Scoperta in Canada caverna degna de “Il ritorno dello Jedi”

Mentre il nostro piccolo pianeta va incontro alla lunga serie di trasformazioni note come riscaldamento globale, avvicinando l’ora in cui dovremo pagare pegno all’Universo, innumerevoli piccole mani si avvicinano alle porte che costituiscono le alternative statistiche del Fato. Chiudendone una larga parte e al tempo stesso, togliendo il chiavistello ad altri luoghi, precedentemente visibili soltanto dalla superficie. Sono strade, queste, che s’inoltrano in profondità della questione, discendendo come scale mobili infernali, al di sotto di ghiacci considerati ingiustamente eterni. Canada, un paese privo di segreti? Relativamente parlando, per un territorio tanto vasto da estendersi al di la del Circolo Polare Artico, potremmo anche rispondere con un perspicuo cenno di diniego: dopo tutto, per lunghi secoli qui hanno vissuto i popoli delle Prime Nazioni, seguiti in epoca recente dallo spirito d’intraprendenza ed il destino (presunto) manifesto dei coloni provenienti dalla distante Europa. Non stiamo, in altri termini, parlando di un deserto essenzialmente privo d’insediamenti umani. Ecco perché quando lo scorso aprile, nel momento in cui l’addetto al conteggio dei caribou (Rangifer tarandus) per conto del Ministero dello Sviluppo Rurale scorse un grande spazio vuoto al di sotto del suo elicottero d’ordinanza, in un primo momento pensò di aver interpretato male la realtà. Era semplicemente impossibile che sulla mappa personale di Bevan Ernst, per un qualche motivo difficile anche soltanto da ipotizzare, avessero dimenticato di segnare la presenza di una letterale voragine di 100 per 60 metri, capace d’incunearsi verticalmente attraverso le rocce del Wells Gally Provincial Park, in una parte assai battuta dai turisti più intraprendenti della Columbia Inglese. A meno che…
Permafrost dallo spessore di rilievo, solida testimonianza del potere che possiede il clima nel nascondere e far passare sotto silenzio il tipo più immanente di realtà. Quella del paesaggio. Almeno finché un susseguirsi d’inverni appena al di sotto della linea di conservazione, uno dopo l’altro, danneggiano il solido guscio soltanto in parte trasparente. Rivelando l’abisso imperscrutabile che trova posto poco la di sotto. Per il quale dopo tutto, qualcuno dovrà pur trovare un nome. E caso vuole che il Sig. Ernst, riportano l’episodio sul puntuale diario di bordo, fosse destinato a rivelare la propria statura come fan pluri-decennale della serie Star Wars. Scegliendo, per il nuovo abisso, l’appellativo in lingua inglese di Sarlacc’s Pit. Ora il Nord America, contrariamente allo stereotipo incline a metterlo in subordine rispetto alla meridionale Australia, è patria di numerose specie animali autoctone e piuttosto rappresentative. Eppure non vi è stato ancora individuato, per quanto ci è dato di sapere, il mostruoso ibrido tra un formicaleone ed una pianta mostrato nel terzo capitolo della serie di fantascienza più amata del mondo cinematografico, nella cui bocca venne destinato a scivolare il detestabile cacciatore di taglie Boba Fett, subendo le presumibili ed eterne conseguenze di una lunga quanto inesorabile digestione (ma questa è un’altra, assai variabile storia.) Perciò possiamo veramente biasimarlo, nel provare momentaneamente a sperare? D’altra parte, l’appellativo sarebbe stato in ogni caso, temporaneo. Trovandosi destinato a venire sostituito, come vuole la prassi, dopo una formale consultazione con i capi delle tribù ancestrali da sempre vissute in questi luoghi.
Col trascorrere dei mesi e l’avvicinarsi della fine dell’anno, tuttavia, la notizia è finalmente diventata pubblica. E il riferimento alla cultura Pop, come spesso avviene, è subito piaciuto alla stampa internazionale, che ha iniziato a ripeterlo una quantità spropositata di volte. In modo particolare nel narrare i risultati della spedizione preliminare compiuta con ragionevole successo, verso la fine del mese di settembre, presso l’imboccatura dell’abisso da un team di speleologi sotto la guida della geologa di larga fama Catherine Hickson, finalizzato a capire cosa, essenzialmente, ci fossimo trovati innanzi. E la risposta è (forse) quella che in molti avrebbero potuto aspettarsi: la potenziale caverna più profonda dell’intero territorio canadese.

