Le curve corna e il folto simbolo sul collo del Re Caprone

Distribuiti con singolare parsimonia, i simboli del potere figurano attraverso le schiere del mondo animale sulla base di un criterio largamente arbitrario, in larga parte oggetto di multiple considerazioni estetiche di tipo largamente soggettivo. È più regale, ad esempio, il gallo con la propria cresta o il pesce dalla pinna ornata? L’insetto dotato di antenne biforcute o il cobra che ha il cappuccio aperto in attesa di poter colpire? Alcuni, d’altro canto, preferiscono le corna, simbolo di distinzione ed un particolare tipo di saggezza, spesso incorporato nell’immagine del diavolo ed ogni circostanza ad egli collegata tra i ducati dell’Inferno sotto i nostri piedi. Ma è salendo, e salendo fino in cima alla catena o cordigliera, che più di ogni alternativa è stata definita a più riprese il tetto “del mondo” si è da sempre presentata l’occasione di vedere l’impossibile a parole: un capro saltellante, agile, maestoso, in cui la doppia preminenza cranica è direttamente accompagnata dal maestoso simbolo della criniera. Che i locali erano soliti chiamare tahr, per analogia col vicino ma più ordinario capricorno dell’Himalaya. Sotto qualsiasi punto di vista rilevante, un erbivoro leonino, minacciato nel suo legittimo contesto di provenienza al pari del supremo sire della savana. Il che offre molto da pensare, quando si considera la tipica natura della sotto-famiglia dei Caprini, esseri ragionevolmente prolifici, adattabili, dotati di singolari risorse per la sopravvivenza. Aprendo una riflessione merito all’estensione e la portata delle attività di caccia non sostenibile in questo paese remoto, per non parlare della riduzione del territorio a disposizione, motivata in modo significativo dalla poca compatibilità di questa tipologia di animali con greggi e armenti di proprietà dell’uomo. Così come le sue coltivazioni vegetali, anche soltanto per un attimo lasciate incustodite. Questo perché il vero tahr, il cui nome scientifico Hemitragus jemlahicus può essere ricondotto al concetto di “mezza-capra nepalese” è sostanzialmente una macchina per la digestione dal peso di 75 Kg massimi, capace di trarre sostanze nutritive da qualsiasi erba, foglia o arbusto dell’ambito rurale, causando non pochi grattacapi a chiunque potesse ritenere di fare un utilizzo alternativo del territorio. Il che non avrebbe impedito, dall’inizio del secolo scorso ed a seguire, l’esportazione di una certa quantità di esemplari verso territori geograficamente distanti, ignorando o sottovalutando l’effetto che ciò avrebbe avuto sugli ecosistemi locali. Siamo qui di fronte, dopo tutto, al raro esempio di una creatura giudicata vulnerabile nelle sue regioni endemiche ed al tempo stesso invasiva altrove. Quanto spesso capita, a tal proposito, di un animale indicizzato dallo IUCN e sottoposto all’eliminazione sistematica di svariate migliaia di esemplari ogni anno, nel singolo paese della Nuova Zelanda? Non che tale attività con la sanzione del governo sia stata implementata senza una quantità spropositata di proteste, da parte di tutti coloro che sull’invasione del caprone asiatico sembrerebbero aver costruito un’industria redditizia e fiorente…

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E-6 Mercury, la coda bellicosa del serpente atomico statunitense

