La minuscola scimmia che morde gli alberi come un pipistrello vampiro

Nell’analisi geografica del mondo, l’isola è un concetto chiaro e almeno in apparenza, del tutto privo di sorprese: “Terra emersa in mezzo alle acque, che si estende dalle coste fino all’entroterra…” Potenzialmente popolata da una sua particolare varietà di creature, sia volatili (migratorie) che legate a un’espressione assai specifica dell’evoluzione. Note a tal proposito, risultano essere le due tendenze contrapposte definite “gigantismo” e “nanismo” insulare, entrambe una possibile risposta di creature facenti parte di famiglie note, ma cambiate nella dimensione per l’assenza, totale o parziale, di predatori. Esiste d’altronde, nelle giungle sudamericane, un tipo d’isola creato da una situazione in essere nettamente distinta; quella generata, in successive macchie di leopardo, dall’incrociarsi simile a una griglia dei più vasti fiumi locali, tali da creare spazi entro i quali sussistono particolari regole, e strade alternative alla sopravvivenza. Così da qualche migliaio d’anni esistono, come alternative che soltanto di recente la scienza è giunta a distinguere, le due specie quasi identiche del genere Cebuella (pygmaea e niveiventris) i cui tratti distintivi più importanti si nascondono nelle profondità del codice genetico, ma che appaiono profondamente diverse da ogni altro primate appartenente al gruppo mediamente piuttosto compatto delle Callitrichidae, con il nome in lingua inglese di marmoset, o con un prestito onomatopeico dalle lingue indigene, uistitì. Perché sono ancor piccole, invero piccolissime, raggiungendo in media i 117-152 mm ed un peso massimo di 100 grammi, al punto da essere chiamate talvolta “scimmie del dito” (finger monkey) per la naturale propensione ad afferrare il più piccolo degli arti umani come fosse un ramo, ogni qualvolta ci troviamo ad osservarle in cattività.
L’effettiva ragione di una simile caratteristica, pur non essendo del tutto compresa, sembrerebbe derivare in qualche modo dalla specifica dieta di questi animali, che pur afferrando l’occasionale insetto di passaggio sembrerebbero basare la maggior parte del proprio sostentamento su un approccio assai particolare al veganesimo, che le vede arrampicarsi su un’ampia varietà d’alberi poco prima di mettere a frutto, con voracità efferata, gli incisivi aguzzi come pugnali. Capaci di forare, senza troppe difficoltà, le cortecce di alberi come lo storace americano (Liquidambar styraciflua) ed altri produttori di resina gommosa, che provvedono quindi a succhiare con estremo trasporto fino all’assunzione delle calorie di giornata. Si tratta di una scena surreale e al tempo stesso sottilmente inquietante, per l’evidente effetto che riesce ad avere attraverso settimane e mesi sul tronco preso di mira, che diviene letteralmente ricoperto di noduli formati dalla cicatrizzazione, come legnosi segni del passaggio di uno sciame di fameliche zanzare. Particolarmente nella zona di mezza altezza dove sono solite arrampicarsi le scimmiette grazie ai loro artigli altrettanto specializzati, ben conoscendo i pericoli che correrebbero al livello del terreno, causa felini o altri agili predatori, o presso gli strati superiori della giungla, pattugliati dagli uccelli rapaci come il falco e l’aquila arpia brasiliana. In funzione di una tale preferenza specifica, queste creature presentano quindi un’indole notevolmente territoriale, che vede i gruppi di 8-9 elementi al massimo, che si formano attorno a un’unica coppia riproduttiva, farsi spesso la guerra per il possesso di uno specifico appezzamento, che può sfociare talvolta nella caduta e conseguente improvvida dipartita dei membri del clan rivale. Ad opera dello stesso gruppo più che mai pronto a ritirarsi con agili balzi di fino a 5 metri da un ramo all’altro, bilanciandosi all’atterraggio con la coda (non prensile) nel momento in cui incontrasse Callitrichidae più grandi e immediatamente accomunabili, in funzione di questo, al concetto di causa di forza maggiore…

