Il carro armato che comanda quando si ritirano le acque in Amazzonia

Narra la leggenda che l’antico capo di una delle tribù della foresta, un uomo di nome Pirarucù, fosse stato disobbediente in qualche maniera verso gli spiriti degli antenati e le divinità degli elementi. Ragion per cui, le entità Superiori decisero di punirlo trasformandolo in un pesce, affinché fosse eternamente relegato sotto le acque fangose dei più vasti corsi d’acqua del Brasile. Dove tale narrazione, tuttavia, non entra nei particolari, è il modo in cui costui decise di lasciare il grande corso, per avventurarsi nelle secche e le propaggini sabbiose, prive d’ossigeno e di spazio vitale, grazie alla capacità di respirare l’aria come aveva fatto fino a quel fatidico momento. Per sfogare questa volta, con ferocia inusitata, tutta la sua rabbia e fame contro gli altri esseri della Natura.
Ora, il fatto che il termine pirarucù derivi da un composto in lingua Tupi delle due parole pira (pesce) e urucu (rosso) può essere considerato una semplice coincidenza, o forse il nomen omen che, di un simile destino, ebbe modo di essere la profezia! D’altra parte, il mostro fluviale noto al resto del mondo come Arapaima, secondo pesce d’acqua dolce per dimensioni al mondo dopo lo storione, presenta una colorazione per la più argentata, fatta eccezione per lo spazio che s’intravede tra le scaglie nella parte posteriore e in prossimità della coda, di un vermiglio fiammeggiante che sembra risplendere sotto la copertura degli alberi sudamericani, richiamandosi a vessilli di battaglie ormai dimenticate. Il tutto, per una lunghezza impressionante di fino a 450 cm e un peso di oltre due quintali, benché sembra che un tempo ne esistessero persino esemplari più grandi, almeno prima che la pesca implacabile dei suddetti gruppi tribali, trasformati in membri a pieno titolo della moderna civiltà, riuscisse a ridurne drasticamente la popolazione. O almeno, questa è l’idea che sembra trasparire sulla base dei semplici avvistamenti registrati nelle cronache, dato l’areale non certo raggiungibile di uno degli ultimi luoghi selvaggi di questo pianeta, non lasciando altra scelta che attribuire ad una simile creatura la connotazione di “dati insufficienti” sull’indice della lista rossa dello IUCN, principale catalogo delle specie a rischio d’estinzione. Ciò che resta certo, invece, è che al di là di noi esseri umani e in maniera molto saltuaria, qualche famelico caimano, c’è davvero ben poco che possa costituire un pericolo per questo feroce carnivoro situato all’apice della catena alimentare, la cui forma aerodinamica col muso a punta rivaleggia quella di una scarpa della Nike, mentre la particolare costituzione della dura e affascinante scorza lucida costituisce la più chiara equivalenza di un’armatura lamellare del Medioevo, capace persino di resistere e spezzare i denti dei leggendari pirañas. Grazie a una disposizione delle scaglie definita di Bouligand dal nome di un matematico francese, in cui ciascun elemento è sovrapposto ad uno identico ad un’inclinazione lievemente differente, garantendo il massimo dell’assorbimento dei colpi e conseguente protezione. Il tutto ricoperto ed avvolto a un copioso strato di collagene, in grado di garantire la massima mobilità all’animale. Stessa sostanza che ricopre, nel frattempo, l’interno della sua bocca e la lingua stranamente ossuta, da cui per l’appunto prende il nome il suo intero ordine degli Osteoglossiformi (dal greco osteon + glossa). Ciò detto, l’esatta classificazione di questa bestia nei confronti dei suoi simili rimane ancora in grado di gettare scompiglio nella scienza (apparentemente) certa della tassonomia…

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Gli occhi sub-glaciali della creatura vertebrata più vecchia al mondo

