Lo scavo e la salvezza: quando caddero le mura della Bingham Canyon Mine

Una grande storia americana, umana e naturale al tempo stesso. Una vicenda di ambizione e rischio non del tutto controllabile dalla collettività convolta. In tal senso, profondamente e indubitabilmente Terrestre, nella maniera in cui un pianeta geologicamente inerte non avrebbe mai potuto aspirare di diventare. Circa 30-40 milioni di anni fa, nel sottosuolo dello Utah un significativo accumulo di roccia fusa cominciò ad essere spinto verso l’alto dalla pressione magmatica al di sotto della crosta terrestre. Si trattava, principalmente, di porfido ma pesantemente connotato da diverse tipologie di metalli, tra cui ferro magnetizzato, molibdeno e l’elemento grezzo, soltanto parzialmente utile, che costituisce la forma non ancora lavorata del rame. Un corposo fenomeno, capace di svolgersi a notevole distanza cronologica dagli occhi scrutatori dell’uomo. Il quale non avrebbe avuto metodi o ragioni d’interessarsene, fino a quando Sanford e Thomas Bingham, rampolli di un’importante famiglia dedita al mormonismo, non si trovarono nel 1847 a farvi pascolare le proprie mandrie bovine. Tanto spesso da costruire una capanna all’imboccatura del canyon, per poi scoprire due importanti risorse al suo interno: la prima era il legname, importantissimo per la costruzione dei nuovi insediamenti nella regione dell’odierna Salt Lake City. E la seconda, una certa quantità di minerali di valore, che ben presto decisero di portare al capo della comunità, Brigham Young, nel tentativo di ottenere manodopera per l’implementazione di una filiera produttiva su larga scala. Ma il leader religioso, temendo che le attività di scavo attirassero le moltitudini dissolute e spregiudicate sul modello della corsa all’oro californiana, rifiutò tale permesso, decretando che un enorme potenziale rimanesse, ancora per qualche tempo, sopito. Le cose cambiarono nel 1863 quando un gruppo di soldati provenienti da Fort Douglas inviati ad ispezionare la segheria decisero di propria iniziativa di dar luogo a limitate opere di prospezione. Riscoprendo, non senza sorpresa ed immediato aumento vertiginoso delle proprie aspirazioni di ricchezza, la nascosta verità sopita. Le pietre raccolte vennero perciò inviate al generale Patrick Connor, che dopo averne constatato il valore decretò l’immediata implementazione di un distretto minerario subito fuori il canyon che aveva nel frattempo preso il cognome dei suoi scopritori. La crescita delle operazioni fu progressiva e costante, benché all’inizio la carenza d’infrastrutture logistiche rendesse particolarmente difficile il trasporto del materiale estratto dalle profondità del mondo. Nel 1878, con l’arrivo della ferrovia, le cose migliorarono drasticamente. Entro gli anni Venti del Novecento, il canyon cominciò ad essere soprannominato dalla gente dello Utah “La Lega delle Nazioni” per la straordinaria quantità d’immigrati che lavoravano al suo interno, in gruppi etnici non necessariamente inclini a mescolarsi tra loro. Da una parte gli Italiani, altrove i Francesi, i Giapponesi, i gioviali rappresentanti della verde Irlanda. Ma tutti avevano in comune la stessa paga ribassata, raramente superiore alla metà di quella attribuita ad un anglofono statunitense di multiple generazioni pregresse. Paradossalmente fu proprio il successo delle loro imprese, col proseguire degli anni, che avrebbe portato al disfacimento dell’eterogenea comunità di residenti: mentre la buca creata dall’uomo continuava a crescere in maniera esponenziale, ad un certo punto le loro baracche vennero inglobate ed in seguito demolite al fine di continuare le operazioni. Quindi, la miniera continuò a svilupparsi verticalmente in cerca di materiali sempre più in profondità, di maggior valore…

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I buchi neri a imbuto del vulcano che produce il miglior vino delle Canarie