Se nella scacchiera di un ipotetico scenario da fine del mondo, la trasformazione degli Stati Maggiori nazionali in altrettanti pezzi mobili vedrebbe l’Air Force One assumere il ruolo di re incontrastato, il cosiddetto Doomsday Plane (Aereo dell’Apocalisse) Boeing 747 E-4 sarebbe senza dubbio la sua regina. Un potente sistema di organizzazione strategica, che accompagna il presidente con a bordo il segretario della difesa, sistemi per analizzare l’andamento del conflitto e potenti dispositivi di comunicazione su scala globale. Ma in ogni esercito sublimato che si rispetti, sia questo allegorico piuttosto che materialmente funzionale, lo schieramento di una parte non può dirsi in alcun modo completo senza l’umile base dei pedoni, sostituibili singolarmente, pur costituendo tutti assieme un’importante risorsa sia come contromisura che strumento d’offesa. In tal senso, non sarebbe del tutto errato definire i 16 velivoli Boeing 707 E-6 “Mercury” come i più letali e potenti apparecchi disponibili in questa tipologia di situazioni; perché responsabili nella sostanza del mantenimento di una rete di comunicazione con la triade nucleare. Trasmettendo, di volta in volta, gli obiettivi eletti come punti d’impatto per i missili dell’arsenale più estensivo di una singola nazione al mondo. Il che comporta alcuni singolari e tecnici artifici, soprattutto nel caso dei sottomarini di classe Triton ed Ohio, la cui irreperibilità costituisce un fondamento importante della loro stessa modalità d’impiego. Da qui dunque l’idea, inaugurata già negli anni ’60 con l’implementazione della relativa missione TACAMO (Take Charge and Move Out – “Prendi il comando e scappa”) al tempo condotta da una flotta di trasportatori a turboelica Lockheed EC-130 consistente nell’impiego di un’antenna VLF semplicemente unica al mondo. Da ogni punto di vista pratico, un filo lungo 5 miglia (8 Km) estendibile attraverso un apposito foro al centro della coda, al fine di bucare con l’eventuale segnale trasmesso una delle barriere meno permeabili di questo pianeta: la superficie dell’oceano stesso. Dispositivo il cui impiego corretto richiede particolari accorgimenti nell’assetto ed il comportamento dell’aeroplano, affinché possa riuscire ad estendersi il più possibile in senso verticale, piuttosto che venire trascinata orizzontalmente dall’aeroplano. Venendo estesa ad una velocità distante soli 19 Km/h dallo stallo per un jet di queste dimensioni, con un’inclinazione delle ali pari a 25-40 gradi, mentre il velivolo inizia compatibilmente a volare in tondo. In una serie d’infiniti circoli spiraleggianti, finché il risultato finale perseguito con la costruzione di una simile ragnatela non potrà giungere a compimento…

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L’ultima fermata dei semiautobus, connubio imperfetto tra due mondi

Bilanciato sull’obliquo piatto della convenienza, praticità, semplicità d’impiego, il trasporto pubblico di massa rappresenta al giorno d’oggi uno dei molti aspetti fraintesi dell’urbanistica moderna. In cui l’offerta dei costruttori di veicoli stradali parrebbe essersi fossilizzata su un tipo di carrozza a motore particolarmente specifica, dotata di quattro ruote, dalla forma di un parallelepipedo allungato, egualmente funzionale nel trasporto di passeggeri in piedi, e seduti. Il che rientra nel pratico piano di standardizzazione dei modelli: scendi da un aereo, al termine di un lungo viaggio, e riconoscerai sempre un autobus per quello che è davvero. A meno che tu sia arrivato, magari spostandoti anche addietro nel tempo di cinque o sei decadi, nella città di Havana, Cuba. Probabilmente l’ultimo luogo in tutto il mondo ad aver mantenuto, assieme ad altre tradizioni imposte dalla particolare situazione socioeconomica di quel paese, l’approccio alternativo di gestione dell’umana problematica, per lo spostamento di un certo numero d’individui da una fermata all’altra del grande circuito cittadino. Il che ci porta, senza ulteriori indugi, al segno e l’espressione di un’idea: perché mai, dopo tutto, camion e corriere dovrebbero essere qualcosa di fondamentalmente diverso? Oggetti inanimati e persone, dopo tutto, si assomigliano dal punto di vista logistico se queste ultime si trovano in condizioni intenzionali di stasi. Come all’interno di uno degli ultimi camellos ancora in grado di muoversi, unione di un distintivo tipo di rimorchio con motrici provenienti in genere dagli Stati Uniti. Che qualcuno riusciva, storicamente, a far filtrare attraverso le maglie dell’embargo con la terra caraibica del socialismo per definizione. E il pragmatismo in base alla necessità: difficile immaginare d’altra parte in quella terra, tra gli anni 70 ed 80, un altro modo per spostare una cinquantina di persone alla volta (o anche di più scegliendo di accantonare, come spesso capitava, i limiti normativi in materia di sicurezza) entro un cabinato dalle iconiche due “gobbe” che rappresentavano la risultanza di una sezione centrale ribassata, al fine di facilitare la salita a bordo del gremito popolo dei passeggeri che volevano accorciare le distanze. Nient’altro che uno dei vantaggi possibili, rispetto all’originale concezione dei trasporta-gente cittadini, offerta dall’oggi accantonata e quasi dimenticata categoria dei cosiddetti trailer bus, o semiarticolati che percorsero le tratte circolari nei capolinea di svariate città nel mondo. Senza tuttavia riuscire mai a cambiare il paradigma imposto in parte dalla convenzione, nonché il senso pratico che tende a risultare dalle problematiche vicende pregresse…