Leggi tutto

Ritrovato in un giardino il camaleonte perduto da oltre 100 anni in Madagascar

Quale gemma, era scomparsa, tra le pieghe delle odierne circostanze! Che lucore tenue si era affievolito, nella collezione mai del tutto raggiungibile delle creature inusitate… Poiché il gesto di distrarsi, non può che essere la mera conseguenza di un complesso centenario, come quello che avevamo visto compiersi senza più vedere, né poter toccare questa “piccola” creatura. Si fa per dire, visti i 264 cm di lunghezza che non sono pochi se si parla di un camaleonte, come l’essere trovato, a fronte di una lunga e complicata ricerca, dalla spedizione composta da Frank Glaw, capo del Dipartimento dei Vertebrati della Collezione di Stato Zoologica bavarese, un importante istituzione di ricerca gestita dallo stato tedesco. Dopo aver girato, nell’ordine, le foreste non protette di Antsanitia e Betsako, l’area selvaggia attorno al faro della riserva di Antrema e la vallata posta innanzi alla caverna d’arenaria di Mahajanga. Per venire quindi a patti con l’innata propensione delle cose a prendere una strada inaspettata, scorgendo finalmente l’obiettivo nel bel mezzo dell’insediamento omonimo, cittadina portuale di 149.000 abitanti nella parte nord-occidentale della grande isola del Madagascar. E… Chi l’avrebbe mai detto? Sulle piante ad alto fusto del cortile, notoriamente poco coltivato, dell’hotel di Madame Chabaud. Il cui personale è stato pronto, con cordialità evidente, ad illustrare come tali rettili fossero in effetti tutt’altro che rari negli immediati dintorni, aumentando di numero periodicamente durante l’intero periodo della stagione delle piogge (gennaio-marzo). Per una scoperta registrata dagli scienziati nel distante 2018 ma soltanto pochi giorni fa pubblicata, dopo un lungo periodo di analisi e controlli, sulle prestigiose pagine della rivista tedesca Salamandra. Dando spazio e nuova vita a una creatura, predatoria e interessante, che da tanto a lungo era scomparsa dalle cronache biologiche, dopo la sua prima classificazione ad opera del zoologo Oskar Boettger, che l’aveva dedicata al celebre collega Alfred Voeltzkow (1860-1947) verso la fine del XIX secolo. Diventando nel trascorrere del tempo una sorta di leggenda, tanto che il consenso cominciò a virare verso la teoria che fosse nient’altro che una sottospecie del camaleonte di Labord diffuso nella parte meridionale dell’isola, data l’evidente somiglianza morfologica sulla base dei dati a nostra disposizione. Mentre il Furcifer voeltzkowi, come dimostrato da Glaw, possiede una sua propria unicità genetica ma anche una storia di vita assai probabilmente simile alla specie cognata, che lo porta a fuoriuscire dal suo uovo con le prime piogge di novembre, per raggiungere la maturità sessuale a gennaio, quindi accoppiarsi una singola volta e poi deporre le sue uova a marzo, poco prima di morire. Basterà trasferire, dunque, un tale ciclo d’esistenza a una popolazione più ridotta e in grado di occupare zone generalmente remote nel periodo in cui le strade malgasce diventano impraticabili, per comprendere come, lungo l’estendersi di tanti anni, il camaleonte possa essere rimasto non visto dagli occhi umani. Con conseguente perdita di un significativo senso di meraviglia, dato l’aspetto notevole delle sue femmine particolarmente durante il breve periodo degli accoppiamenti, quando assumono una tonalità variopinta che include il blu, il viola, l’azzurro ed il nero, convergenti in una serie di macchie rosse sui fianchi con assicurato effetto scenografico nei confronti del potenziale partner d’occasione. La cui ricerca occupa, nei fatti, il periodo più lungo e complicato della sua vita…

