Lo spettacolare disastro del ghiaccio che viene a riva

Ice Stacking

Un luogo diverso da ogni altro: la cui storia è insolita, la formazione estremamente singolare, le caratteristiche ambientali derivano da situazioni che non trovano corrispondenza altrove. C’è un unico lago Superiore, così come esistono soltanto un lago Michigan, un Huron, un Erie ed un Ontario. Per non parlare dei numerosi piccoli fratelli limpidi e chiari, che circondano e arricchiscono questa regione, ancora ricoperta dalle cicatrici dell’ultima Era Glaciale. E tutti quanti assieme, come la natura ha scelto di disporli, simili bacini dalle proporzioni complessive estremamente vaste (pari, tutti assieme, addirittura al Regno Unito!) arrivano a formare un vero clima a se stante, stemperando gli inverni del grande Nord americano. Il che sarebbe di sicuro un tratto unicamente positivo, se non fosse per alcune circostanze estremamente problematiche, che si ripetono occasionalmente in luoghi abbandonati ma che almeno in un caso, negli ultimi anni, hanno portato a conseguenze alquanto gravi. Essenzialmente, è tutta una questione di proporzioni. Osservato nella misura nel video soprastante, il fenomeno dell’ice stacking è soprattutto un’occasione di appagare gli occhi, le orecchie e la mente. Stiamo parlando di quel momento, tipico dei mesi sul finire del peggiore inverno, in cui il ghiaccio sulla superficie di simili polle sconfinate si assottiglia e frammenta, generando l’equivalenza in proporzione di una vera e propria flottiglia di iceberg, che iniziano a vagare spinti via dal vento. I quali ad un certo punto, poiché l’effettivo oceano resta ad ogni modo tutta un’altra cosa, inevitabilmente si scontrano, dando l’origine a un ammasso che procede in direzioni erratiche e difficilmente prevedibili. Punto a seguito del quale, a seconda di come soffia il vento, possono verificarsi due cose: primo, la costituzione di una nuova isola temporanea, in aggiunta alle circa 35.000 che sono disseminate tra una riva e l’altra di questi mari interni sotto falso nome, depositari del 21% di tutta l’acqua dolce disponibile sul pianeta. Che ad un certo punto si scioglierà, come letterale neve al sole. Ipotesi seconda, il raggiungimento delle coste.
Ora, vi sono punti di raccordo, tra il mondo acquatico e quello terrigeno, in cui alte scogliere o ripidi strapiombi fanno da linea di confine naturale, alla stregua di utili argini, che prevengono indesiderabili straripamenti. Ma non è evidentemente questo il caso della località di Duloth, in Minnesota, presso cui il fotografo Dawn M. LaPointe, del canale online Radiant Spirit Gallery, si è trovato a riprendere, ancora una volta, le “immagini e i riflessi che riecheggiano di terre remote”. Nella fattispecie qui giunte a palesarsi, dinnanzi ad occhi bene attenti e spalancati, come una sorta di valanga all’incontrario, in cui l’acqua congelata, per l’occasione a guisa di un sottile ma esteso velo ghiacciato, che s’incaglia, quindi inizia straordinariamente a spezzarsi. Ciò perché il differenziale di temperatura dovuto all’acqua del lago, per quanto non estremo, è stato comunque sufficiente a generare un fronte di bassa pressione con relativa brezza che continua a spingere, lenta ma inesorabile. E una volta messo in moto quel processo, difficilmente si potrà fermare: tanto che, in pochi minuti, il ghiaccio infranto forma un vero e proprio strato, sopra il quale, senza neanche rallentare, inizia a disporsi un secondo, e quindi un terzo. In breve tempo, la costa assume l’aspetto di una vetreria che sia stata colpita da un ciclone. E persino tutto questo non è nulla, rispetto a quello che può succedere nel caso estremo, del trasformarsi dello stacking in un vero e proprio ice shove, quello che i media americani ed internazionali, con consueta mancanza di precisione subordinata al sensazionalismo, hanno scelto di chiamare in tempi non sospetti lo “tsunami di ghiaccio”.

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È meglio un’auto vera con ruote di ghiaccio, o il suo contrario?