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L’albero capace di rappresentare una potente multinazionale

Una delle notazioni preferite dai giovani studenti di storia del Giappone è quella relativa all’origine delle zaibatsu, i conglomerati aziendali capaci di trarre nutrimento dalla fertile economia di un paese neo-moderno, per estendere i propri rami come fossero tentacoli affamati in direzione d’Occidente: “Le aziende nipponiche sono DIVERSE, perché provengono dal mondo dell’etica samurai. Così come la politica di quel paese, soltanto in parte appannaggio delle ricche lobby dei mercanti di epoca Edo” Il che può dirsi almeno formalmente vero, in una serie di casi in cui i famosi generali della nazione, trasformatisi in burocrati al termine delle guerre civili, s’impegnarono a fondare questa o quella forma embrionale di un’azienda tutt’ora esistente: Mitsubishi, Suzuki, Yamaha…. Non a caso, ancora oggi, una quantità preponderante di aziende più che secolari proviene proprio da questo tipo di contesto geografico e sociale, il che implica uno specifico approccio comunicativo e simbologia. È piuttosto facile intuire, tuttavia, come una tale generalizzazione dei concetti non possa che fallire nell’applicarsi al caso della Hitachi, la compagnia multi-settore nata come produttrice di batterie nel 1910, ad opera di un ingegnere elettrico di nome Namihei Obaraki e il suo finanziatore Fusanosuke Kuhara, a quel tempo proprietario di una miniera nella prefettura di Ibaraki. Riconvertita all’economia di guerra durante il secondo conflitto mondiale e per questo duramente colpita nei suoi stabilimenti dalle bombe degli americani, per trovare quindi una diversa dimensione come azienda quotata in borsa a partire dal 1949. Solida e resistente alle intemperie, come una pianta alta e orgogliosa, ovvero quella che fu scelta a partire dal 1973 per rappresentarla in molte pubblicità dinnanzi allo specifico pubblico dei suoi clienti giapponesi.
La prima cosa da sapere in merito all’albero della Hitachi, raramente utilizzato nelle comunicazioni internazionali ma molto famoso in patria, è che esso non si trova affatto presso il “sacro” suolo del paese degli Dei, bensì in un luogo che dal punto di vista del presunto nazionalismo locale, dovrebbe essere considerato uno scenario di terribile sventura: l’arcipelago nel mezzo del Pacifico delle isole Hawaii, e per essere più specifici all’interno di un giardino appartenuto a niente meno che re Kamehameha V, al secolo principe Lot (1863-1872) famoso per il suo amore nei confronti delle arti, la musica e la cultura. Il che l’avrebbe portato, negli anni più attivi del suo regno, a costituire un’enclave tanto botanicamente rilevante all’interno della quale preservare la pratica della hula, danza tradizionale particolarmente invisa ai missionari cristiani. La quale viene ancora praticata in spettacoli frequenti all’interno del terreno privato dei Moanalua Gardens, da un certo tipo di maestranze locali e allo scopo di attirare l’attenzione dei turisti, benché almeno nel caso in cui questi ultimi provengano dal Sol Levante, non riesce in alcun modo a competere con la capacità di attrazione e coinvolgimento dello svettante arbusto posto nella radura centrale, semplicemente iscritto nella loro mente fin dai lunghi anni trascorsi davanti ai cartoni animati e la Tv. Un perfetto rappresentante della specie Albizia saman, altrimenti detto albero della pioggia o in lingua inglese monkeypod (baccello delle scimmie) per l’amore dimostrato dai primati, nell’ampio areale della sua diffusione cosmopolita, nei confronti del frutto scuro simile a quello prodotto della pianta dei piselli. Con la quale risulta essere in effetti strettamente imparentato (fam. Fabaceae) pur presentandosi con un aspetto molto più imponente e maestoso.
Stiamo parlando d’altra parte di una pianta ad alto fusto, originaria della zona mesoamericana, tanto ampia ed elegante da aver dato origine alla leggenda dell’inizio del XIX secolo secondo cui niente meno che Simón Bolívar, grande libertador e rivoluzionario dell’America Latina, avrebbe fatto riposare il suo intero esercito sotto le fronde di un singolo esemplare. E benché non sia tutt’ora noto, esattamente, quale manager di medio livello all’interno dell’ormai finanziariamente stabile Hitachi sia rimasto colpito per primo dall’esempio pluri-secolare di Moanalua,  resta un fatto acclarato che esso sia valso alla famiglia Damon, proprietaria dei giardini dall’epoca della fine della monarchia, una quantità di finanziamenti per il suo mantenimento stimata attorno ai quattro milioni di dollari. Davvero niente male, per 25 metri di tronco e un ombrello di fronde dal diametro di 40 metri, capace di prosperare senza particolari interventi da parte degli umani…

