Totale mancanza di riguardo nei confronti della propria stessa incolumità. Poco rispetto per le istituzioni. Agilità commisurata al desiderio di spiccare tra la gente cosiddetta “comune”, incapace di seguire, neanche con lo sguardo, le vertiginose evoluzioni sopra i tetti del più tipico contesto urbano. Questi ed altri sono gli stereotipi, evidentemente accantonati a pieno titolo, nel corso dello svolgersi dell’ultima fatica degli STORROR, gruppo inglese di atleti dediti alla sublime arte in divenire di quel flusso di vettori, il susseguirsi di reazioni o tecnica dei movimenti concatenati che dir si voglia, cui viene convenzionalmente attribuita la definizione francofona di parcours. Meno una S e con l’aggiunta della K, che non fa mai male. Eppure per chi ha ancora in mente quale sia l’origine di tale disciplina, nell’ormai remota prima decade del ‘900, ad opera dell’insegnante di educazione fisica della Marina Georges Hébert, non può esserci proprio niente di strano oppure disallineato dalla convenzione, in questa esplorazione a ritmo accelerato di un ambiente come le distese brulle del deserto del Negev, in Israele, teatro di una serie di sequenze che non sembrerebbero di certo fuori luogo in un film di James Bond. Sopra e sotto, dietro, dentro, le insolite caratteristiche di un paesaggio frutto di millenni d’erosione, le cui serpeggianti depressioni tendono a incrociarsi l’un l’altra, offrendo ottimi presupposti per quel fondamentale proposito del “muoversi con efficienza” (risultando, quindi, maggiormente utili) tanto lungamente teorizzato dall’inconsapevole creatore di un punto d’incontro tra l’Europa ed il Giappone dei subdoli ninja, battaglieri acrobati con il costume nero. Esattamente così come appaiono Toby Segar, Joshua Burnett-Blake, Drew Taylor, Max e Benj Cave, Callum e Sacha Powell, con l’aggiunta di essenziali occhiali per difendersi dal polverone, qualche fazzoletto per cercar l’anonimato e in taluni specifici frangenti, anche la mascherina con i filtri tipica del graffitaro, che fa tanto post-industrialismo vagamente cyberpunk. Due coppie di fratelli più altri amici, che si sono conosciuti nel corso della seconda metà degli anni 2000, per arrivare alla formazione del loro team al volgere dell’iconico giorno 10-10-10 scegliendo come nome una parola in lingua inglese probabilmente riconducibile al concetto di “pastore”, dal termine “stor” comunemente riferito ai bovini o pecore, a seconda del contesto.
Strana scelta per un ancor più eclettico collettivo, notoriamente abituato a viaggi verso le destinazioni internazionali più diverse, verso la creazione di un’antologia infinita di vertiginosi exploit, su alcuni degli edifici più alti, vecchi e almeno qualche volta, potenzialmente scivolosi dei più variabili contesti d’appartenenza. Detto ciò, sarei propenso a definire l’ultima particolare creazione come quella più pura degli ultimi anni, dove in assenza di ogni possibile elemento di distrazione e/o distruzione, potendo fare affidamento sul naturale fascino di un paesaggio al limite dell’Oltremondo, i sette tornano al cuore e il nocciolo stesso di una simile faccenda: quale possa essere, in effetti, l’obiettivo posto sulla cima alla ripida montagna del parkour.
deserto
4 ruote, 4 zampe: l’auto-cane fuoristrada della California
Almeno quindici dozzine di telecamere, portate dagli spettatori per assistere ai momenti più memorabili della King of the Hammers del 2015, famosa corsa annuale tenuta in prossimità della base militare di Johnson Valley, nella zona di San Bernardino. E in quel saliente attimo, puntarono tutte nella stessa direzione. Non è difficile capirne la ragione… Mentre il granchio, il ragno, la creatura, il mostro di metallo appartenente ad una specie senza nome, fuoriuscito dalla scuderia segreta del produttore di trebbiatrici del Nebraska Alec Yeager, si apprestava ad affrontare il ripido percorso noto come Backdoor (la “porta sul retro”) composto da un pendio disseminato di ponderosi ed impressionanti macigni. Una sfida molto spesso insuperabile, per i più orgogliosi Rock Crawlers iscritti a questa particolare giornata di gara, ma non per costui. Che al sopraggiungere del primo ostacolo troppo alto, per quella che si presentava all’apparenza come un semplice buggy costruita su misura, rivela all’improvviso l’arma, per così dire, particolare: di una ruota che si pianta a terra, e inizia a sollevare il corpo del veicolo, subito seguita da quella in opposizione, attentamente riposizionata qualche metro più in avanti sul sentiero. Quindi, tra il sussistere dello stupore generale, lo stesso avviene con le altre due e via da lì in alternanza, finché la montagna non diventi un mero passo intermedio verso la meta del traguardo finale. E tutto grazie all’inventiva di colui che in linea di principio, doveva mettere la sua materia grigia di progettista al servizio di un compito straordinariamente mondano e semplice, come quello di raccogliere e preparare il grano?