Leggi tutto

L’ingegnoso espediente del tronco giapponese a due piani

Piattaforme in legno e fronde oltre la curvatura dell’orizzonte, fin dove l’occhio riesce a spingersi lungo l’irto declivio. Alberi sul lato della strada, sopra cui crescono ulteriori Alberi. Geneticamente uguali; ma esteriormente, diversi. Cos’ha creato il surreale paesaggio che caratterizza la regione giapponese dei villaggi di Takagamine, Takao, Kumogahata e Kitayama? Di certo, in una simile stranezza, dev’essere coinvolta la possente ed instancabile mano dell’uomo!
La moda è quell’influsso, simile a una carica elettrostatica, che ogni cosa percorre modificandone profondamente le caratteristiche fisiche immanenti; non sottovalutate mai, se potete, l’effetto che la moda può avere sull’aspetto dei luoghi e le persone, le preferenze operative di quest’ultime, la stessa forma e l’aspetto del paesaggio in cui abitiamo. Ci fu un tempo, nel Giappone dell’epoca pre-moderna, in cui colline intere attorno alla città di Kyoto vennero dedicate alla coltivazione di uno specifica tipologia di materiale. Ciò era legno e poco più di quello, ma anche molto un quantum straordinariamente significativo, oltre a quello. Era il tempo dei guerrieri in armatura, pronti a cavalcare dentro il turbine della battaglia. Che al ritorno dal caos e gli spargimenti di sangue del Sengoku Jidai (Paese in Guerra) pretendevano di riposarsi in uno spazio sereno e quasi mistico, la più perfetta applicazione della filosofia al concetto di spazio creato da, in base agli specifici bisogni e per l’uomo. Zen: se c’era stato qualcuno responsabile, in prima persona, di averlo trasformato in una linea guida dei processi architettonici vigenti, quel qualcuno fu senz’altro il monaco, filosofo e “maestro del tè” Sen no Rikyu (千利休, 1522 -1591) consigliere del signore della guerra Toyotomi Hideyoshi il quale, come molti altri nella sua non troppo comoda posizione, fu infine messo a morte per un disaccordo mai realmente chiarito dalla storia. Non prima di creare e regolamentare una specifica eredità culturale, tuttavia, che sarebbe diventata il fondamento stesso di un particolare approccio alla bevanda tanto utile per affrontare le vicissitudini e le ansie dell’esistenza. Chi creda che agitare il frustino di bambù nella preziosa ciotola, mentre ci si libera i pensieri prima di servire l’ospite d’onore, sia l’essenza e il fondamento ultimo di questa Cerimonia, sta rischiando di mancare essenzialmente il punto. Che consiste nel creare uno specifico momento, a cui si accompagna un contegno, una ragione, un sentimento. L’esperienza in cui lo stesso ambiente, la fondamentale Chashitsu (茶室 – Stanza del Tè) diviene un’interfaccia con il regno della mente sgombra da pensieri che riescano a offuscare la percezione del Tutto (禅 – Zen).
Con la pacificazione del paese, e l’istituzione della somma pax dei Tokugawa successivamente alla battaglia di Sekigahara (1600) l’approccio sobrio ed elegante alla concezione di simili ambienti venne quindi trasformato in un’intera corrente architettonica, dal nome specifico di sukiya-zukuri (数寄屋造り – Stile Raffinato) per distinguersi da quello pre-esistente di shoin-zukuri (書院造 – Stile della sala del tempio) in cui tutto era attentamente definito fino al benché minimo dettaglio, intrappolando la mente nelle regole del mondo terreno. Tale novità portava, tuttavia, anche un problema significativo e del tutto nuovo: poiché le più sontuose residenze realizzate dai signori di un simile società feudale, essendo assai più vaste ed imponenti di qualsiasi sala da tè, richiedevano una quantità proporzionale di pilastri, travi ed altri materiali simili. Che secondo la concezione nata sotto l’egida del mai abbastanza compianto Sen no Rikyu, dovevano essere naturalmente lisci, splendidi e perfetti tronchi, prelevati direttamente da una specifica tipologia di foresta collinare. Doveva necessariamente trattarsi nella maggior parte, in altri termini, del fusto centrale appartenente a un cedro rosso giapponese (Cryptomeria japonica) l’unico albero giudicato degno di costituire i pilastri della fondamentale nicchia del tokonoma (床の間) sancta-sanctorum dell’abitazione rispettabile, innanzi cui far sedere l’ospite, ovvero la tradizionale controparte nell’ormai diluita ed esteriorizzata cerimonia del tè. Il che richiese un’approccio funzionale alla foresteria che si sarebbe rivelato, nei secoli, davvero assai particolare…

