesota, per una serie di coincidenze fortunate che potrebbero, secondo recenti analisi statistiche, aver salvato la vita di almeno 170 persone a partire dal suo primo utilizzo nel 2002. Benché le origini di tale tecnologia risultino essere, nei fatti, assai più remote. Con un concetto teorico, quello di riunire un aeroplano in avaria col suolo facendolo fluttuare verticalmente verso il suolo, vecchio quanto l’aviazione a motore stessa, che raggiunse l’effettiva realizzazione nel 1982, grazie all’iniziativa di Boris Popov di Saint Paul, Minnesota, dopo che quest’ultimo era sopravvissuto a malapena in un incidente con il deltaplano, cadendo dall’altezza di 120 metri. Perché come al solito, grandi contromisure nascono da grandi pericoli (scampati?) e il BRS prodotto in serie da Popov per gli aeroplani da turismo Cessna, sin dall’epoca della sua concezione, fu una chiara rappresentazione di questo concetto. Benché nessuno, nei fatti, sembri volersi preparare in anticipo a un eventuale disastro, facendo del dispositivo un sostanziale insuccesso commerciale. Almeno finché, nel 1985, un’altra figura d’imprenditore non si trovò a rischiare la propria vita in cielo: si trattava, in questo caso, di Alan Klapmeier, uno dei due fratelli fondatori della Cirrus, allora compagnia minore produttrice di aeroplani per l’impiego per lo più privato, che aveva finito per urtare in cielo un velivolo, con conseguente morte dell’altro pilota e dovendosi affidare a un problematico atterraggio con una sola ala rimasta intera. Così che, per il decennio successivo, egli avrebbe elaborato assieme a Popov una nuova interpretazione del concetto stesso di paracadute balistico, concependone una versione che potesse essere integrata, di serie, negli aeroplani prodotti dalla sua compagnia. Una casistica cui ad oggi, molte persone devono il privilegio della propria stessa continuativa esistenza…

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L’artiglio del gatto che ha distrutto un’intera colonia di uccelli rari

Una grande verità della guerra è che il fattore psicologico, molto spesso, può ampiamente superare l’effetto puramente materialistico delle armi. E che un singolo agente, schierato in circostanze particolarmente opportune, possa arrecare danni pari o superiori a quelle di un’intera squadra, compagnia, battaglione… Soprattutto qualora il “nemico”, se realmente vogliamo definirlo tale, risulti essere del tutto impreparato agli eventi, ovvero vulnerabile a strategie capaci di disgregarne la coesione e conseguentemente il morale, inficiando qualsiasi possibile strategia reattiva… “Eccolo, eccolo, sta arrivando di nuovo!” Fece riecheggiare verso le prime ore dell’alba dell’Australia Occidentale la voce di Claire Greenwell, naturalista e biologa dell’Università di Murdoch, reclutata temporaneamente tra i ranghi della ronda notturna di Mandurah, cittadina con un particolare problema dotato di quattro zampe, vibrisse e una saettante coda. “Il… Fantasma.” Bianco come la neve, spietato come la Triste Mietitrice. Una leggenda, soprattutto tra le incolpevoli vittime della sua insaziabile fame, le delicate e preziose sterne delle fate (Sternula nereis) del locale santuario, orgoglio imprescindibile dell’intera comunità locale proprio perché classificate come “vulnerabili” nella lista rossa della IUCN. Al punto da vietare severamente di far uscire i gatti domestici per tutti i mesi da ottobre a febbraio, periodo primaverile ed estivo da queste parti durante il quale tali creature erano solite terminare la propria migrazione per nidificare e deporre le uova contenenti la successiva generazione. E sottolineo “erano” visto che adesso, per quanto sappiamo, potrebbero anche non tornare mai più.
Una norma comportamentale, questa, prevedibilmente non sempre rispettata; il che in effetti era previsto ed in ultima analisi, privo di gravi conseguenze. Poiché non c’è molto danno che un singolo felino abituato agli agi casalinghi possa arrecare, quando un’intera squadra di ranger e volontari è stata riservata per rispondere alle sue scorribande, prenderlo in trappola e previa analisi dell’obbligatorio microchip, restituirlo con meritata ramanzina al distratto proprietario. Ma per quanto riguarda un vero e proprio gatto ferale, ovvero ritornato allo stato selvatico, ecco, lasciatemi dire che le cose possono assumere tinte decisamente più fosche. Come cominciarono a notare i suddetti operativi man mano che ritrovavano, una notte dopo l’altra del passato periodo pre e post-natalizio, svariati esemplari adulti decapitati o fatti a pezzi (ne sono stati stimati 8) per non parlare delle letterali dozzine dei graziosissimi pulcini recentemente usciti dalle loro uova (oltre 40 innocenti). Fu ben presto chiaro, dunque, che un letterale Diavolo era all’opera, e che niente, tranne una ferma disciplina e l’implementazione di tutte le più avanzate tecniche, avrebbe potuto esorcizzare il suo effetto sulla più amata riserva di uccelli della ridente cittadina di Mandurah.

