Chi ha mai detto, o anche soltanto pensato che ricostruire i crismi della società contemporanea sarebbe stato semplice, dopo il trascorrere di quel momento esiziale che segnerà la fine di ogni cosa? Dopo i conflitti armati, l’auto-annientamento, la catastrofe ambientale seguita da miseria e disordini civili per almeno due, quattro generazioni condannate a vivere di sforzi quotidiani e privazioni pressoché costanti. Così come sperimentato largamente dall’incolpevole popolazione di Goma, città di medie dimensioni sul confine orientale della Repubblica Democratica del Congo, la cui storia contemporanea è stata un susseguirsi di momenti poco conduttivi ai risvolti edificanti dell’esistenza: prima il genocidio rwandese nel 1994, seguito dalle due guerre del 1996 e 1998. Quindi lo sciame eruttivo del vulcano Nyiragongo nel 2002, sotto la cui ombra erano stati disegnati, molte generazioni fa, i confini di questo luogo idealmente ameno. Il che avrebbe lasciato, a seguito delle colate laviche, la pioggia di lapilli ed i sommovimenti tellurici, una rete infrastrutturale profondamente ed ampiamente danneggiata, compromettendo in modo significativo le potenzialità logistiche di questo demograficamente affollato e labirintico centro metropolitano dell’entroterra. Dalla più totale impossibilità di muoversi con biciclette convenzionali, semplicemente troppo fragili e leggere, al costo eccessivamente elevato di cui farsi carico per l’acquisto di veicoli dotati di sospensioni e pneumatici adeguati alle circostanze, ebbe origine una sorta di paralisi che pareva destinata a gravare sulla testa della popolazione, abbattendone l’economia e costringendo molti a ritornare a vivere nelle campagne circostanti. Mentre i membri più anziani delle famiglie cominciavano perciò a muoversi in tal senso, i loro figli e nipoti si fecero i fautori di un’approccio al tempo stesso innovativo e tradizionalista alla questione. Agevolando la trasformazione, relativamente graduale, di quella flotta spropositata di carriole e carretti usati per prolungare l’agonia logistica del loro luogo di nascita con qualcosa di già conosciuto, ma difficilmente operativo nelle quantità che stavano apparendo un giorno dopo l’altro lungo il tragitto serpeggiante di una simile rete disagiata: chu-ku-du era il suono che producevano ed anche il nome scelto per definirli, fin dai remoti anni ’70 in cui, si dice, furono inventati dal portoghese immigrato in Angola nella città di Uige, che ne aveva costruito il primo prototipo funzionale a tutti gli effetti. La risposta a una domanda che aleggiava sostanzialmente nell’aria di quell’epoca, su come avrebbero potuto i nativi africani provvedere alle necessità di trasporto delle merci e beni di un contesto sui confini della modernità, senza le flotte di furgoni ed altri mezzi di trasporto possedute dalla maggior parte dei paesi industrializzati. Quesito per rispondere al quale egli avrebbe posto assieme due piccole ruote di legno ad un asse orizzontale, sormontato da una forcella col manubrio simile alle corna di un toro. E l’aspetto complessivo vagamente riconducibile a quello di un monopattino sovradimensionato, benché fossero proprio le proporzioni a cambiarne radicalmente le potenzialità e doti funzionali inerenti. Così che, a quei tempi in quantità piuttosto limitata, aveva iniziato a girare per le strade comuni la nuova figura professionale del chukodista o chukodour, una sorta di ibrido tra facchino e tassista, il cui gesto maggiormente riconoscibile consisteva nel posizionare un ginocchio sull’apposito cuscino costituito da una pantofola di gomma fissata all’assale del mezzo, mentre l’altra gamba si occupava di spingere innanzi il suo veicolo a due ruote. Opportunamente ingombro, nella maggior parte dei casi, di una quantità di merci fino a un massimo di 800 Kg. Abbastanza per assecondare le necessità di un’economia moderna, priva di quei mezzi e strumenti che noi siamo abituati a dare largamente per acquisiti…
veicoli
Ziggy è il robot che precede l’auto elettrica per caricarla in un qualsiasi parcheggio
Si è soliti affermare che un qualsiasi tipo di tecnologia non è davvero alla portata di ciascuno finché non diventa democratica, pervadendo e diffondendosi ad ogni possibile diverso strato della società civile. Il che si applica a suo modo sia alle soluzioni innovative che alle fonti di alimentazione, intese come la materia prima che permette di far correre il cavallo metaforico della tecnologia incombente. Così come le normali stufe a legna, o le caldaie a vapore di epoca Vittoriana, non poterono realmente marciare a regime prima della funzionale implementazione di un sistema per la raccolta ed approvvigionamento, rispettivamente, di legna e carbone, lo stesso dilemma non può fare meno di sussistere nell’epoca corrente per quanto concerne la trasformazione del motore principale dei trasporti contemporanei, dal sistema termico a quello che consiste di galvanizzare una bobina rotante. Col che non voglio dire, certamente, che il concetto dell’auto elettrica sia in alcun modo totalmente nuovo, laddove sin dall’epoca in cui si cominciava a immaginare la scomparsa del cavallo dalle strade urbane, Gustave Trové riusciva a presentarne il primo esempio nel 1881 all’Esposizione dell’Elettricità di Parigi. Mentre un veicolo parimenti alimentato avrebbe continuato a detenere il record di velocità su quattro ruote almeno fino all’inizio del Novecento. Ma poiché tiranna in ogni tipo d’organizzazione pratica è la logica delle dinamiche di scala, ogni approccio d’implementazione sino a quel momento non può che essere considerato meramente preliminare. Dinnanzi all’imminente prospettiva di migliaia, e poi decine di migliaia di questi mezzi a motore per decine di chilometri quadrati una volta che non potrà esserci alta scelta, con la conseguente necessità di riprogettare la cognizione stessa del concetto stesso di una città. Oppure… Semplicemente… No?