Leggi tutto

L’incerto futuro delle lumache variopinte dell’isola di Cuba

Astuta semplificazione delle circostanze, il ricorrente assunto in base al quale la bellezza troverebbe posto unicamente “Dietro gli occhi dell’osservatore” quando tutti possono apprezzarne la presenza intorno al guscio deambulante del soggetto sottoposto, di volta in volta, ad un’analisi più approfondita. E soprattutto sfortunatamente, nella mano dell’umano che non può riuscire a trattenersi, ma ogni cosa deve avere, possedere, se possibile indossare attorno al collo, legare sul braccio e sul cappello che indica la propria professione. Cacciatore… Di frodo… Di lumache Polymita, tanto spesso dette “dipinte” perché sembrano a tutti gli effetti, beh, dipinte. Tutto questo nonostante la precisa protezione normativa, come esseri facenti parte del CITES (convenzione delle specie a rischio d’estinzione) che funziona molto bene in aeroporto, nelle città, sulla carta e sulla cellulosa dei filmati informativi. Mentre come tutti ben sappiamo anche eccessivamente bene, poco conta tutto questo innanzi alle insistenti norme della cupidigia. Specie in luoghi dove la disparità sociale riesce ad essere, notoriamente, un forte peso che impedisce di percorrere le scale interne della società civile. Così che può capitare, a un semplice turista di passaggio, d’imbattersi nei banchi o i venditori che offrono gioielli ed accessori, con totale nonchalanche, il cui elemento costitutivo di base non è altro che il guscio svuotato di queste creature, in dozzine se non centinaia d’esemplari. Una triste e risaputa verità dei nostri giorni.
Così che le sei diverse specie (P. brocheri, muscarum, picta, sulphurosa, venusta e versicolor) tutte quante a rischio d’estinzione, alcune critico, restano ad oggi concentrate unicamente nella parte occidentale dell’isola, la provincia nota come Oriente dove sopravvivono nutrendosi di uno speciale sostrato di muffa fungina e licheni che cresce unicamente sugli alberi di Chrysobalanus icaco, Coccoloba retusa, Metopium toxifera e Bursera simarouba. Creando l’anomalia atipica, ed accumulando il karma positivo, di una delle poche tipologie di mollusco di terra che non nuoce in alcun modo alle piante, ripulendole piuttosto da una vasta collezione di possibili parassiti. I quali nella loro forma variabilmente vegetativa vengono considerati, ad oggi, la fonte diretta degli straordinari pigmenti che s’inseguono nella spirale del loro guscio, particolarmente nella specie picta (dipinta) che prevede oltre 15 varianti possibili con fasce dai multipli colori che si susseguono nella creazione d’ineccepibili, variopinte armonie. Con vantaggi evolutivi ignoti, nonostante l’evidente opera di selezione naturale, giacché non si è mai sentito parlare di aposematismo nelle lumache né ci è possibile catalogare la presenza di alcun predatore endemico, capace d’inseguire simili molluschi sulla cima degli arbusti, dove un tempo erano soliti godersi un’esistenza priva di pericoli nel quotidiano. Almeno fino all’introduzione, per lo più accidentale, di specie ostili come il nibbio beccouncinato (Chondrohierax uncinatus) il cui strumento d’offesa riesce ad essere perfetto per estrarre lo strisciante fantasma nel guscio, conducendolo ad un fato ancor più gramo di quello dei criminali di una società distopica dell’imminente futuro. Per non parlare dell’ermellino (Mustela erminea) capace di arrampicarsi fin lassù ed usare le sue piccole mani assassine, al fine di contribuire all’annientamento sistematico di tali rare, preziose e piccole creature. Mentre noialtri continuando ad agire come l’ago di una bilancia sottoposta a sollecitazioni imprevedibili, continuiamo a costituire il cardine, e la dannazione, dell’intero schema delle circostanze isolane…

Leggi tutto