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Il vestito invisibile del pipistrello, nudo imperatore nelle grotte dell’Asia orientale

La forma ideale di una creatura del mondo naturale non è sempre facile da determinare utilizzando unicamente l’impressione che se ne ricava. Sarebbe assolutamente logico, persino condivisibile, immaginare per i pipistrelli un paradigma simile a quello degli uccelli, glabri soltanto al momento della nascita e per i qual l’utilizzo delle piume è necessario alla sopravvivenza, in quanto un requisito imprescindibile al fine di poter spiccare il volo. Laddove le loro controparti che decollano dopo il tramonto dell’astro diurno, per lo meno nella stragrande maggioranza dei casi, volano soltanto grazie all’aerodinamica e la forma stessa del corpo, con ali membranose costituite da un sottile strato di pelle e l’unico rivestimento di una peluria fine, utile soltanto a proteggerli dal freddo e le intemperie del ciclo annuale dei mesi. Come aeroplani progettati con finalità designate all’interno di una galleria del vento, ogni altro aspetto di questa fisicità è la precisa risultanza delle forme necessarie ad instradare ed imbrigliare il flusso che genera portanza. I pipistrelli dalle ali corte ed ampie, ad esempio, sono più agili ma volano con una certa cadenza rallentata. Quelli che hanno arti sottili ed appuntiti come il Cheiromeles torquatus, risultano invece particolarmente veloci e decisi nello svolgimento delle proprie attività di foraggiamento. Che cosa succede, dunque, rimuovendo l’inutile pelliccia dall’equazione? Nella qui presente creatura definita per analogia con altre specie il “pipistrello bulldog nudo” dal suo primo classificatore nel 1824, l’americano Thomas Horsfield (1773-1859) è possibile trovare una risposta parziale all’importante domanda. Non fino in fondo perché, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il chirottero in questione presenta coperture irsute in vari punti del proprio corpo, inclusa la testa, la coda facilmente distinguibile capace di muoversi liberamente, il collo e le zampe davanti. Benché la pelle scoperta del resto del suo corpo basti a renderlo il singolo micro-pipistrello insettivoro più scattante della Terra (anche il più grande, con 138 mm di lunghezza) che fuoriesce dalle sue caverne come un missile a ricerca per ghermire termiti, ditteri, libellule e altri insetti, individuati grazie all’ecolocazione e trangugiati direttamente durante il volo. Un’attività che risulterebbe già abbastanza impressionante, nella sua pur innegabile utilità ecologica, senza menzionare la partecipazione contemporanea di fino a 20.000 esemplari ad un singolo evento, come documentato almeno una volta negli immediati dintorni di una vasta caverna in Borneo. Risultando una vista abbastanza frequente nell’intero estendersi di un areale fino alla Thailandia, la Birmania, le Filippine e Singapore da giustificare la famosa espressione di un articolo sull’argomento del 1979, in cui un giornalista dello Strait Times affermava: “È un volatile spennato, è un ratto maleodorante, no, è il pipistrello bulldog.” Uno strano modo, senz’altro, per celebrare una delle creature maggiormente riconoscibili di questo vasto habitat di provenienza…

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