Ice Wheel Car

Viene il momento nella vita di un’azienda vecchia e prestigiosa, in cui gli addetti al vertice realizzano come seguire la strada della sobrietà stilistica, fondata sul prestigio inerente ed esposta mediante una dialettica puramente oggettiva, non sia che una scelta fra tante, ed anzi forse, nell’epoca del web selvaggio, la più superata e inefficace  fra le strategie pubblicitarie. Il 2015 è stato un anno estremamente significativo da questo punto di vista, con molti grandi nomi dell’automotive che si sono approcciati, nei modi più fantasiosi, ad alcuni dei temi più tecnologicamente stravaganti del momento. Abbiamo così avuto modo di apprezzare sui nostri schermi: mezzi anfibi, strani aeromobili, robot che impugnano manubri o volanti… Ma forse ciò che veramente non ci aspettavamo, fra tutte le sorprese del web virale, è stata la completa trasformazione comunicativa messa in atto dalla Lexus, il marchio di lusso della Toyota da sempre associato ad imponenti nomi tout court come BMW o Mercedes, e che in quanto tale, si considerava seria e inamovibile quanto un macigno semi-sepolto tra la torba di palude. Finché, un bel giorno. Non è certamente possibile, dal di fuori, comprendere cosa sia avvenuto nella filiale inglese che si sta occupando dei loro principali exploit comunicativi digitali ormai da qualche tempo, né se il cambio di rotta sia stato indotto da un preciso ordine dall’alto, piuttosto che originarsi spontaneamente dalla meritoria acquisizione di un maggiore grado d’autonomia. Certo è che nessuno, fino a qualche tempo fa, avrebbe mai pensato di scrivere questo: il nuovo SUV compatto ibrido della Lexus, all’anonimo appellativo di NX, ha pubblicamente ricevuto un completo cambio di pneumatici. Che non sono gomme, bensì ghiaccioli.
È un qualcosa di così straordinariamente, gloriosamente invernale. Mentre tutti, sopratutto chi fra noi vive in campagna o a quote elevate, iniziano a preoccuparsi dell’esigenza di caricare le catene nel portabagagli, ripassando a mente i pochi ma fondamentali accorgimenti da adottare per la guida in caso d’improvvise nevicate (il primo fra i quali: non uscire in city car) loro si entusiasmano a mostrarci come un’auto davvero ben costruita possa non soltanto guidare su di una superficie dichiaratamente scivolosa, ma incorporarla nello stesso battistrada che utilizza per percorrere un tragitto definito. Ruote, in parole povere, ruote esattamente come il disco del mattino. Costruite, con meravigliosa attenzione ai dettagli, grazie all’aiuto di alcuni dei principali specialisti londinesi del settore, gli esperti della Hamilton Ice Sculptors, operativi ormai da oltre 35 anni. Un gruppo di appena quattro maestri dello scalpello, assistiti da numerosi discepoli, che vanta nel proprio curriculum anche la costruzione di sculture in acqua congelata per importanti celebrità internazionali, ricevimenti politici e niente meno che la Royal Family d’Inghilterra. Il cui rappresentante selezionato per l’occasione specifica, in modo niente affatto casuale, è stato il più giovane membro della crew Jack Hackeny, amico dei proprietari padre/figlio Duncan e Jamie nonché apprendista erede di una significativa parte della loro capacità artigiana. Che compare in prima persona soltanto per un attimo nel video reveal delle stupende ruote. Mentre si preoccupa di spiegarci meglio l’intera questione, anche da un punto di vista maggiormente tecnico, nel più recente segmento How the Lexus NX ice wheels were made.

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La nascita di un iceberg colossale

