Le illusioni ottiche perdute del creatore dei cilindri ambigui

Ambiguous Garage etc

Un’automobilina gialla è parcheggiata al sicuro sotto la sua piccola tettoia, dall’apparente forma di un rettangolo convesso o sezione di un cilindro che dir si voglia. Ma basta osservare la scena allo specchio, per scoprire una visione alternativa della realtà: la struttura assume la forma, a quanto pare, di un paravento disposto a zig-zag, decisamente meno utile a far scivolare via la pioggia… Qual’è dunque la realtà, l’una oppure l’altra delle due visioni? O magari la più improbabile via di mezzo tra le due? Nel proseguire della carrellata, un cerchio che rappresenta la luna viene fatto ruotare su se stesso. Raggiunta la posizione dei 180°, esso diventa all’improvviso…Una stella! Un fiore si trasforma in farfalla. Una bottiglia di vino, in bicchiere. È difficile, raggiunto un tale punto, immaginare quale sia il segreto di quest’uomo…
Si, potremmo chiederlo alla Francia, in forza della conclusione dei recenti Europei di calcio: vincere non è facile, ma ciò che costa veramente fatica, alla fin fine della fiera, è giungere secondi nell’assegnazione degli onori del torneo. Perché se è vero che hanno inventato quella cosa, il podio che è struttura metaforica e/o effettivamente calpestabile (ne vedremo molti laggiù a Rio) va anche detto che posizionarsi sui due cubi laterali comporta quasi sempre un senso di rimpianto inalienabile, ricolmo del “forse avrei dovuto fare la tale cosa” oppure “perché mai ho scelto di rispondere a quel modo!” La strategia: un punto fondamentale degli sport, siano questi di squadra oppure individuali, il valore oggettivo che condiziona l’esito della disfida. Mentre diverso è il caso di una gara che, per quanto prestigiosa, comporta la selezione di un qualcosa di creativo. L’àmbito contestuale, da che il mondo è tondo, dell’assoluta soggettività dell’individuo, che seleziona sempre ciò che maggiormente colpisce il SUO modo di vedere le cose e l’Universo, la SUA inclinazione perfettamente personale. Il che ci porterebbe a chiederci, in ultima analisi, a cosa serva l’annuale competizione “Illusione dell’Anno” che si tiene presso il Centro Filarmonico delle Arti di Naples, in Florida, con lo scopo di premiare colui o colei che ha saputo dimostrare la migliore capacità di trarre in inganno le pupille ed i neuroni degli umani. Quando è chiaro che persino la giuria più esperta, in ultima analisi, non potrà che far classifica di ciò che in quel particolare momento, tutto considerato, gli è sembrato maggiormente fantasioso, creativo, originale. Se poi si dovesse addirittura decidere di far votare i migliori tra i finalisti al “grande pubblico” attraverso un semplice sondaggio online, come orgogliosamente dichiarato dall’organizzatrice dell’evento, la Neural Correlate Society, allora apriti cielo!
Disinteressato, spontaneo, sincero: tre meriti che l’utente medio di Internet, pur possedendoli nella sua vita reale, tende a non mostrare in ciò che clicca e tenta di portare alle più estreme conseguenze. Così è capitato che quest’anno, al termine della prestigiosa kernesse, una proposta visivamente sorprendente come quella dei “cilindri ambigui” di Kokichi Sugihara, professore di matematica all’Università Meiji di Tokyo, siano giunti dietro a una realizzazione che si è rivelata secondo l’evidente opinione dell’ancor più grande prova popolare, a conti fatti, molto meno significativa. Intendiamoci, non si può certo dire che la breve sequenza di Mathew T. Harrison e Gideon P. Caplovitz dell’Università del Nevada, intitolata “Motion Integration Unleashed: New Tricks for an Old Dog” sia stata priva d’interesse o meriti di sorta. E i loro gabors in traslazione, pallini astratti in grado d’ingannare l’occhio con il movimento interno di un pattern, certamente avranno stupito più di un occhio ed un cervello privi di alcun preconcetto pre-esistente. Ma quando la maggior parte dei blog mondiali, Reddit e persino alcuni quotidiani online di fama, pubblicano un raro articolo sulla gara (più che altro per mostrarne i video) ponendo nel titolo non il primo, ma il secondo classificato…È chiaro che qualcosa non è andato per il verso giusto.