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Famosa scena dei Simpson ricreata con la vera aurora boreale

Cos’è in fondo uno specifico ricordo, se non l’accumulo di una serie di segnali elettrici nei neuroni del nostro cervello, che rimandano a sollecitazioni ed esperienze sensoriali precedentemente vissute? Così che la situazione tipica di un viaggio, passato un numero sufficientemente elevato di anni, sfuma nella nostra fantasia e diventa simile al racconto mitologico di un menestrello, appollaiato sulla spalla come il tipico compagno aviario del pirata caraibico in cerca di un remoto tesoro. Mentre ciò che ricordiamo anche troppo bene, attraverso la pratica quotidiana di un tranquillo passatempo, ripetuto molti anni per le repliche, le citazioni ed i discorsi collettivi creati per celebrarlo, è il nostro episodio preferito di una serie televisiva, particolarmente se quest’ultima rimanda in via diretta a piacevoli momenti della nostra infanzia. Ed è questo ciò che si usa intendere, quando viene utilizzata l’espressione tradotta in italiano come “vitellone al vapore” ma che nella versione in lingua originale steamed hams conteneva un doppio riferimento, molto più rilevante, al concetto di “prosciutto” (ham) e per l’appunto, ham-burgers. Un cibo adatto, come è noto, a tutte le occasioni. Tranne una: la visita formale del proprio superiore al lavoro, ovvero nel caso di un preside scolastico statunitense, il proprio sovrintendente di distretto regionale, col potere di aumentargli lo stipendio o mandarlo dritto sulle liste dei disoccupati, qualora dovesse ritenerlo inadeguato a un così difficile e importante ruolo.
Per venire quindi a questo video probabilmente destinato a gloria imperitura, Neil e Thomas sono due guide turistiche norvegesi della popolosa città nordica di Tromsø, famosa al tempo stesso come punto di partenza d’innumerevoli spedizioni indirizzate alla ricerca del Polo Nord e in funzione degli spettacolari fenomeni elettromagnetici del suo cielo notturno, causati dal passaggio obliquo del vento solare. Due protagonisti dell’età giusta per essere cresciuti, come molti di noi, assistendo alle peripezie immaginarie della più famosa famiglia dei cartoni animati, quei Simpson che attraverso un periodo di quasi trent’anni ed oltre 600 episodi, hanno offerto alternativamente momenti comici ed avventurosi, parodie americane ed internazionali, grosse risate e qualche volta in epoca recente, una comprensibile delusione nei confronti di sceneggiatori ormai a corto d’idee. Il cui motto potrebbe essere: “Tutti devono avere un momento di gloria!” nella continua ricerca di materiale fondato sull’esperienza umana delle molte centinaia di personaggi, molti dei quali ormai ricorrenti, che compongono la nutrita popolazione della loro misteriosa città, geograficamente mai localizzata su alcuna mappa degli States. Un doppio approccio più che mai riassunto nel memorabile episodio n. 149 del 1996, dal titolo programmatico di “22 cortometraggi di Springfield” che ispirandosi dichiaratamente al film cult tarantiniano Pulp Fiction, propone una serie di storie brevi interconnesse tra di loro, benché semplificate dalla loro necessità di venire compresse in un periodo di appena mezz’ora. Tra cui quella principale, nell’immaginario collettivo, resta certamente il succitato pranzo che il preside e veterano del Vietnam Seymour Skinner si ritrova, suo malgrado, ad offrire al severo sovrintendente Chalmers, l’unica persona in grado d’incutere timore a chi è capace di domare persino il terribile Bart Simpson. Il che ci porta, senza ulteriori indugi, all’indimenticabile sequenza qui rappresentata dal vivo.