Ice Calving

Il cataclisma, l’annientamento più totale. Un’intera terra emersa che sparisce, all’improvviso, procedendo a dissolversi tra l’acqua e l’aria. Che gli elementi siano fluidi, e dunque soggetti al mutamento ciclico da uno stato all’altro della materia, è un’assunto costante dell’umana filosofia naturale. Ma osservare quel processo all’opera, specie su scala tanto imponente, è un’esperienza che non scordi tanto facilmente. Succedeva, a quanto apprendiamo da una rapida ricerca, nell’ormai distante 28 maggio del 2008 presso il ghiacciaio Ilulissat dell’isola di Greenland, durante le lunghe e difficili riprese per il premiato docufilm sul riscaldamento globale, Chasing Ice (2012 – prod. James Balog) lasciando un segno indelebile sulla comune concezione di quello che sia possibile vedere, in un pianeta ormai soggetto a un mutamento repentino e significativo. Anno dopo anno, le nostre preziose risorse di acqua dolce solidificata vengono erose a causa di un’atmosfera non più in grado di filtrare pienamente le radiazioni stellari del Sole, migrando verso quella forma che le porta a addizionarsi al vasto mare. Però questo non succede, come si potrebbe facilmente scegliere di pensare, con un ritmo regolare e prevedibile, giacché nulla, tranne ciò che è artificiale, si adegua alle preferenze della società. Bensì la forza che si accumula per l’allungamento longitudinale di un ghiacciaio, a causa dell’effetto della gravità, d’improvviso raggiunge il punto critico ed allora…Si ode il rombo di un boato, pari al quale non c’è nulla che sia percettibile all’orecchio umano, quindi inizia la trasformazione. In quel caso semi-leggendario, di una massa bianca pari o superiore all’isola di Manhattan, che in un turbinare caotico ha iniziato a muoversi in senso parallelo al piano dell’inquadratura (e meno male, altrimenti chi lo salvava?) Oggi, con intento didattico ma anche un chiaro scopo promozionale, l’intera sequenza è disponibile sul canale ufficiale degli Exposure Labs, compagnia di produzione del lungometraggio, assieme a qualche dato di riferimento che può facilmente far venire le vertigini: altezza complessiva del ghiaccio, 3000 piedi ca. (914 metri) di cui 2700 sotto il livello dell’acqua. Entità dell’area lasciata vuota dal fenomeno, un miglio di profondità per due di larghezza, benché come dimostrato anche dall’immagine metropolitana in sovraimpressione sul finire del video, i sommovimenti fossero riusciti a coinvolgere uno spazio molto superiore. L’intero evento incredibile, poi, si è svolto in un tempo di 45 minuti, praticamente l’equivalente di un battito di ciglia rispetto alle proporzioni di un tale sorprendente, eppure prevedibile disastro. Non c’è in effetti nulla d’inaudito in un distaccamento dei ghiacci che raggiunga tali proporzioni, visto come in precedenza siano stati riportati (ma non messi su pellicola) eventi di ablazione dalle proporzioni assai maggiori. In particolare esistono testimonianze dell’improvviso palesarsi, verificatosi tra agosto del 1961 ed aprile del ’62, di una nuova isola ghiacciata a largo della barriera glaciale artica di Ward Hunt, presso la costa nord dell’isola di Ellesmere, a Nunavut, in Canada. Della quale ormai non resta nulla, a causa dell’ulteriore aggravarsi di quelle stesse condizioni che l’avevano creata.
È una scena per certi versi triste, sconvolgente. Eppure che non può fare a meno di ispirare un certo senso di stupore dinnanzi all’entità immisurabile della natura, le assurde proporzioni verso cui tendono le basi solide dell’attuale situazione di contesto, rapidamente in viaggio verso l’auto-annientamento. È possibile arrestare del tutto un tale processo dalle proporzioni planetarie, di cui lo squagliamento del ghiacciaio di Ilulissat non è che una minima parte? Probabilmente no, direbbe il pessimista. E dunque, ubriacati dal senso della fine che già vede il porto d’approdo, faremmo bene a goderci uno spettacolo del finimondo, spezzettato per la nostra convenienza in tanti singoli episodi da gustare separatamente…

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Un bicchierino di whisky e l’arte giapponese del ghiaccio