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Come creare una sfera di terra giapponese

Dorodango

Per chi è alla ricerca di un nuovo hobby. Per chi ha una mensola vuota sul camino. Per chi ha il giardino. E tempo, voglia, predisposizione, di accovacciarsi per raccogliere qualche manciata di comune vecchia terra, la cara polvere del suolo. Allo scopo di…Mettiamola in questo modo: nella perenne e articolata ricerca del perfetto manufatto decorativo, ovvero un oggetto degno della nostra ammirazione e spazio casalingo sopra i mobili, troppo ci lasciamo dirigere dal gusto e dalla concezione collettiva! Perché esistono parametri “oggettivi” come l’antichità, il valore dei materiali, la finezza estetica di quanto siamo a valutare. Ma non è forse vero che nell’epoca del puro ed assoluto soggettivismo (io, io, io nerd, io neet, otaku, surfista, vegano…) disponiamo ormai degli strumenti tipologici e mentali per trovare quello che ha importanza per noi, e porlo su di un piedistallo che tutto sovrasta? I giapponesi, dopo tutto, questo l’avevano in qualche maniera intuito. Ed è per questo che si erano industriati, fin da tempo immemore, ad insegnarlo alle loro più giovani generazioni. Passando attraverso, tra le tante cose, ad un’arte semplice, oppure gioco che dir si voglia, definito dello hikaru dorodango (光る泥だんご), letteralmente: lo gnocco splendente di fango. Oggi questa tecnica, diventata internazionale, viene insegnata al popolo di Internet da numerosi siti e portali dal vario grado di specializzazione, soprattutto in forza della sua relativa semplicità realizzativa, ma anche per la bellezza del prodotto finale, che si è potenzialmente dimostrato degno di trovare posto nel tokonoma (床の間) familiare, la nicchia al centro della stanza in cui si accoglie un ospite, dinnanzi ai più bei tesori della propria casa.
Il più famoso produttore occidentale di dorodango è senza dubbio Bruce Gardner di Albuquerque, nel New Mexico, che a partire dal 2002, a seguito della lettura di un articolo sulla cultura giapponese della rivista TATE, scritto da nientemeno che il famoso autore fantascientifico e saggista William Gibson, decise che avrebbe iniziato a vagare per i molti deserti sabbiosi del suo stato. Ritrovando, e quindi raccogliendo, i più diversi tipi di sabbie colorate per mettere in pratica la tecnica che consiste, essenzialmente, nel compattare quanto di dovuto, renderlo massimamente sferoidale, quindi procedere a una speciale tecnica di disidratazione e lucidatura, fino all’ottenimento di un qualcosa che sia, al tempo stesso, umile e perfetto. Qualità che Gibson, in effetti, nominava solamente di sfuggita, come tenue strumento metaforico per definire l’auto-isolamento delle nuove generazioni nipponiche. Nonché una vera dimostrazione terrena, se mai ce n’è stata una, dei meriti della meditazione e dello Zen. È tuttavia indubbio come da questo recente video del National Geographic, che mostra il fenomenale risultato del suo lavoro, sia difficile desumere alcun tipo d’informazione procedurale o effettivo segreto dell’artista. La terra, se semplicemente raccolta ed appallottolata, come potrete facilmente immaginare (o provare) non dimostra certo questa innata capacità di coesione e quindi, predisposizione alla lucidatura. Un approfondimento, dunque, viene reso estremamente necessario.
La moderna versione dello hikaru dorodango (nella pronuncia, è importante che la “h” iniziale sia aspirata) rinasce essenzialmente dagli studi e dalle pubblicazioni del professore di psicologia e ricercatore Fumio Kayo dell’Università di Kyoto, che nel 2001 pubblicò un famoso articolo sull’argomento. In cui egli narrava, in modo alquanto affascinante, del periodo trascorso collaborando con un asilo, all’interno del quale aveva interagito e giocato con i bambini, ritrovandosi a intraprendere, su precise istruzioni dell’insegnante, l’apparentemente semplice tecnica dello gnocco di fango. Scoprendo quasi subito come, per la mente dei giovani creatori, simili oggetti diventassero immediatamente preziosissimi, alla stregua di ninnoli acquistati a caro prezzo, e il modo in cui per ciascuno di loro, la propria creazione apparisse essenzialmente perfetta. Persino nel caso in cui essa fosse tutt’altro che tonda. Nonostante il duro impegno, tuttavia, il Prof. Kayo racconta di non essere riuscito, in un primo momento, a raggiungere la compatta lucentezza della palla creata dal suo collega locale, ricavandone un cruccio che l’avrebbe accompagnato fino al suo ritorno nel dipartimento all’università. Iniziò così un periodo di approfondito studio, da parte sua, completo di numerosi esperimenti e addirittura dell’impiego di un microscopio per studiare la superficie delle sfere, al fine di elaborare un metodo creativo delle migliori palle splendenti che non fosse più soltanto il frutto dell’istinto e dell’esperienza, ma che tutti potessero apprendere attraverso una serie di semplici passaggi. Tale sistema, ad oggi, risulta ancora ufficialmente pubblicato sul suo sito personale all’interno del portale dell’università…

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Una visita virtuale al nuovo museo delle uova di Fabergé