Colonnine ovunque, colonnine da nessuna parte. Parcheggi con settori recintati, dedicati unicamente a chi possiede la scintilla prometeica di Edison deificato sotto il cofano del proprio metallico destriero. Un problema, soprattutto, in questo periodo di transizione, in cui soltanto gli svantaggi gravano sulla stragrande maggioranza della popolazione, ed un approccio in grado di ridurre un tale impatto potrebbe essere una via d’accesso alla serena convivenza tra questi due estremi. Il che potrebbe anche costituire il fondamento operativo alla base del sistema semi-autonomo ZiGGY della compagnia californiana EV Safe Charge, così denominato forse più per un omaggio estemporaneo a David Bowie che in osservanza a qualche tipologia di misterioso acronimo (del resto, ditemi voi di che cosa!) essenzialmente identificabile come un ingombrante cassone su ruote, dotato tuttavia di un suo notevole sistema d’intelligenza artificiale. Sufficientemente pronto da riuscire a interpretare le chiamate ricevute tramite un innovativo tipo di applicazione mobile a corredo, utilizzata da ipotetici abbonati futuri per segnalare il proprio arrivo presso un luogo di stoccaggio ed abbandono temporaneo delle proprie auto, prima di recarsi a sbrigare le proprie faccende in centro o altri luoghi affollati della vasta metropoli brulicante. Con conseguente risveglio delle sue sinapsi robotiche e relativo impianto semovente, naturalmente elettrico, per spostarsi dalla stanza in cui si trova fino al posto macchina prenotato, con gli schermi accesi per mostrare in rapida sequenza immagini e spot pubblicitari di varia natura. Finché all’arrivo dell’auto elettrica potrà finalmente farsi da parte, assolvendo il singolare compito per cui è stato costruito…
Auto elettriche con il pantografo da tram: il futuro del car-sharing negli anni ’70
Guido la candida cabina lungo il corso del Keizersgracht, verso un piacevole pomeriggio di shopping e un pranzo con gli amici. Dalle ampie finestre che circondano la postazione, scorgo agevolmente fino al minimo dettaglio dei dintorni, in modo incrementato ulteriormente dalla marcia rallentata del mio stretto e verticale mezzo di trasporto, almeno per qualche minuto ancora. Raggiunta una distanza ragionevole dalla meta finale, quindi, scorgo il parcheggio designato meta ultima della trasferta, dove con rapida manovra del volante, instrado la curiosa vettura sotto la rotaia che si occuperà di ricaricarla. Odo il suono, apro lo sportello. Un rapido passaggio della chiave magnetica per confermare la riconsegna, mentre un computer all’altro capo della linea telefonica si occupa d’inviare il conto di un centesimo al minuto ai contabili della mia banca. Faccio un passo e sono libero, senza un minimo pensiero in merito ai disagi dell’autista o l’inquinamento.
Perché il progresso tecnologico possa verificarsi in maniera improvvisa, occorre in genere la convergenza di un minimo di tre fattori: la necessità, l’intenzione e l’ingegno. La prima da parte del grande pubblico, opportunamente percepita dall’opinione comunitaria in funzione di un qualche disagio inerente; la seconda opportunamente veicolata dal consorzio di coloro che decidono, ovvero politici, consiglieri, amministratori comunali; ed il terzo, generato dall’enorme potenziale cogitativo del potentissimo cervello umano, dimensione parallela ove ogni cosa viene concepita, trasformata, instradata in un sentiero logico apparente. In altri termini, nessun grande balzo in avanti è possibile in tal senso, a meno che operi al timone un qualche tipo di persona eccezionale, quello che viene convenzionalmente definito un “genio”. Certe volte, quindi, il contributo di costui alla società indivisa viene messo sopra un piedistallo, offrendogli ringraziamenti imperituri. All’opposto il caso in cui sia rifiutato categoricamente, con conseguente disonore ed accantonamento di ogni possibile cambio di paradigma (nella quale contingenza, convenzionalmente, si usa dire: “Peccato, è nato un paio di generazioni troppo presto). Molto più frequente di entrambe le alternative, d’altra parte, è un tipo di occorrenza situata tra gli estremi di questi due punti, magari parzialmente accettabile per i suoi contemporanei, contrariamente all’opinione postuma dei loro discendenti. Oppure funzionale al 100%, ed invero utile a voltare pagina, se non che l’usuale resistenza ed inedia della società, come potenti elastici, l’avrebbero portata dolorosamente indietro.