Essere o non essere per 512 anni, questo è il problema. Pochi sono gli ordini della tassonomia animale cui abbiamo l’abitudine di attribuire uno stereotipo più radicato e almeno in apparenza, eternamente riconfermato, di quello del temuto pescecane. Squaliformes, esseri del tutto privi di mistero: predatori famelici, straordinariamente rapidi e percettivi, capaci d’inseguire il segno di una preda per parecchie centinaia di metri, prima di raggiungerla e serrare l’arma gastronomica delle ganasce incorporate nello scheletro cartilagineo che sostiene un simile organismo. Sempre attivi, sempre attenti, del tutto impossibilitati a fermarsi e ragionare, anche soltanto per un attimo, sui ruoli reciproci e i profondi significati dell’universo. Come il fatto, largamente noto, che “La stella che arde al triplo della magnitudine, sopravviverà per un terzo del tempo” e allora come potremmo mai tentare di spiegare, o comprendere nella realtà dei fatti, l’esistenza di uno squalo ancor più antico dell’Amleto shakespeariano? Una creatura, tanto per venire al punto, che non è un ricordo né un reperto sotto formalina, né tanto meno un fossile all’interno di un museo, poiché nessun vetro riuscirebbe a contenere il suo bisogno di percorrere profondità dimenticate. Vivo & vegeto, ancorché piuttosto stagionato, coi sui cinque secoli (si stima) di esistenza prolungata sotto i ghiacci di questo Pianeta.
Che i Somniosus microcephalus anche detti squali della Groenlandia benché attestati nell’interno Atlantico settentrionale vivessero svariati secoli, l’avevamo del resto sempre saputo. Proprio in funzione della propensione di tali pesci a continuare a crescere nel corso della propria intera vita, riuscendo a raggiungere talvolta dimensioni eccezionali di oltre 7 metri per una tonnellata e mezzo di peso; qualcosa di parecchio sconvolgente da rinvenire, in tutti gli accidentali casi in cui queste creature schive appartenenti al mondo degli abissi più remoti venivano accidentalmente catturate nelle reti dei pescatori. Ciò detto resta chiaro che negli ultimi anni, grazie al progredire della scienza, sia stato compiuto il passo ulteriore, con un percorso iniziato grazie allo studio del 2016 del biologo marino dell’Università di Copenaghen Julius Nielsen, autore di un approccio decisamente innovativo alla problematica datazione accurata di un creatura tanto difficile da catturare e priva di ossa in senso tradizionale, che potessero venire sottoposto alla classica analisi di datazione al carbonio 14. Ecco dunque, l’idea! Andare a rintracciare il fondamentale isotopo, prodotto in modo accelerato a seguito dei test nucleari effettuati dalla società moderna, esattamente dove nessuno aveva mai pensato di cercarlo prima: nelle pallide profondità degli occhi. Organi lattiginosi e quasi inutili, per simile creature, abituate ad affidarsi a un senso dell’olfatto straordinariamente sviluppato. Quando non del tutto privi di funzionalità residue, a seguito dell’aggressione, secolare, di spiacevoli vermi abissali…

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La statua di un pesce che protegge il tempio thailandese

La visione, soprattutto se ripresa dall’alto, è di quelle che difficilmente potrebbero passare inosservate: un ponte dai riflessi vagamente dorati attraversa quello che sembra essere a tutti gli effetti un bacino d’acqua artificiale. Per condurre eventuali visitatori fino a un’isola di forma circolare, sopra cui una serie d’alberelli ben tenuti vorrebbe forse alludere a una rigogliosa foresta. Al centro della quale sorge un edificio dall’aria serena e i molti tetti sovrapposti, simili ad altrettanti abbaini, le cui superfici laterali risultano tuttavia essere, insolitamente, del tutto aperte agli elementi. Ma ciò che colpisce ancor più lo sguardo, per ovvie ragioni, è la gigantesca CREATURA apparentemente intenta ad inseguire la sua stessa coda, le pinne ai lati di una testa finemente decorata, e la bocca aperta con due file di denti capaci di fagocitare facilmente due o tre persone allo stesso tempo. Prima di azzardare un qualche tipo di descrizione filologica, che vi anticipo essere tutt’altro che scontata, sarà opportuno definire il preciso contesto geografico e culturale di un tale luogo: siamo, per l’appunto, in Thailandia, o per essere precisi a circa 20-30 Km dal centro della capitale Bangkok, in prossimità della costa antistante che si affaccia verso il golfo del Siam. E questa è l’Antica Città, anche detta Mueang Boran, una sorta di attrazione o punto di riferimento per certi versi analogo al celebre parco giochi tedesco Minimundus, benché il sentimento di partenza ed alcuni dei metodi realizzativi risultino essere di un tipo del tutto diverso. Tanto che il suo creatore, il miliardario e rinomato studioso delle arti nato nel 1914 Lek Viriyaphan, era solito definirlo “il più grande museo all’aria aperta del mondo”. Una definizione che nei fatti, sopravvive anche a seguito della sua dipartita nel corso dell’anno 2000. Una ricostruzione in miniatura, dunque, dell’impero regno thailandese, con confini che riprendono la forma dell’odierna nazione e una lunghissima serie di monumenti (ben 116!) miranti a ricostruire, talvolta a dimensione naturale, in altri casi su scala ridotta, alcuni dei più famosi punti di riferimento storici, culturali e religiosi nell’esatta posizione corrispondente sulla mappa riprodotta entro i 320 ettari della notevole “città”.
Data la posizione dell’arcano edificio acquatico, dunque, possiamo identificare il tempio-pesce come la montagna di Sumeru (Meru, o Sumeruparvata) rilievo primordiale che segna il centro esatto del cosmo, nella regione mediana del continente Jambudvipa. Un luogo abitato da numerose creature tra cui naga (uomini serpente) garuda (uccelli giganti) orchi ed esseri umani che attraverso la pratica dello Yoga, sono giunti ad acquisire l’immortalità. Sopra cui sorge, qui rappresentata dal piccolo tempio decorativo, la città del Paradiso Tavatimsa dal nome di Trueng, con al centro il castello del dio Indra, signore della folgore, che nel giorno dell’inevitabile catastrofe finale discenderà per trarre in salvo tutti gli esseri degni di accedere alla vita successiva. La montagna, nel frattempo, è circondata dall’oceano Nathi Si Thandorn e la foresta Himavant, benché nelle fonti facilmente reperibili online, non si faccia alcuna menzione di pesci giganti ai margini dell’intera, complicata faccenda. Il che ci lascia, come unico punto di partenza per la nostra indagine, il cartello esposto nel parco stesso, a vantaggio dei turisti, pronto a definire tale mostro dei sette mari con il nome di Ananda, il pesce dell’Oceano Cosmico. Un nome ed un programma che dal nostro punto di vista occidentale, non spalancano esattamente le persiane poste a nascondere il nesso di un simile mistero…

