È in primo luogo la questione geografica, ad assumere una qualifica inaspettata. Perché di luoghi estremi creati o abitati dagli animali, ne conosciamo diversi, ma siamo abituati ad aspettarceli in terre selvagge, come la Foresta Amazzonica, la savana d’Africa, gli sconfinati mari che circondano l’Australia. Non certamente, pochi chilometri fuori una città da 1 milione e mezzo di abitanti, nel grande e non sempre tranquillo, eppur semplice Texas. Uno stato americano continentale, con tutto ciò che questo comporta: lunghe interstatali, centri abitati dalle ingombranti infrastrutture, campi coltivati ed industrie pesanti. E… Caverne oscure e profonde. Quest’ultimo aspetto, forse, non dal punto di vista speleologico (poco più di 3000 metri quadri per lo più disposti in orizzontale) quanto per i sentimenti e le cognizioni che suscita, l’oscuro animo che rappresenta. Luogo ameno per tutti gli amanti della natura e nel contempo, incubo per molti, persino molti di loro. Questo perché il pertugio in questione, il cui ingresso si trova in corrispondenza di un dislivello causato dal crollo del suo stesso tetto primévo, ospita la singola maggiora concentrazione di mammiferi su questo pianeta. Più simile, per densità demografica, a un’infestazione d’insetti volanti o le loro larve, in attesa del drammatico momento della trasformazione. Il che, del resto, ha senso: non puoi mangiare un qualcosa per tutta la vita, senza finire per mutuarne, almeno in parte, le caratteristiche di fondo. E gli abitanti della celebre Bracken Cave, presso Austin, di insetti ne mangiano 100 tonnellate a notte. Riuscite a comprendere le implicazioni? Un’intera ecatombe, ripetuta ancòra e ancòra, finché potenzialmente non resterà più nulla. Eppure, grazie all’adattabilità della natura, ciò non succede mai. Mentre è stato stimato che gli agricoltori texani, in media, risparmiano 740.000 dollari annui grazie all’attività degli abitanti della Bracken Cave. Niente male per una quantità variabile tra 20 e 30 milioni di pipistrelli, direi…
Ad amministrare questa brulicante ed irripetibile gemma del territorio, ci pensa un’associazione di vecchia data, fondata nell’ormai remoto 1982 da Merlin Devere Tuttle, rinomato ecologo americano. Il suo nome è Bat Conservation International. Attraverso i fondi pubblici e le offerte caritatevoli, subito reinvestite sulla base della mission di preservare e proteggere tutti i pipistrelli del mondo, gli operatori studiano, documentano e proteggono occasionalmente le squittenti creature, organizzando anche delle visite a cadenza regolare. La caverna è infatti sita su terreni privati, ed a quanto dicono non propriamente facile da trovare. Qualità, queste, che hanno senz’altro aiutato alla sua permanenza immutata fin dall’epoca della fondazione della città. Si tratta, a quanto dicono, di un’esperienza indimenticabile, che si svolge dal tramonto all’alba, quando risulta possibile vedere l’intera popolazione adulta della caverna che emerge, tutta assieme, dando inizio all’ora della caccia selvaggia, mentre a loro volta la popolazione dei falchi locali piomba sull’ammasso indistinto, ghermendo una certa quantità di pelose ed alate merendine. Ciò detto, al prenotazione ha delle date e delle regole precise (nonché il numero chiuso) soprattutto in una determinata stagione, tra marzo ed ottobre, ovvero prima che gli esemplari costituenti questa smisurata biomassa mettano in atto la loro regolare migrazione verso il sud del continente. Sia chiaro che stiamo parlando, in effetti, non dei normali visitatori dei nostri cieli notturni, bensì della specie dei pipistrelli dalla coda libera messicani (Tadarida brasiliensis) che presentano svariate caratteristiche particolari. Prima fra tutte, la loro propensione a migrare per migliaia di chilometri dal segmento meridionale della loro distribuzione, soltanto per approdare in un luogo tranquillo e mettere al mondo la prole. Un’attività che gli ha concesso, negli anni, capacità di volo davvero significative: si stima, ad esempio, che il T. brasiliensis sia il singolo volatore più veloce in senso orizzontale (non in picchiata) risultando in grado di raggiungere i 160 Km/h. tanto che in una singola notte, un esemplare di questa specie può percorrere anche 150 Km alla ricerca di cibo, ad altitudini di fino a 3.300 metri. C’è quindi tanto da meravigliarsi se nell’apparentemente normale città di Austin, i pipistrelli sono pressoché ovunque?