Mettiamo quindi sotto i nostri cannocchiali questa città di Amsterdam verso la fine degli anni ’60, per avere un significativo laboratorio con spunti d’analisi sulla nostra attuale condizione degli ambienti urbani. Affinché basti osservare un tale mondo, tramite i filmati d’epoca e il racconto della gente, per notare come l’avvento dell’automobile, e la frenesia collettiva assieme al desiderio molto umano di possederne una, possa rapidamente stritolare un sistema che per tanti anni aveva funzionato senza il benché minimo inciampo. Quello espresso da un antico dedalo di strette stradine, canali, vicoli e piazzole dal parcheggio quasi inesistente, un tempo percorso dai suoi cittadini unicamente a piedi, oppure in bicicletta. Finché la quiete non venne interrotta dal suono di un singolo motore, poi alcuni, infine moltissimi, verso la creazione di quel tipo di caos estremamente familiare che, per molti versi, sussiste ancora. Un disegno dal quale sarebbe emersa, laboriosamente, la figura di un possibile salvatore…
Megaspirapolvere d’Olanda: ai festival come in autunno, tra gli alberi le foglie
“Ma si, dopo tutto giunti a questo punto… Che differenza può fare?” Il milionesimo partecipante al primo grande festival musicale in calendario d’Olanda, per lo meno in ordine di tempo, si guarda intorno con gli occhi socchiusi e l’aria circospetta. Alle letterali migliaia di espressioni assorte catturate dal concerto, al servizio d’ordine distante e come al solito distratto. Quindi preso l’ultimo sorso dalla sua lattina di birra preferita, allunga il braccio con gesto magniloquente. E aprendo le dita, la lascia cadere a terra. Di certo, in un mondo ideale o quasi, un tale oggetto avrebbe rotolato senza un suono in mezzo all’erba sgombra, per essere immediatamente calpestato ed appiattito dall’ondeggiante danza dei presenti. Ma poiché siamo al Paaspop, dove l’educazione ambientalista di un popolo molto civile viene temporaneamente accantonata, l’oggetto d’alluminio cade in mezzo a molti altri, entrando a far parte di un sostrato ininterrotto e stranamente soffice al calpestio.
Molte ore dopo al tacere degli altoparlanti, il palcoscenico e gli spalti ormai del tutto silenti, l’addetto alle pulizie contempla la portata del disastro: un ammasso policromo d’oggetti, recipienti, piccoli contenitori. E fazzoletti, buste di plastica, frammenti d’indumenti e addirittura qualche tenda, addirittura. È un preservativo, quello? Poco importa. Con un cenno a lato che ricorda dolorosamente quello di coloro che hanno dato il proprio contributo individuale all’Apocalisse, fa capire al suo collega che è giunto il momento di farsi avanti. Un rombo di motore suona in mezzo all’aria tersa del mattino, spaventando stormi di gabbiani intenti a setacciare la discarica in cerca di cibo. Si tratta dell’iconico grido di guerra del semovente porta-attrezzi a tre ruote FM-3 della Widontec. Con mano ferma sul volante, Herman Eskes fa il suo ingresso nell’arena, procedendo a un ritmo lento ma sostenuto. Il veicolo in questione, dapprima procedendo in linea retta, disegna un arco lungo il manto ininterrotto della spazzatura. E dove esso è transitato, in modo sorprendente, torna a intravedersi il verde di quel prato ormai del tutto dimenticato. Potremmo chiamarlo, se concesso, l’imprescindibile potenza del risucchio. Un’applicazione fisica di quel concetto secondo cui qualsiasi cosa venga immessa in un sistema chiuso tramite un potente getto d’aria, debba sempre necessariamente giungere all’interno del recipiente finale. Ovvero in questo caso, quello posto sopra il retro del curioso autocarro dal peso a vuoto di 7 tonnellate. Conveniente, nevvero? Siate attenti, tuttavia, a non cadere nella trappola di scambiare il marchingegno soprannominato commercialmente con l’appellativo “Hermanes” come l’ennesimo esempio di scopa meccanica da marciapiede, il cui principio di funzionamento tradizionale risulterebbe d’altra parte largamente inefficace alle prese con l’impressionante quantità e varietà di spazzatura che la gente ha accatastato in seguito alla festa del Paaspop. Qui siamo alle prese con una vera e propria versione sovradimensionata, ed attentamente perfezionata, del più utile e diffuso strumento elettrico per la pulizia di casa. Potenzialmente l’aspirapolvere (su ruote) più potente al mondo…