Il giovane dalla capigliatura interessante si avvicina al ponte sul fiume Yarra, nel mezzo della verdeggiante città di Melbourne, estremo meridione d’Australia. Nelle sue mani c’è un uncino di metallo, unito ad una corda dall’aspetto decisamente resistente. L’uomo si guarda intorno, con un sorriso sghembo stampato sul volto. Quindi scruta attentamente le acque sottostanti, ed apparentemente soddisfatto, getta il suo amo nelle torbide profondità. Qualche secondo dopo, inizia a tirare con forza, mentre ciò che emerge gorgogliando è un vistoso manubrio giallo. Seguito da un sellino, quindi una ruota e poi l’altra: l’oggetto è una bicicletta. Anzi per meglio dire, si tratta di una oBike. Mettendosi in posa per la telecamera, l’autore di tutto questo la dispone accuratamente sul ponte. “Bravo!” Grida qualcuno tra il pubblico. Si sentono applausi distanti. Lui prosegue per qualche metro, quindi la scena si ripete a partire dall’acqua. Completa di lancio, pesca miracolosa e ringraziamenti…
In tutte le società utopiche teorizzate dai filosofi e sociologi occorre poter tollerare un certo grado di anarchia. Nella concezione del tipo di vita dell’aggregazione ideale, in uno stato di equilibrio ed assoluta serenità, le persone agiscono sulla base di un senso di auto-coscienza che prescinde il mero concetto di legalità. È come una versione laica (o non…) del concetto di “ama il tuo prossimo come te stesso” che permetta di eliminare l’imposizione della legge, la vigilanza continua, il senso di vigilanza estrema che condiziona ogni rapporto d’interscambio con gli sconosciuti. Fino al superamento, del concetto stesso di scambio. Se non esiste più la proprietà privata, che fine faranno le ingiustizie? Condividere una mucca significa che tutti avranno il latte. Oppure nessuno. E così avviene pure, per la bicicletta. Un mezzo di trasporto per più persone: questo è il concetto alla base del cosiddetto “x” sharing, applicabile anche alle automobili, i motorini elettrici, i monopattini Segway dalle grandi ruote autobilancianti… Non è solo un inglesismo, poiché la differenza col concetto di noleggio è che non sopravviene mai l’attimo della restituzione. Una volta finito di spostarsi, il veicolo si lascia semplicemente lì, dove càpita, metaforicamente nelle mani del suo prossimo utilizzatore. Perfetto. O quasi: questo si finì per pensare negli anni ’60 all’epoca delle prime sperimentazioni, quando in alcuni campus universitari le bici generosamente messe a disposizione degli studenti iniziarono progressivamente a sparire, causa il pessimo comportamento di alcuni. In una sorta di effetto domino dell’autodistruzione collettiva, il progetto fu irrimediabilmente abbandonato. Finché verso la fine della prima decade del 2000, un miracolo della tecnologia: la gente che inizia a portare in tasca un dispositivo informatico che è al tempo stesso terminale di Internet, e un localizzatore GPS. Con un apparecchio simile, si possono fare molte cose! Cose come trovare istantaneamente dei monocicli sparsi per la città, farsi riconoscere presso una serratura automatica dotata di Bluetooth con la propria identità virtuale e segnalare alla grande Rete il momento in cui si è finito di usufruire del mezzo, pagando il prezzo di sharing e bloccando di nuovo la serratura in attesa del prossimo abbonato. Se ha funzionato (più o meno) in Cina, di certo dovrà avere un certo margine di efficacia anche nel civilizzato Occidente, dove le norme del vivere civile sono notoriamente meno permeabili ed esclusive, nevvero? Questo sembrava aver pensato la compagnia O Bike di Singapore, nel momento in cui decise di espandersi fino alla terra dei canguri con questa importante sperimentazione nella metropoli melbourniana.