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L’amor che fa gonfiare gli urogalli americani
Tra una costa e l’altra del Nordamerica, verso la distante sponda dell’Ovest, c’è un’ampia area nell’entroterra priva di città, centri abitati o altri segni di vita normalmente associabili a densità demografiche rilevanti. Via dagli edifici e dagli assembramenti, disseminata occasionalmente dagli ingressi delle miniere o i padiglioni degli allevamenti, qualche piantagione qui e là, ma per la massima parte, corrispondente al concetto atavico di prateria. Verde tendente al marrone, perché ricoperta in ogni suo possibile recesso dal sagebrush. Ora cosa sia il sagebrush, esattamente, nessuno lo sa. O almeno così sembrerebbe nel cercare tale termine sui dizionari, dove si parla (correttamente) di certe piante appartenenti al genere Artemisia, ma anche di saggina, sterpaglie, ginepro, salvia o addirittura in senso più generico, “erba alta”. Ambiente privo di particolari attrattive, questo, per molti. Ma non per tutti. Come si può facilmente desumere, sentendo a distanza di chilometri il richiamo gutturale del più nobile tra gli uccelli locali. È un suono penetrante, dall’intonazione profonda, che sembra fare da accompagnamento pressoché perfetto alla creatura, che lo emetterà di continuo per tutta la durata della stagione degli amori. Finché qualcuno, avvicinandosi, possa assistere allo spettacolo di un’intera vita di birdwatching: 25-30 esemplari riuniti in cerchio e intenti nella conduzione di uno strano rituale. A dare il tempo ci pensa lui, il maschio alpha più grosso e forte di tutti gli altri, mentre attorno si assembrano i colleghi che vorrebbero sottrargli questo ruolo. Ciascuno alto all’incirca una settantina di centimetri, e dotato di una certa serie di simboli di riconoscimento: in primo luogo, la coda, composta da una serie di penne a raggiera non dissimili dal copricapo della Statua della Libertà, quasi volesse competere con l’aquila di mare nel ruolo di simbolo della nazione. E poi due macchie gialle sopra gli occhi, con un copricapo in proporzione gettato all’indietro da far invidia a un capo di una tribù di Nativi. Ma ciò che colpisce da subito l’immaginazione è il vistoso collare di piume bianche, con un aspetto estetico non dissimile da quello di un collare di pelliccia del cappotto invernale. Il quale nasconde, in realtà, un segreto.
All’osservatore occasionale di una simile congrega, non propriamente esperto dell’argomento, potrebbe anche costituire la ragione di un senso di stupore rilevante. Poiché ogni volta che uno di questi Centrocercus urophasianus (gallo della salvia o greater sage-grouse) apre il becco per emettere il suono, fa un sobbalzo. E per ciascun sobbalzo, sbuca fuori dalle piume dell’ornamento frontale una gran coppia di sferoidi verde scuro, simili al cappuccio di altrettante meduse. Così l’uccello continua nel suo canto e un minuto dopo l’altro, mostra a intermittenza la capacità di aumentare temporaneamente di dimensioni, se soltanto s’impegna a deviare parte dell’ossigeno inalato verso questi grossi organi posizionati all’incirca all’altezza del petto. Perché lo fa? Beh, chiunque conosca il modus operandi del gallo cedrone, il fasianide più simile a questo ad essere presente tra le coste della penisola nostrana, a questo punto già si sarà fatto un’idea. Stiamo osservando, molto chiaramente, gli uccelli nella stagione degli amori. Quando l’estetica è tutto e la capacità di fare colpo, niente meno che essenziale per trasmettere i propri geni al domani. È usanza imprescindibile tra gli urogalli in effetti, che per ogni raduno dal simile tenore (comunemente chiamato lek) sia soltanto un esemplare, massimo due ad accoppiarsi, scelti in base alla rigida graduatoria genetica della specie. Proprio per quest le femmine marroncini, esteticamente non dissimili da una comune pernici, inizieranno ad avvicinarsi di soppiatto con lo scopo di soppesare rischi e possibili vantaggi. Per poi scegliere il bersaglio e farsi avanti, confidando nell’infallibile capacità di andare a meta. Per loro, dopo tutto, il successo è già garantito: pensate soltanto che una di queste creature potrebbe bastare ad inseminare l’80-90% delle gallinelle presenti allo show. Ed in effetti molto spesso, è proprio questo che ciò che capita dopo una lunga serie di sfide, combattimenti e vicendevoli spintoni, per la maggiore gloria dell’urogallo supremo.