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La torre di 50 metri sullo scoglio più remoto della Cornovaglia

Sagoma stagliata nella nebbia, circondata dall’alone di un sole stranamente remoto. Che si erge in mezzo ai flutti, sostenuta da una forma larga appena quanto le sue stesse fondamenta. Tanto da lasciar pensare che debba inevitabilmente trattarsi, quanto meno, di una costruzione ultra-moderna, basata su una titanica colata di cemento, oppure soluzioni tecniche come dei grandi galleggianti. Niente, tuttavia, potrebbe essere più distante dalla verità: poiché il faro di Bishop Rock (la Roccia del Vescovo) ha in effetti oltre un secolo e mezzo di storia, ed è stato collocato lì in risposta ad una serie di drammatici eventi, particolarmente celebri nel tormentato tragitto della storia d’Inghilterra.
Poche vicende costituiscono la dimostrazione dell’orgoglio sproporzionato di un uomo in una posizione autorevole, nonché della sua intera categoria professionale, quanto il tragico disastro delle Isole Scilly del 1707, culminante con la perdita di un numero tra i 1.400 e 2.000 marinai e i loro stesso ammiraglio, di ritorno da una difficile battaglia di supporto della guerra di successione spagnola, relativa al blocco della città francese di Toulon. Al punto che assai numerose furono le dicerie e leggende, sulla fine inevitabile di Sir Cloudesley Shovell, già veterano di almeno due tra i numerosi conflitti navali combattuti dalla Marina Reale in Europa verso la fine del XVII secolo. Tra cui la storia, al tempo stesso tipica e altamente indicativa, sul marinaio originario di questo particolare arcipelago, che trovandosi a bordo della stessa nave del supremo comandante, sentendosi obbligato a far sentire la sua voce, in merito al fatto che la flotta si trovasse molto più a settentrione di quanto era stato calcolato. Tutto ciò, ottenendo solamente una severa punizione, corrispondente secondo alcune versioni all’immediata impiccagione all’albero maestro. Piuttosto eccessivo, nevvero? Fatto sta che questo fosse il tipo di naufragio, capace di coinvolgere quattro delle venti navi sotto il disgraziato comando e in grado di lasciare un segno profondo nell’immaginazione di un paese e la sua elite al potere, gli uomini del Parlamento sotto la tutela del Re.
Il primo atto compiuto a tal proposito, dunque, sarebbe stato quello di far traslocare la tomba dello stesso Shovell, che una volta seppellito sulla vicina isola principale dell’arcipelago, era diventata vera e propria pietra dell’infamia per l’odio popolare, a causa del mito sulla fine del subordinato ingiustamente punito. Il secondo sarebbe effettivamente passato alla Storia, come Atto della Longitudine del 1714, emanato dal governo affinché la marina fosse fornita, dietro lauta ricompensa, di un sistema nuovo e più efficiente per triangolare la propria posizione in mare. Voleva il caso infatti, che mentre l’arco del parallelo geografico corrente fosse ragionevolmente facile da determinare, grazie all’altezza del sole a mezzogiorno o delle stelle nel cielo notturno, l’unico modo conosciuto al tempo per determinare il meridiano fosse ricorrere alla navigazione stimata (o dead reckoning) sulla base della velocità e il tempo di navigazione trascorso. Un sistema inerentemente impreciso, di fino a un ventesimo del cammino compiuto fino a un determinato momento, con conseguenze potenzialmente disastrose e già ampiamente dimostrate. Ma poiché le varie soluzioni tra cui cronometri e solcometri più precisi, oltre a un nuovo sistema di calcolo dell’altitudine lunare elaborato dal carpentiere e orologiaio John Harrison dietro lauta ricompensa governativa, tardavano a prendere piede tra coloro che ne avrebbero dovuto fare un uso coscienzioso, causando tra l’altro ulteriori naufragi presso le isole di Scilly, il governo scelse di rivolgersi come terza contromisura alla Trinity House, la corporazione fondata nel 1514 e ancora oggi operativa, con l’antico incarico di gestire tutti i fari della Gran Bretagna. E fu così che ad oltre un secolo di distanza il rinomato ingegnere di origini scozzesi James Walker venne trasportato per la prima volta presso lo scoglio responsabile di tante disgrazie, per il sopralluogo che avrebbe portato, nel 1847, alla costruzione del primo faro di Bishop Rock.

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