Ma la realtà dei fatti, per qualche ragione, sembra aver preso una piega diametralmente opposta. E la spettacolare pesca di Tommy Jackett, filmmaker ed a tempo perso l’ormai proverbiale “eroe che ci meritiamo” non è che un momento simbolo di un problema più vasto. In tutte le città dotate di servizi di vero bike sharing, sia con partecipazione pubblica che portati avanti da compagnie private, la storia è più o meno sempre la stessa: dopo un primo periodo di acclimatamento, i velocipedi iniziano ad essere ritrovati nel fondo dei corsi d’acqua, sopra gli alberi, dentro le fontane… Quasi come il concetto di “parcheggiala dove vuoi” sia stato trasformato in una sorta di sfida, che mira a mettere alla prova il senso di collettiva inciviltà. Ben pochi utenti, poi, si preoccupano di usare le aree di parcheggio più idonee, lasciando i veicoli là dove capita, a perenne ostruzione di marciapiedi, stradine, importanti luoghi d’aggregazione e spazi verdi cittadini. È un veleno dei buoni e cattivi sentimenti, che non sembra aver alcun tipo di antidoto sociale…
Cina
Draghi e rane nel più antico metodo per rilevare i terremoti
Nell’ultimo periodo della dinastia Han, considerata una delle più rilevanti e trasformative nell’intera cronistoria della civiltà cinese, una lunga serie di disastri più o meno naturali si abbatté sull’Impero. Registrati minuziosamente dagli storici di corte, essi giunsero ad includere inondazioni, incendi, tempeste e straripamenti, mentre il popolo stesso rifiutava il sacro Mandato Celeste del più potente tra gli uomini, instaurando regimi paralleli e sempre più gravi ribellioni. E mentre il popolo soffriva, facendo eco alle loro richieste d’aiuto, la terra scelse proprio quel momento per mettersi a tremare: dal momento in cui la versione riformata dell’impianto regnante fu spostata presso la nuova capitale di Luoyang nel 23 d.C, fino all’inizio del successivo periodo dei Tre Regni nel 220 d.C, si hanno notizie di almeno 33 gravi terremoti, alcuni dei quali sufficientemente forti da causare danni ingenti e deviare persino il corso dei fiumi. Un susseguirsi di eventi, questo, che difficilmente poteva mancare di suscitare l’interesse e lo studio da parte di alcune delle menti più insigni del panorama pseudo-scientifico di allora. Personalità come Zhang Heng, il rinomato inventore e polimata che era stato allontanato dalla corte nel 123 d.C. per ordine dello stesso imperatore An, suo precedente mecenate, a causa di alcune divergenze in materia della riforma dei calendari in corso di elaborazione, che nell’opinione del sapiente avrebbe causato delle discrepanze cronologiche difficili da compensare. Durante il regno immediatamente successivo di Shun, figlio di An, ritroviamo quindi costui con l’incarico di astronomo di stato, e una paga di appena 600 staia di riso, quello che avremmo potuto definire il minimo sindacale (se fossero esistiti i sindacati) per un rango attribuito dallo stesso sovrano. Così lui, letterato e poeta di fama, mentre coltivava le arti umanistiche non smise mai di elaborare concetti tecnici ed invenzioni che potrebbero permettere, a noi italiani, di paragonarlo ad una sorta di prototipico Leonardo da Vinci: un nuovo tipo di clessidra con la sabbia pressurizzata, il modello della sfera celeste fatto funzionare ad acqua e poi quella che sarebbe rimasta, senz’altro, la sua invenzione più celebre per i molti secoli a venire: una sorta di giara, secondo gli storici odierni di bronzo o altri metalli, decorata con otto figure di piccoli draghi e al di sotto, riproduzioni a dimensione reale di rane.
Per comprendere l’accoglienza che un simile oggetto avrebbe avuto alla sua epoca, occorre immaginare lo scenario dell’intera corte Han riunita, per accogliere i rapporti degli ufficiali periferici ed i loro rappresentanti, mentre ciascuno, a turno, si alzava per camminare tra i suoi colleghi seduti sul pavimento, e andare a prostrarsi dinnanzi allo scranno imperiale, i consiglieri e la figura dello stesso Shun. Sappiamo che era il 132 d.C. e ci è giunta notizia anche di come purtroppo, in un primo momento, il supremo regnante non accolse positivamente la nuova invenzione del matematico, un tempo tenuto in grande considerazione dal suo padre e predecessore. Il problema è che nel corso di queste due successive generazioni di regnanti, la voce popolare secondo cui era iniziata la spirale discendente della lunga serie degli Han si era fatta sempre più insistente, e secondo l’etica cinese di origini confuciane e taoiste, parlare di disastri contingenti era lo stesso che annunciare la pendente fine della dinastia. L’oggetto fu dunque subito accantonato, assieme agli altri tesori tenuti a corte, e secondo alcune versioni del