Faberge Museum

A San Pietroburgo, dentro al palazzo del ‘700 di Naryshkin-Shuvalov, inizialmente progettato dall’architetto italiano Giacomo Guarenghi per quella che sarebbe diventata una delle amanti di Alessandro I di Russia (1777-1825) dal 2013 si trovano nove degli oggetti più incredibili nell’intera storia dell’umanità. Che non possono definirsi rari, semplicemente perché sono unici, per l’abilità, la scelta segreta dei metodi e lo specifico volere di colui che li creò, nonché in forza del contesto completamente irripetibile che poté permettere la loro straordinaria concezione. Sono davvero pochi, al giorno d’oggi, a non conoscere la storia quasi leggendaria delle uova di Fabergé, nate dall’incontro di un gusto estetico che sarebbe impossibile non definire, a pieno titolo, Barocco, con l’inesauribile pool di risorse, tecnologiche e procedurali, offerte dalle prime propaggini tentacolari della modernità. Quando il celebre gioielliere con madre danese e padre tedesco Peter Carl Fabergé realizzò per la prima volta, su richiesta del 1885 del penultimo zar di Russia Alessandro III, un ineccepibile regalo di Pasqua per la sua amata moglie Marija Fëdorovna, lo fece nelle sue vesti del più prestigioso fornitore ufficiale della casa reale. Una posizione che dava diritto a numerosi vantaggi economici e di status professionale, tali da garantire che ogni minimo dettaglio dell’oggetto fosse realizzato con un’attenzione ai particolari totalmente priva di precedenti. La costruzione di un singolo uovo della lunga serie che sarebbe iniziata così, secondo quanto ci è dato di sapere, poteva in effetti richiedere molte settimane o mesi, al punto che alcuni dei migliori richiesero, secondo fonti ufficiali, l’intero anno a seguire dal momento in cui fu consegnato l’uovo precedente. E sarebbe forse un’esagerazione giungere a definire, tali dimostrazioni di sfarzo ed opulenza, come un segno preliminare dell’incipiente globalizzazione. Ma è anche vero che per costruire i suoi pezzi più celebrati, Fabergé importò materiali da mezza Europa, rivolgendosi ad esempio in Svizzera per i meccanismi, e fino ai paesi scandinavi per trovare dei pittori degni di realizzare le miniature che talvolta venivano incluse nel pezzo. Sfruttando quel sistema d’internazionalizzazione dei commerci che era stato costruito e mantenuto efficiente, nei lunghi secoli precedenti, proprio da quella classe dirigente di cui facevano parte i Romanov, ormai percepita come totalmente slegata dal concetto del vivere comune. E naturalmente, questi oggetti ci affascinano e colpiscono la nostra fantasia! Dove mai, prima d’allora, sarebbe stato possibile trovare una concentrazione simile di spunti drammatici e persino risvolti fiabeschi, alimentati, piuttosto che annientati come sarebbe dovuto succedere nell’idea dei Bolscevichi, dalla tragica fine a cui andò incontro questa intera famiglia…
Così oggi, due secoli dopo, è possibile fare il proprio ingresso dal portone principale di questo edificio neoclassico, sito sul fiume Fontanka nel centro della seconda città di Russia ed ammirare fra gli altri un uovo. L’Uovo. Il primo di tutti, alto 64 mm ovvero poco più di quello di una gallina, che appare perfettamente bianco ma è in realtà d’oro smaltato. Il quale poteva essere aperto, per rivelare al suo interno una sfera rappresentante il tuorlo, gialla e splendente come si confà a quello stesso metallo in cui era stato realizzato. Ma le meraviglie di questa ragionevole approssimazione della realtà aviaria non finivano certamente qui: aprendo tale forma infatti, sotto gli occhi della zarina si sarebbe palesata una scatola a forma di gallina, con al suo interno un gioiello che oggi è andato perduto, probabilmente una spilla o degli orecchini. Perché fu sostanzialmente questa, l’unica regola imposta dallo zar al suo gioielliere: che le sue opere contenessero sempre, come si confà alla tradizione pasquale, un qualche elemento totalmente imprevisto e sorprendente. E l’idea ebbe un tale successo che da quel momento, i laboratori di Fabergé non smisero mai di produrre delle nuove versioni dell’idea, sia ad uso e consumo della nobiltà che, annualmente, su specifica richiesta del regnante zar. Una prassi mantenuta viva anche dal suo figlio primogenito Nicola II, che regnò a partire dal 1894, per la morte imprevista di Alessandro III sopraggiunta all’età di soli 49 anni. Con una significativa differenza: a partire da quel momento, le uova annuali furono due, una per la madre Marija e l’altra per sua moglie, Aleksandra Fëdorovna Romanova. Da lì, insomma, iniziò un crescendo…

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Tre meraviglie pieghevoli di architettura Lego/giapponese