La tecnica suprema dei testicoli di ferro
Uomini che si colpiscono da soli, colpiscono gli altri ripetutamente, con calci, pugni e staffilate. Con massima concentrazione di forza ed apparente odio formale per la parte delicata della loro più profonda intimità: più e più volte, finché le loro grida di battaglia non diventino più acute ed intense, profondamente convinti nell’esercizio di auto-abnegazione che conduce con certezza all’immortalità in combattimento. Dovete considerare come nella disciplina delle scienze cinesi tradizionali, a differenza della visione usata in Occidente, il numero interpretativo per eccellenza non è il quattro, bensì quello che viene dopo. Vi sono cinque direzioni cardinali (nord, est, sud, ovest, centro) cinque elementi (legno, fuoco, terra, metallo, acqua) cinque note musicali, cinque agenti del cambiamento, cinque grandi filosofi, cinque momenti estemporanei nel semplice portare a termine un singolo respiro. E cinque punti preferibili per concentrarlo, di cui il più fondamentale il cuore. Ora, dal punto di vista dello studio finalizzato all’accrescimento del potenziale umano, il cuore può trovarsi in molti punti differenti. Persino nella mente. La teoria secondo cui gli esseri umani userebbero soltanto una minima parte del loro cervello, tuttavia, è stata più volte scientificamente smentita: tutto ciò che occorre è una scansione della calotta cranica, per osservare come basti la benché minima sollecitazione, affinché una grande varietà di neuroni, disseminati nei più remoti recessi di entrambi gli emisferi, producano la complessa combinazione di cariche elettriche che noi amiamo definire “pensiero”. Nell’opinione della maggior parte dei maestri d’arti marziali, dunque, il punto più importante del corpo umano è il dāntián 丹田 (o dantien) punto sito nell’addome e baricentro effettivo di ogni tipo di movimento del corpo umano. Luogo da cui trarrebbe l’origine il flusso del Qì 氣, lo spirito, per irrorare tutte le membra e arrecargli il dono del movimento vitale. Esiste tuttavia una scuola parallela, di cui si parla molto meno spesso, secondo cui la chiave per raggiungere uno stato superiore dell’esistenza sarebbe focalizzare la propria attenzione non su questo punto sopravvalutato della propria fisicità, bensì poco più in basso. In corrispondenza dei genitali.
Ciò ha una precisa ragione evolutiva, chiaramente comprensibile grazie all’uso della pura logica: cos’è per la natura dopo tutto un essere vivente, se non il veicolo per la propria stessa riproduzione? E nulla più, purtroppo… Nella maggior parte delle specie animali sottoposte all’osservazione degli etologi, la senescenza inizia a manifestarsi nel momento stesso in cui cessa la capacità di procreare. In nessun animale questo è più evidente che nel dramma dei salmoni, che periscono en masse pochi minuti dopo l’attimo della suprema frenesia. Mentre le grandi tartarughe di terra, vivendo a un ritmo rallentato, possono fare figli fino all’età di 80, 90, 100 anni. E proprio per questo, riescono a osservare con sguardo clinico anche svariate generazioni umane. Nel Kung Fu di Shaolin, quella poderosa collezione di tecniche ed idee che seppe trasformarsi, nei secoli, in un polo di riferimento su scala globale dei più alti picchi raggiunti (in tutti i sensi immaginabili) dalle discipline più o meno segrete delle arti marziali d’Oriente, l’imitazione delle qualità animali è uno dei fondamenti stessi della Verità. A tal proposito, vi siete mai chiesti perché mai una comunità di monaci buddhisti derivati dalla disciplina dell’eremita Bodhidarma, dediti per dogma all’importanza della non-violenza, abbia dedicato la propria stessa esistenza alla produzione di una classe guerriera letteralmente invincibile in battaglia, sia nel combattimento a mani nude che quello effettuato mediante l’uso di spietate armi? La risposta è che una simile potenza, per loro, non nacque da principio a seguito di una ricerca intenzionale. Essa derivò, semplicemente, dallo strumento filosofico della meditazione. Persino adesso, se voi stessi decideste di svuotare del tutto la mente, ed iniziaste a concentrarvi sul nulla (che poi altro non sarebbe, che il tutto) in breve tempo iniziereste a percepire il ritmo del vostro stesso respiro. Lentamente, gradualmente, iniziereste a controllarlo in modo conscio, ovvero, per usare un termine stereotipato, manuale. Ecco: è proprio questo che significa, utilizzare a pieno il potere della propria mente.