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Lo squalo con la bocca di un aspirapolvere venuto dal futuro

Cronache di un martedì arricchito da una coppia di scoperte interessanti: primo, che secondo uno studio condotto dal Laboratorio Ittico dell’Università di Macquarie a Sydney, Australia, gli squali apprezzano l’ascolto della musica. E secondo, il fatto che a questo mondo esista una particolare specie, il cui genere preferito risulta essere fra tutti quanti il jazz. Senza menzionare come l’aspetto dello squalo di Port Jackson (Heterodontus portusjacksoni) conseguentemente a una simile rivelazione, risulti essere più o meno come te l’aspetteresti: eclettico, profondamente singolare, aggressivamente anticonformista e un po’ nerd. La testa grande, quasi sfaccettata. Gli occhi piccoli e arretrati. Qualcuno ha detto di portare l’apparecchio ai denti? Lui, decisamente, costituisce la conferma che gli abissi non conoscono il mestiere dell’ortodonzia. Detto questo, resta chiaro che siamo di fronte a uno dei mostri carnivori meno orribilmente pericolosi del suo areale di provenienza, con una lunghezza massima di 1,65 metri e un morso quasi gentile, al punto che in un singolo caso documentato nel 2011 a Melbourne un malcapitato bagnante, azzannato alla caviglia, fu in grado di tornare a riva con ancora tutti gli arti e la confusa bestia saldamente assicurata come un pitbull dall’incerta provenienza. Un’esperienza priva di conseguenze mediche serie, eppur non propriamente da ripetere, come esemplificato dalla prima parte del nome in greco quasi-maccheronico dell’animale, riferito a quell’insolita caratteristica di possedere denti ben differenziati sulla base della posizione, ovvero piccoli e appuntiti sul davanti, piatti e larghi nella parte posteriore. Un po’ come noi, insomma, fatta eccezione per la piatta e larga zona centrale, vagamente simile alla radula di una lumaca marina, usata per raschiare sul fondale e quando sufficientemente fortunati, fare a pezzi il guscio esterno di molluschi, crostacei ed altri componenti basilari della sua dieta. Già: non propriamente il fiero predatore che saremmo prossimi ad associare al concetto di “squalo”, quanto piuttosto un tipico rappresentante degli eterodontiformi (=denti diversi) anche detti testa di toro, creature la cui attività per procacciarsi il cibo tende a consistere largamente nel giacere placidi e in attesa sul fondale, che un qualche odore, campo elettrico o lieve movimento accenda quella lampadina cui fa seguito, immancabilmente, lo scatto rapido della succitata tagliola. Un approccio possibile sfruttando la particolare conformazione delle branchie, collegate nella parte più profonda ai muscoli situati nella mascella, capaci di pompare letteralmente l’acqua ricca d’ossigeno, superando la famosa e problematica rinomata necessità di continuare a nuotare per respirare, presente in molte altre specie di squalo. Non potrà che cominciare ad apparire chiara, a questo punto, l’origine della strana forma cranica di un tale pesce, sopratutto quando lo si guarda da una prospettiva ribassata, con la pluralità di punte, escrescenze, buchi e avvallamenti, ciascuno sede di un diverso organo sensoriale. Difficilmente potremmo affermare, d’altra parte, che il nostro gradito ospite sembri meno bizzarro dalla sua inquadratura, per così dire, migliore…

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