LEGO Himeji

È l’eterna lotta che si svolge in un ambito specifici della creatività: qual’è il modo migliore per ricostruire un grande monumento in scala? Si chiedono allo stesso tempo, l’uomo che piega la carta e quello che dispone i mattoncini. Alla ricerca di un qualcosa che sia solido e immanente, straordinariamente suggestivo. Ciascun approccio… Ha punti forti per distinguersi dall’altro. Un origami è semplice, rapido, praticamente pronto all’uso. Tutto ciò che occorre è un gran foglio di carta, bianca o colorata, cui dare una forma che ricordi la struttura ispiratrice dell’architettonica disfida. Come un tratto di pennello del sumi-e, l’arte pittorica d’Estremo Oriente che deriva dalla calligrafia, nel modo in cui riesce a catturare in pochi gesti la necessità espressiva. Mentre d’altra parte, mettersi all’opera con i più famosi strumenti per prefabbricati della Danimarca, concepiti per tirare su pareti non più alte di un bambino all’opera nella sua stanza dopo i compiti di scuola, richiede acquisti ripetuti e tempo a profusione. Simili creazioni, spesse volte, richiedono giorni, settimane o addirittura mesi (specie nei progetti degli adulti) diventando così simili agli affreschi di Raffaello e Michelangelo nei luoghi della Chiesa, il frutto d’infinite correzioni successive, verso il raggiungimento dell’estetica perfezionata. C’è quindi la questione addizionale dello spazio, tutt’altro che semplice da trascurare. Un modellino costruito in tre dimensioni mediante l’impiego di blocchetti che comunque, per loro implicita natura, hanno uno spessore non inferiore ai due centimetri, o comunque una larghezza ancor più significativa, non può che avere dimensioni minime commisurate alla sua implicita complessità. E certi edifici, sono complessi per definizione, giacché furono creati per gettare lo sconforto nelle fila del nemico, diventando un campo di battaglia verticale ed insidioso. Come mai avrebbe potuto fare, dunque, il maestro del settore Talapz, titolare di un rinomato canale su YouTube, per giungere a possedere finalmente la meravigliosa silhouette del bastione centrale di Himeji, struttura che domina lo skyline dell’omonima città nell’Honshu meridionale…Quando si sa molto bene che gli appartamenti giapponesi sono piccoli, tendenzialmente, e benché privi di mobilia superiore all’essenziale, estremamente razionali nell’impiego degli spazi…
Ma “Io non mi accontento della carta!” Sembra quasi di sentirlo dire: “Il mio soggetto merita ben Altro.” Mentre lo visualizziamo grazie all’occhio della mente, che dispone le sue arcane fondamenta, utili a creare il più incredibile, ed inaspettato degli effetti. Questo particolare castello, del resto, è il più grande ed il secondo più famoso del Giappone, dopo quello estremamente celebre di Osaka che resistette dieci lunghi anni al cambio di un Era, dopo la battaglia epica sulla piana di Sekigahara. E pensare che di quello che era il suo unico rivale nelle dimensioni, fatto costruire dal grande dittatore militare Toyotomi Hideyoshi nel ventennio precedente al 1600, oggi resta estremamente poco, con fortificazioni assai ridotte, ed un torrione integralmente ricostruito dalle ceneri della Restaurazione Meiji. Un’altro turbolento e fulgido minuto della Storia. Prendete invece, per comparazione, l’ispiratore di questo capolavoro fatto con i Lego: il castello di Himeji fu inizialmente concepito come una struttura difensiva scavata in collina nel 1333 da Akamatsu Norimura, uno dei fedeli servitori dell’Imperatore Go-Daigo, che scelse di ribellarsi all’illegittimo potere dei guerrieri di Kamakura, il clan degli shōgun Minamoto. Un sogno destinato ad infrangersi in catartiche battaglie campali, lasciando pienamente integre le rispettive fortificazioni e permettendo il trionfo di Ashikaga Takauji, l’uomo all’inizio di una nuova dinastia di sommi generali. Così la torre nacque e crebbe, da una generazione all’altra, acquisendo entro il 1346 il nome di Himeyama, da quello del rilievo del paesaggio che ospitava le sue fondamenta. Ma passarono due secoli prima che alcuni fedeli servitori dello stesso Hideyoshi, lo stratega convertito al Cristianesimo Kanbei Kuroda per primo, e l’amministratore esperto Ikeda Terumasa, talvolta noto come “lo shōgun del Giappone occidentale” per secondo, ad espandere la struttura nell’odierna meraviglia architettonica tra il 1601 ed il 1609, giungendo alla vetta di oltre 80 strutture indipendenti, e mura forti e candide che valsero all’edificio il soprannome di “Gru Bianca”. Che si diceva avrebbe un giorno spiccato il volo, ma che nessuno avrebbe mai creduto di vedere dispiegarsi dalle pagine di un libro in delicati mattoncini…

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