Così può accadere talvolta, nel mondo della pubblicità, che un’associazione di pensieri concepita unicamente per accrescere le entrate di una compagnia finisca per portare avanti un messaggio valido al di là della semplice convenienza, perché proveniente da un remoto ambito situazionale. E di certo negli Stati Uniti in molti ricorderanno, ancora oggi, la storica pubblicità del Super Bowl andata in onda nel 2012 (come passa il tempo!) per il RAM Truck, l’iconico pick-up prodotto originariamente sotto il marchio della Dodge ed oggi parte integrante della grande famiglia Fiat Chrysler Automotive, intitolato “E fu così che Dio creò l’agricoltore”. Con immagini eleganti e semplici, di un grande ranch come ne esistono migliaia, primi piani di bambini e veterani di quel mondo, accompagnate dalle memorabili parole di Paul Harvey, direttore radiofonico e portavoce dell’associazione FFA (Future Farmers of America) che ispirandosi a una definizione degli anni ’40, immaginava una parafrasi del creatore supremo, in cui quest’ultimo elencava le capacità necessarie per svolgere il secondo (?) più antico lavoro al mondo; “Mi serve qualcuno che sia abbastanza forte da domare un vitello, ma abbastanza gentile da mettere al mondo il suo nipotino; qualcuno che possa chiamare i maiali, o redarguire macchinari irrequieti; tornare a casa affamato ed aspettare che la moglie abbia finito con le proprie ospiti, eppur dicendo loro di tornare anche il giorno dopo, con sincerità.” Percorrendo fino alle più estreme conseguenze, di quell’auto sfolgorante con il logo in bella vista, un sentiero di quella che potrà apparire un’associazione in qualche modo labile, ai nostri occhi e orecchie di Europei. Provate invece, soltanto per un attimo, a ripercorrere l’ampia serie di problemi che caratterizzano la vita di chi opera in zone rurali e circondate da praterie e deserti, così straordinariamente distanti da qualsiasi tipo di assistenza meccanica immediata. Assai probabilmente incontrerete, molto presto, l’evenienza di accidenti o guasti motoristici, il che fa del contadino medio americano, anche un valido meccanico, riparatore ed inventore di approcci in qualche modo innovativi al mondo dei trasporti. Ed ecco in quale modo, lungo il procedere dei lunghi anni, presero forma gli svariati mezzi veicolari della Kiss Off-Road, compagnia collaterale del più rinomato produttore di macchine agricole della cittadina di Hendley, NE…
Lo strisciante demone spinoso dei deserti messicani
Raggiunta quella che pareva essere la 714° notte insonne in cima all’alto muro, durante lo svolgimento della sua corvée ereditaria dovuta al Gran Duca Sio Zam, il guardiano armato di tutto punto alzò rapidamente la punta del suo fucile, scrutando attraverso il mirino ottico una forma indistinta che andava a intaccare la pura limpidezza dell’orizzonte. Un qualcosa di straordinariamente inaspettato, poiché secondo quanto era stato scritto nel grande libro, nessuno osava chiedere l’ingresso nella Terra Promessa da almeno 714 generazioni. “Chi osa gettare la propria ombra sulla sabbia consacrata che separa il mondo dei viventi dalla terra di Us’ea?” Pronunciò l’uomo, in quel momento investito di una responsabilità e un potere molto di sopra al suo ruolo di servitore: “Chi sfida il decreto della Legge Internazionale, scritto col sangue con la piuma dell’Aquila d’Oro, sul grande papiro custodito nella bianca Cupola dei Cieli Sereni?” Nessuna risposta provenne dall’informe creatura adagiata al suolo, nonostante le altisonanti domande fossero state rivolte al suo indirizzo grazie all’impiego dello strumento infallibile della telepatia inter-lingua. Il guerriero in uniforme abbassò quindi l’arma, continuando a tenere d’occhio quello che poteva soltanto essere un intruso, inviato dai diavoli dell’Oltremuro per sfidarlo e tentare la sua risolutezza di fedele guardiano. Trascorsero 30 giorni, quindi altri 15 mentre le nubi s’inseguivano in turbinanti volute da una parte e dall’altra dell’invalicabile barriera di Us’ea. Fu allora che la reclinata ed informe presenza, parlò: “Noi siamo il bruco che striscia attraverso le generazioni, noi siamo vivi, noi siamo morti. Noi siamo l’eterna intoccabile pianta che testimonia il passaggio effimero delle civiltà. Quando qui c’era soltanto la polvere, già esistevamo. Quando ogni mattone avrà fatto ritorno al suo stato primordiale di non-esistenza, allora toglieremo le nostre sottili radici, per dirigerci altrove.” Fu allora che il guardiano con l’occhio puntato all’interno dello scintillante cannocchiale, la riconobbe: lungi dall’appartenere all’Ordine del Consorzio degli Animali, l’inusitata presenza era un membro dell’Incrollabile Gilda dei Vegetali. Essa era Stenocereus, normalmente detta la fragola del deserto, produttrice del frutto più rosso, dolce e saporito che un palato umano avesse mai avuto modo di assaporare. Ma c’era qualcosa di strano, poiché invece che erigersi orgogliosamente sopra la sabbia come aveva fatto per migliaia di anni, la pianta appariva piegata e moribonda, come affetta dai sintomi di una chiara quanto demoniaca maledizione. Fu allora che egli iniziò a provare uno di quei sentimenti che erano severamente vietati nelle interminabili appendici della Legge di Us’ea: curiosità verso le intenzioni di un non-americano. Possibile che si trattasse soltanto di un attimo di debolezza?