racconto, addirittura il suo inventore imprigionato, affinché non diffondesse ai quattro venti il supposto demerito della corte imperiale. La principale testimonianza giunta fino a noi dell’intera vicenda, il libro sulla fine degli Han (scritto a posteriori nel V secolo da Fan Ye) racconta tuttavia che ad un certo punto nelle vaste sale del palazzo di Luoyang risuonò un tonfo metallico. E che quando il sovrano si recò a controllare, trovò la scena più strana: uno dei draghi del recipiente di Zhang Heng aveva aperto la bocca, e la sfera di bronzo che si trovava all’interno era caduta, finendo dritta tra le fauci spalancate della rana corrispondente. “Ma questo non dovrebbe significare che…” Mormorò tra se e se il non-così-saggio governante, quindi smise di dedicare il suo tempo prezioso all’idea. Trascorsi alcuni giorni, tuttavia, giunse un messaggero ad annunciare l’impossibile verità: un grave terremoto aveva scosso la regione di Longxi ad occidente, ovvero l’esatta direzione indicata dal drago che aveva compiuto il suo gesto. Così Zhang venne liberato e, da quel giorno, ebbe di nuovo accesso a uno stipendio commisurato alle sue competenze e capacità. Il segreto del suo sismoscopio (che non è un sismografo, in quanto incapace di registrare gli eventi sismici) venne tramandato più o meno intatto attraverso le Ere…
L’ascesa e il declino del cane più caro al mondo
Un milione e mezzo di dollari. Non credo che li spendereste per un animale domestico. Del resto, selvaggio non è forse migliore? Che cosa avrebbe mai da guadagnare, un essere a quattro zampe prodotto dall’evoluzione, nel venire incapsulato e condizionato dalle norme dell’umana società? Prototipica è l’immagine, talvolta utilizzata a scopo esemplificativo, del nostro amico cane che fronteggia il suo antenato, il lupo. Candido e tremante, il primo, cupo e minaccioso, gli occhi rossi dalla furia l’altro. Con denti acuminati dal consumo di carne e fresca e talvolta pulsante, laddove Fido è invece abituato a sgranocchiare croccantini e bocconcini e accetterebbe pure, Dio non voglia, venefici (per lui) cioccolatini! Per non parlare dei muscoli e la costruzione fisica, induriti nella bestia dal bisogno di correre col branco fra la neve e in mezzo ai boschi della taiga, ricercando il cibo per se stessi e i cuccioli in un territorio straordinariamente ostile. Un confronto molto facile da ponderare, questo, se si usano 9 su 10 compagni domestici di quest’epoca moderna e urbanizzata. Ma che sarebbe risultato assai diverso, all’epoca dei nostri antenati. Ritornando con la mente all’Era Classica, da Occidente a Oriente, quale pensate sia stata la prima funzione del cane… Se non proprio, quanto segue: spaventare, soverchiare e annichilire il lupo, per garantire la sopravvivenza del bestiame maggiormente vulnerabile in possesso dei padroni. Si dice che il principale cane tibetano sia in qualche maniera simile all’aspetto primordiale della sua genìa, poiché “mastino” o “molosso” è la forma che sarebbe stata giudicata ideale all’epoca della prima selezione artificiale effettuata dall’uomo: una creatura così formidabile, e possente, che nessun animale del suo ambiente d’impiego mai potuto contrastarla in un combattimento alla pari. Superiore, addirittura, al lupo. Per questo la chiamavano Drog-khyi, nel suo paese sopra il tetto del mondo, che significa “cane da tenere legato” in maniera analoga all’antico idioma inglese bandog, usato per gli incroci di razze finalizzate a produrre il più feroce guardiano dell’uscio e del giardino di frontiera americano. Ma che in Himalaya invece, per una endemica limitazione del pool genetico, sarebbe risultato sufficientemente conforme ad una serie di particolari caratteristiche da essere inserito nella FCI (Fédération cynologique internationale) come razza a tutti gli effetti, e nello specifico, una delle più grosse e forti del mondo. Fino a 83 cm al garrese, e 72 Kg di muscoli pelosi, in grado di rappresentare il più prezioso tesoro vivente di una famiglia di pastori o l’intera comunità di un villaggio isolato. Esistevano a tal proposito due varietà del cane, spesso prodotte nella stessa cucciolata e per questo non distinte dalla classificazione occidentale: Do-khyi, il cane “nomade” più scattante e leggero, Vs. Tsang-khyi, il “cane da monastero” un vero e proprio gigante in grado di fare praticamente qualsiasi cosa, tranne muoversi alla velocità del tuono. Persino il suo latrato sapeva risultare particolarmente spaventoso e potente, al punto da gettare lo sconforto nel cuore di un qualsivoglia ladro. Poiché la notte, normalmente, il “cane legato” veniva invece sciolto e lasciato libero di vagare tra l’oscurità, come uno spettro simile a un leone di Foo.