Fatelo per almeno due ore al giorno, da principio. Fatelo per otto, una volta acquisita sufficiente pratica, quindi 12 e ancor di più. Fatelo mentre poggiate i piedi in equilibrio sopra quattro uova di gallina, senza romperle, grazie all’innata leggiadria riconquistata della vostra fisicità. Fatelo sotto lo scroscio di un’eterna cascata, che ricada con tutto il suo peso sulle vostre spalle, diventate rigide come la pietra. Quindi, una volta raggiunto il controllo della gemma segreta che è nascosta nel vostro corpo, dirigetene il potere nella punta delle vostre dita. Ecco, ora esse sono pure e limpide come il diamante. Esse distruggeranno il velo dell’illusione. Nessun avversario potrà mai riuscire a resistergli. purché egli non possegga lo strumento di una tecnica perfettamente contrapposta. Perché un calcio nelle palle, resta pur sempre un calcio nelle palle. A meno che…
La presenza inamovibile del pellicano educato
Un inchino, un inchino. Scuote la testa. Ribalta gli occhi e chiude le strane palpebre trasversali. C’è una diretta correlazione, nell’habitat sparsamente popolato dall’enorme Balaeniceps rex, tra esso, i pesci polmonati dell’ordine dei dipnoi e la pianta di papiro. Questo non è certo un caso, visto come l’uccello in questione si nutra primariamente dei primi ed usi la seconda per fare il nido. Nei momenti occasionali in cui sceglie di muoversi dalla ponderosa posizione neutrale. Secoli fa, quando la sua popolazione totale non si era ridotta a soli 9.000 esemplari distribuiti tra Uganda, Ruanda, Congo, Tanzania ed il nord dello Zambia, doveva costituire una vista piuttosto comune tra i popoli di questi luoghi, che lo catturavano facilmente per farne un pasto luculliano; dopo tutto, stiamo parlando di un’animale alto più di un metro e mezzo dal peso di fino a 7 Kg. Mentre oggi, nello scorgerlo esplorando il terreno paludoso al confine della savana, sarebbe giustificato essere colti da una forte ondata di dissonanza: eccolo lì, perfettamente immobile. Un bambino con la maschera, uno stregone avvolto nel suo mantello. La cicogna dal becco a scarpa, che in realtà secondo studi di classificazione recenti dovrebbe appartenere all’ordine dei pelicaniformi, non si comporta come un comune uccello, non ne ha la aspetto né il contegno. Per le dimensioni notevoli, ma anche a causa della sua postura straordinariamente verticale, e l’inizio delle ali, che viste da davanti sembrano braccia incrociate dietro la schiena. Poi c’è la piccola questione del suo sguardo fisso e indemoniato che, incidentalmente, potrebbe anche bucare una parete.
C’è un che di preistorico, in questa creatura, che sembra prescindere le divisioni attuali tra le specie. Tutto, in essa, si configura in qualità di un riferimento diretto agli antichi dinosauri volanti, come lo pterodattilo o il quetzalcoatlus. Il che ha gettato per lungo tempo nello sconforto intere schiere di scienziati, che hanno lungamente faticato nel tentativo di trovargli una posizione precisa nell’albero della vita. Il fatto, da sempre estremamente problematico, è che il Balaeniceps non ha vicini parenti nel catalogo delle specie attualmente in vita. Tranne, secondo alcune teorie, l’umbretta o uccello martello (Scopus umbretta) dell’Africa Subsahariana e del Madagascar, che supera difficilmente il mezzo metro di lunghezza. Ma come dice il naturalista Cottam (1957) non ha molto senso mettere in relazione un uccello dalla genesi incerta ad un altro. L’unico effetto ottenuto da una simile prassi, generalmente, è infittire il mistero. Come se non fosse già abbastanza profondo, parlando di un animale che appare come una commistione di elementi provenienti da specie diverse, alla maniera di un criptide mitologico o il disegno di un artista della fantasy moderna. Le lunghe zampe degli aironi abbinate ad un collo relativamente corto, l’apertura alare paragonabile a quella di un condor (230-260 cm!) e il grosso becco dalla forma estremamente peculiare, che è una caratteristica appartenente soltanto a lui. Paragonata per ovvie ragioni a una scarpa, ma anche talvolta a una balena (altro nome dell’uccello: whalehead) per la forma vagamente idrodinamica, derivante in realtà da esigenze specifiche di tutt’altro tipo. Tale strumento primario per la sopravvivenza, in effetti, è un vero capolavoro dell’evoluzione, con una capienza sufficiente a dragare il fondale dell’acqua preferibilmente stagnante, dove i pesci devono restare più attivi per procurarsi l’ossigeno di superficie, e mortalmente affilato, per decapitare la preda in un semplice assalto letale. Il vistoso rostro posizionato in corrispondenza della parte anteriore dello stesso, infine, assicura che nessuna vittima di questo insolito predatore possa sfuggirgli con facilità. Proprio tale caratteristica, per inciso, lo accomuna da vicino al familiare e ben più diffuso pellicano. Ma le somiglianze con il candido pescatore di buona parte dei mari della Terra, dalla temperata Tasmania alle acque semi-ghiacciate del Canada, non vanno molto più avanti di così. Esso non possiede, in effetti, lo spaventoso cipiglio del Balaeniceps, non ha lo stesso rapporto passivo con gli eventi e le situazioni della vita, che lo portano a sollevarsi in volo soltanto se assolutamente necessario, ed al massimo per qualche centinaio di metri. Questo emblema vivente dei calzolai africani, sotto numerosi punti di vista, percorre l’anacronistica leggenda di se medesimo.