Suntory 3D rocks

Una buona iniziativa pubblicitaria, soprattutto ai nostri tempi altamente digitalizzati, dovrebbe funzionare su almeno due livelli: ciò che si mostra e quello che viene implicato, ovvero l’associazione d’idee che si vuole indurre per creare l’immagine del proprio prodotto. Un tipo di risultato, questo, tutt’altro che facile da perseguire, visto che se già il concetto di bello è per sua natura tendenzialmente soggettivo, tanto maggiormente risulta esserlo il complesso e variegato sistema di metafore che costituisce il repertorio culturale di un popolo, ed invero, addirittura di uno specifico target, il destinatario collettivo dell’iniziativa di turno. Dunque, all’inaugurazione della sua ormai famosa campagna 3D on the Rocks, la grande compagnia di bevande Suntory dev’essersi chiesta: “Chi, davvero, beve il whisky giapponese? Chi sceglie un prodotto creato negli anni ’20 con lo specifico scopo d’imitarne un altro, vecchio di secoli?” Un prodotto poi diventato paragonabile a quello stesso, oppure talvolta superiore, grazie a oltre un secolo di perfezionamenti faticosamente coltivati sul suolo tiepido di appena una decina di distillerie. Laddove in Scozia, contemporaneamente, ve n’erano centinaia…Sembra quasi di vederli, riuniti attorno ad un tavolo, i creativi dell’agenzia TBWA Hakuhodo Tokyo, prima propositrice di una tale piccola follia: l’imprescindibile sezione di brainstorming, in cui tutti propongono, si confrontano, fanno cozzare i reciproci metodi operativi. Dev’esserci l’estetica della purezza, dice qualcuno, magari una scultura. L’immagine dominante idealmente risulterà nazionale, come i fiori di ciliegio o il grande Buddha di Kamakura, aggiunge il collega. E infine, forse da un’insigne manager, o magari dall’ultimo assunto, così fortunato già nei primi giorni della sua carriera, la risposta all’esigenza fondamentale: “Dovremmo associare il whisky dei nostri clienti alla bevanda più giapponese che esista, ovvero il tè con il suo sistema di valori.” E per vie traverse, grazie ad una fantastica illusione architettonica, proprio così e stato.
In un bicchiere, campeggiante su di un glorioso fondo nero, si versa il fluido ambrato prodotto dai cereali ammostati, cotti e poi mescolati con l’alcol che gli antichi chiamavano acqua vitae, o in gaelico, la lingua scozzese per eccellenza, uisge beatha: la linfa vitale. Da cui uskebeaghe, usquebaugh ed infine il termine corrente, che alcuni scrivono wisk(e)y, per una disputa mai risolta in merito alla presenza di quella sgradita vocale. Ma sul fondo del bicchiere, una sorpresa: il gelido tetto a punta del tempio Zen più celebre al mondo, quel Kinkaku-ji (Padiglione d’Oro, dalla lucente colorazione del suo tetto) o Rokuon-ji (Tempio del Giardino dei Cervi) che costituisce ad oggi il più fervido punto espressivo dell’arte d’epoca Muromachi (1337-1573) nonché punto d’incontro, simbolico e letterale, tra modi radicalmente diversi di vedere il mondo. Tre di essi, ciascuno rappresentato da un piano del tempio, verso il raggiungimento di uno stato di preparazione ulteriore: lo stile shinden-zukuri dei nobili d’epoca Heian, il buke-zukuri della nuova aristocrazia guerriera e lo zenshū-butsuden-zukuri, mutuato direttamente dalle istituzioni buddhiste del continente. Si trattava di un magnifico reliquiario, sostanzialmente, all’interno del quale constatare l’esistenza del Buddha ed al tempo stesso, in qualche modo aprire la mente per celebrarlo.
Ed è qui che si arriva al discorso della pubblicità della Suntory, un’associazione fondata sul percorso della disciplina dei monaci, che fin dall’epoca della trasformazione in tempio di questo edificio, voluta dal terzo shogun Ashikaga, Yoshimitsu (regno: 1368–1394) si occupavano di custodire e mantenere in salute lo splendido giardino circostante, inclusivo del suo culmine più rilevante: una piccola casupola, parzialmente dismessa, ove recarsi per sorseggiare tra le opere d’arte.
Una buona casa da tè, per sua imprescindibile natura, non avrà foglie d’oro presso le tegole, né alcun tripudio d’opere pittoriche o scultoree. Soltanto un rotolo appeso, generalmente del genere calligrafico, forse una pianta in un angolo, grandi aperture nelle pareti, finalizzate alla contemplazione della natura. E poi, ovviamente, gli attrezzi necessari per preparare la bevanda, sia questa analcolica, oppure.

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