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Video ci offre una comparativa del respiro rovinoso di Godzilla

È un facile modo per creare contenuti multimediali sul Web: si parte da un concetto ragionevolmente noto, quindi lo si elabora attraverso le sue plurime declinazioni. Il che coincide, essenzialmente, col creare un qualche tipo d’antologia: “Le 5 più grandi…” oppure “I 10 luoghi misteriosi che…” o ancora “Le 15 persone che prima di chiunque altro…” Una procedura e un iter creativo che possiamo ritrovare, fatte le dovute proporzioni e considerazioni meno che scientifiche, nell’ultima proposta del canale per cinefili FilmCore, già produttore di diverse brevi trattazioni sul tema di una delle serie basate sugli effetti speciali più famose della storia, soprattutto per la sua capacità di commentare, occasionalmente, alcuni dei risvolti storici e i drammi più gravi dell’epoca moderna. Particolarmente verso l’inizio della sua carriera lunga ormai 65 anni, quando il drago/dinosauro/mostro Godzilla, risvegliato dalle profondità del Pacifico a causa del rimbombante sconquasso di un test nucleare, iniziava la sua lunga marcia che l’avrebbe condotto attraverso le dorate spiagge, i friabili edifici e i cuori degli abitanti tokyoiti, stranamente indifferenti al suo ipotetico intento esiziale. Fino al palesarsi della scena, niente meno che fondamentale, ogni volta ripetuta nel momento saliente di ciascuno dei suoi 35 film: il momento in cui la bestia colossale, bersagliata da ogni sorta di arma umana e munizione totalmente priva d’efficacia apparentemente risolutiva (o nelle creazioni dalla maggiore verve creativa, selvaggi attacchi di altri kaiju o creature aliene) sembra averne avuto abbastanza ed apre la sua grande bocca, apparentemente al rallentatore. Per poi catalizzare, in qualche modo misterioso, grandi quantità d’energia presso la zona delle sue scaglie dorsali, che iniziano a risplendere in maniera impressionante. Poco prima che, con un sibilo funesto, un grande raggio come quello di una torcia inizi a scaturire dallo spazio tra i denti della creatura, lasciando solo briciole e rovine in ogni luogo toccato dal suo bagliore. Versione ultra-moderna, in un certo senso, del fiato fiammeggiante dei più importanti ospiti di un tradizionale bestiario medievale, rispetto al fuoco di drago quello della metafora bipede della Toho presenta alcuni tratti di distinzione particolarmente importanti. In primo luogo, quello di essere composto, nella sua parte fondamentale e secondo il canone dei film più celebri, non da semplice calore bensì radiazioni, aspetto fondamentale nel concretizzarsi dell’allusione di fondo, che vedrebbe il grande male che avanza dagli abissi come una personificazione animalesca, al tempo stesso, della bomba atomica e la furia inarrestabile della natura. Perché Godzilla, nella sua versione prototipica, è anche un grande ustionato dalla pelle ricoperta di cicatrici, al cui interno ancora ardono le radiazioni che suo malgrado, l’hanno ingrandito a dismisura, reso praticamente immortale e riempito di un odio feroce per l’umanità. Ed in tal senso l’esalazione in questione, generalmente di colore blu o rosso intenso e prossima alla temperatura di 150 milioni di gradi, più che essere un prodotto volontario diventa la conseguenza stessa della sua esistenza, la coda letterale dell’uragano o il sussulto dell’orribile terremoto. Il ritorno di fiamma karmico di ogni pesante malefatta da noi compiuta.
Detto ciò, esistono diversi modi in cui può esprimersi lo stesso concetto. E vari stili artistici da parte di chi crea simili scenari. Ecco dunque il senso di prendere ciascun Godzilla, e allineandoli come altrettanti bravi soldatini grazie all’uso della computer graphic, farne scatenare il più devastante exploit, al fine d’effettuare i giusti ragguagli comparativi…

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