Quando si parla del cactus noto nel suo paese come la chirinola (bizzarrìa) e in altri tempi e luoghi con la definizione latina di S. Eruca o metaforica di demone strisciante, per la durezza e natura dolorosa delle sue spine non sempre notate in tempo, l’errore è del resto lecito. Stiamo parlando nei fatti di un qualcosa che esiste tanto al di fuori della sfera e del contesto umano, che lo si vede raramente, ed ancor meno hanno avuto la fortuna di scrutare l’aspetto altamente distintivo dei suoi fiori, in grado di aprirsi soltanto per un’unica notte a distanza di mesi, o anni dal precedente accadimento generazionale. Che nonostante la parentela con la già rara S. gummosus dal dolce frutto della pitaya messicana, altra pianta originaria delle dune di sabbia che caratterizzano la penisola della Bassa California, vanta caratteristiche straordinariamente insolite per chi dovrebbe trascorrere un’esistenza vegetativa. Prima fra tutte, quella di riuscire a muoversi attraverso le larghe distese dell’assoluto nulla, nell’eterna ricerca di territori dai migliori presupposti nutrizionali…
Cosa causa strani gorghi tra le sabbie del deserto del Mojave?
Risulta molto facile, questo saremmo pronti a giurarlo, per un uomo in piedi sopra un tetto a lato della strada illuminata dalle insegne nota globalmente come “lo Strip” (Striscia)… Affermare, intendo, mentre s’indica a ridosso della linea dell’orizzonte, il punto in cui il deserto lascia il posto alla città. “Qui è il confine oltre il quale la natura cessa il proprio predominio, per lasciare spazio alle incrollabili barriere dell’asfalto.” E così avviene, d’altra parte, per ciascuna significativa strada dello stato del Nevada, inclusa quella panoramica che porta al canyon delle Red Rocks, paesaggio reso celebre da mille o più film del genere ambientato nel cosiddetto Far West. Quando l’evidenza ci ha provato, a più problematiche riprese, il modo in cui bastano pochi attimi, durante il proseguir di un pomeriggio di pioggia, perché gli antichi arroyos (depressioni o canyon secchi dove un tempo transitavano torrenti) adattati tanto attentamente per l’ausilio alla viabilità motorizzata, facciano ritorno a quello stato primordiale per cui tutto scorre, sotto il margine di un liquido tumulto, fronte smisurato dell’inondazione.
Ed allora, apriti cielo (e suolo)… Perché nulla sembra più avere un senso! Come nel frangente qui documentato, in grado di suscitare parecchi interrogativi sul pubblico locale e nazionale, dalla nature girl
Jessica Forsthoffer sulla sua pagina Twitter e da lì a seguire, verso Facebook, Reddit e YouTube. Un qualcosa che potremmo definire semplice o addirittura normale, se soltanto ci trovassimo a guardare il bacino artificiale situato a monte di una diga. Poiché pare, sotto i nostri occhi increduli, che una serie di tappi siano stati tolti al fondo della piana sabbiosa con vegetazione rada. Affinché l’acqua, vorticando diligentemente, si affretti a correre verso destinazioni sotterranee sconosciute. Ma prima d’inoltrarci nella questione titolare, vediamo di affrontarne un’altra, parimenti significativa: deserto? Acqua? Piane alluvionali? Se mai c’è stata a questo mondo una contraddizione in termini, beh, sarebbe assai difficile negarne trovarne una maggiormente palese. Ma per tutto ciò esiste, parlando in chiari termini ed unicamente quelli, un’importantissima ragione. Che può essere riassunta nel binomio di ambito meteorologico composto dall’espressione “Monsone Messicano”. Chiaro, non si tratta di una storia spesso discussa sulla scena meteorologica internazionale, tanto meno quanto la sua nota controparte del subcontinente a sud dell’Asia. Benché costituisca, sotto più di un punto di vista, il maggior evento stagionale dell’intera zona centro-meridionale statunitense, fin quasi alle distese dell’entroterra texano. Che trae l’origine, come molti altri fenomeni di natura ambientale, tra le masse d’aria umida del golfo della (Bassa) California…