Quello che tuttavia non si sarebbero mai immaginati, neppure i suoi allevatori con una lunga e articolata tradizione generazionale, era che un intero paese estero potesse autodichiararsi all’improvviso “pazzo per il Drog-khyi”, dimostrando di essere disposto a fare pressoché qualsiasi cosa, pur di accaparrarsene un esemplare da esposizione. E con paese intendo, ovviamente, per lo più la classe dirigente, dei cosiddetti nuovi ricchi della Cina, nel cui ambiente ogni bene insolito, non importa quanto specifico nel suo impiego prefissato, può istantaneamente trasformarsi nel simbolo del proprio status e il sangue stesso di una nuova moda, nella quale investire molti letterali milioni di yuan. Dal che si arriva a questo video del 2014 della testata Vice, in cui un inviato percorreva, ad occhi spalancati, le auguste sale dell’annuale fiera nazionale dei mastini tibetani di Yidu, nello Hubei, informandosi per quanto possibile sui pregi e il costo fuori scala di questa nobile ed antica razza. Ed in effetti sembrava, in quel preciso momento storico, che il mastino tibetano potesse solamente continuare a salire. Ma le alterne strade del fato, a quanto pare, gli riservavano il più crudele dei voltagabbana…
La danza delle mille braccia e il suo significato in Cina
Tai Lihua, ballerina rimasta sordomuta all’età di soli 2 anni, è famosa nel mondo per una particolare performance teatrale, diventata veramente internazionale durante lo show della China Central Television per il capodanno lunare del 2005: al rombare di una musica di flauti ed archi, accompagnata da quello che sembra a tutti gli effetti un canto sacro, ella esce da un portale fiammeggiante che rappresenta l’ingresso dell’Inferno, in abiti dorati e con vistosi ornamenti a punta che si estendono dalle dita delle mani. Quindi, rivolgendosi frontalmente al pubblico, cammina fino al bordo più estremo del palco, raccogliendo le mani in un gesto elegante all’altezza del suo petto. Poi, le allarga in un ampio abbraccio, mentre all’altezza delle sue spalle, ne spuntano un altro paio. Ma l’imprevidibilità della scena non termina lì: nel giro di pochi secondi, ai due lati del suo corpo spuntano una miriade di arti, che realizzano una serie di figure ed intriganti gestualità. Completata la prima sequenza, ai presenti viene mostrata la verità: 21 danzatrici anch’esse non udenti, che si nascondevano dietro la schiena di lei, si raccolgono a gruppi di tre, ciascuno dei quali disposto in fila rigorosamente indiana, per continuare separatamente l’improbabile pantomima. Ciascuno impegnato nel rappresentare lo stesso importantissimo personaggio. La “Dea” della Misercordia Guanyin, dalle 11 teste, le mille braccia e quasi altrettanti occhi, altrimenti nota col nome sanscrito di Avalokiteśvara, colei (o colui) che contempla [il male].
Dal punto di vista della Cristianità moderna, il dubbio non può sussistere in alcun modo: la religione Buddhista rientra nel gruppo dei politeismi, ovvero i culti non fondati sull’esistenza dell’unico Dio. Poiché Buddha non è un’entità singola, onnipresente ed onnisciente, bensì un princìpio oscuro che si trova nell’anima di tutti noi, che possiamo arrivare ad illuminare e liberare nel mondo, una volta superato il peso doloroso dell’Esistenza. Per la dottrina fondamentale iniziata da Siddhārtha Gautama, non esiste dunque neppure il concetto di teismo, poiché tutti gli esseri, terreni o ultramondani, sono fondamentalmente la stessa identica, suprema cosa. Eppure, ci sono dei punti di contatto tra le due distanti religioni. Uno di questi è la fiducia che nel mondo siano sempre esistiti, ed esistano tutt’ora, degli individui in grado di esprimere in maniera altruistica la loro probità, ricevendo in cambio il potere salvifico dei loro devoti. Sono costoro i santi, infusi del potere di miracolare la gente osservando le ingiustizie dal Cielo, oppure i santi Bodhisattva, coloro che una volta giunti sulla soglia della suprema realizzazione, hanno scelto di dargli le spalle, e guardando coloro che ancora giacevano intrappolati nel ciclo infinito ed inutile del Samsāra, sono tornati nel mondo per aiutarli. Ce ne sono svariate centinaia, a cui vengono dedicati dei templi in buona parte dell’Asia, più altri innumerevoli e poco noti. Come per i nomi che si affollano nel nostro calendario, ci sono entità Buddhiste che proteggono le madri, i padri, i camionisti, gli idraulici, gli studenti… Una grande proliferazione d’entità specializzate, a cui rivolgersi per determinate situazioni e causalità. Ciò che manca, invece, è la figura uguale per tutti della Madonna. Un’entità supremamente benevola, a cui persino il malfattore possa rivolgersi, nell’attimo fondamentale del pentimento. Eppure… Secondo il Sutra del Loto, il primo e più importante dei testi sacri del Mahayana (“Grande Veicolo”) oggi la corrente più seguita della religione Buddhista, c’è una preghiera che “[…] per un singolo secondo, porterà maggiori benedizioni di tutti i tipi di offerte ad una quantità di Dei pari ai grani di sabbia presenti in tutti e 62 gli aspetti del sacro Gange, per il periodo di una vita intera.” Ed è questa, ovviamente, la preghiera rivolta alla misericordiosa Guanyin.