Un paesaggio lunare o marziano, complessivamente frutto della mano dell’uomo: può sembrare una contraddizione in termini, eppure una pioggia meteoritica non è l’unica fonte possibile per una matrice ordinata di crateri dalla circonferenza ripetutamente palese, scavati nella terra nera di un luogo dalle caratteristiche uniche al mondo. Soprattutto quando piante serpeggianti crescono all’interno di quei buchi, verdeggianti e rigogliose, nell’esecuzione di un copione ben preciso e fonte di un vantaggio importante. Amplificando il reddito commerciale, nonché l’interesse turistico, di un’intera per quanto piccola regione abitata!
Con la loro posizione strategica nel punto d’incontro tra le rotte commerciali di Europa, Africa e le Americhe dall’altro lato dell’Atlantico, l’insediamento sulle Canarie di genti provenienti dal settentrione a seguito di spedizioni provenienti da Majorca, Grecia, Genova e Portogallo fu del tutto inevitabile nel XIV secolo, portando gradualmente alla scomparsa dei nativi che le avevano occupate in precedenza. Il clima caldo e secco di tali terre emerse, situate a ridosso della costa del Marocco, dimostrò inoltre molto presto di avere un potenziale inesplorato: la coltivazione di cereali, vegetali inerentemente resistenti e in grado di prosperare nonostante i forti venti che battevano le coste e l’entroterra delle sette isole principali. La parzialmente pianeggiante Lanzarote, quarta per dimensioni dell’arcipelago ma terza in termini di popolazione, diventò un’importante fonte di risorse gastronomiche per tutta l’estendersi della prima Età Coloniale. Le cose, tuttavia, erano destinate a cambiare in un modo esplosivo che avrebbe ricordato all’uomo il suo ruolo poco significativo nello schema generale dell’Universo. A partire dal 1730, quando l’antica origine vulcanica dell’arcipelago si palesò di nuovo, scuotendo per sei anni i vasti campi antistanti la capitale di Arrecife, ma soprattutto ricoprendoli di uno spesso strato di cenere, che i parlanti in lingua spagnola cominciarono a chiamare picón. Scavando febbrilmente per ritrovare la terra fertile al di sotto, la gente scoprì tuttavia come la composizione chimica del suolo fosse stata sostanzialmente alterata, rendendolo di fatto inadatto alla produzione dei sementi precedentemente al centro dell’agricoltura isolana. Seguì un lungo periodo di carestie, che portò una buona parte degli abitanti ad emigrare verso l’Europa ed il Nuovo Mondo. Almeno finché, nel giro di un periodo stimato attorno alla metà di un secolo, la costanza e sperimentazione di coloro che erano rimasti non permise di scoprire un metodo per rendere di nuovo produttiva la terra. Sfruttando quella stessa varietà di vite vinicola, chiamata Malvasia, che il grande Shakespeare aveva menzionato più volte nei suoi drammi, descrivendone il prodotto come un “vino fantastico, capace di profumare il sangue”. Ma a differenza di Tenerife, la principale fonte riconosciuta di tale nettare tra il XVI e XVII secolo, niente era facile a Lanzarote, ed il particolare approccio fu direttamente il frutto di parecchie decadi di lavorìo e sperimentazione, pressoché costanti…

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L’epica discesa e l’ardua risalita dalla duna più elevata del Nuovo Mondo

Una strana scena, se si osserva in video senza avere un utile quanto evidente prospettiva di riferimento. L’atmosfera è quella di una spiaggia, in cui la gente sembra essere impegnata in un particolare tipo di maratona. Alcuni corrono, gioiosi, verso l’obiettivo. Le loro braccia che si agitano mentre laboriosamente tentano di rimanere in equilibrio, i piedi sollevati a malapena prima di avanzare un altro passo verso l’obiettivo non del tutto chiaro. E in senso opposto, stranamente, un gruppo in chiara contrapposizione, di turisti in fila indiana o che tale potrebbe essere definita. Se non fosse, più che altro, una fila di orsi o di primati, che arrancando a quattro zampe tengono la testa china, concentrati in quello che parrebbe a tutti gli effetti essere un compito particolarmente gravoso. Una metafora dell’intero ciclo dell’esistenza umana, dalla gioventù alla vecchiaia? Oppure l’esito di un luogo in cui si spende fino all’ultimo scampolo d’energia residua, dovendo quindi ritornare al punto di partenza nell’unico modo a cui è ancora possibile far ricorso? In un certo senso, più la seconda ipotesi che la prima. Benché occorre precisare: è il viaggio stesso, l’obiettivo. E che viaggio… Una realtà che si palesa non appena l’occhio dell’osservatore digitalizzato viene mosso in direzione laterale. Rendendo fin troppo palese una pendenza dolorosamente prossima ai 45 gradi, di per se capace di estendersi per un dislivello pari a 50 metri. La cui esperienza, se fossimo in montagna, sarebbe giudicata un’impresa degna di essere chiamata vero alpinismo. Ma poiché siamo sulle coste del grande lago Michigan, il suo nome è Sleepin Bear Dune(s). La “Duna dell’Orsa Addormentata” con riferimento alla leggenda dei nativi Ojibwe, secondo cui la madre di una cucciolata di plantigradi che aveva attraversato le acque aspettò la propria prole sulla riva, per un tempo molto lungo, finché dovette rassegnarsi al loro improvvido annegamento. La che l’intercessione del Grande Spirito avrebbe trasformato loro in isole (South & North Manitou) e sepolto lei sotto la sabbia, affinché potesse continuare ad aspettarli per l’eternità. Non propriamente un lieto fine, a dirla tutta. Tranne che dal punto di vista di chi ama i paesaggi senza termini di paragone, meritevoli destinazioni per l’incrollabile entusiasmo del popolo di Instagram, così come lo erano stati per coloro che erano dotati degli strumenti simbolo della fotografia analogica convenzionale. Giacché non v’è luogo alternativo, in tutti gli Stati Uniti, in cui sia possibile discendere un declivio altrettanto scosceso in sicurezza. Sotto ogni punto di vista rilevante, tranne quello del possesso di energie residue sufficienti a risalire da dove si era venuti…

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Il taglio esatto della strana roccia sezionata nel deserto saudita

Tra gli esploratori europei che hanno compiuto i propri viaggi nel XIX secolo annotando dati di rilievo in merito a geografia, abitanti e culture lontane, probabilmente il più ingiustamente trascurato dagli storici è il francese Charles Huber, che percorse l’intero territorio d’Arabia tra il 1880 e il 1884. E probabilmente avrebbe continuato a farlo in seguito, se non fosse morto quello stesso anno sulle coste del Mar Rosso, assassinato da comuni criminali con il probabile quanto banale scopo di una rapina. Suoi gli studi in merito al sito Nabateo di Mada’in Salih ed a lui viene attribuito, forse in modo apocrifo, il ritrovamento della stele di Tayma, oggi custodita al museo del Louvre, parte di una serie di iscrizioni in lingua aramaica che influenzarono notevolmente la percezione della storia ebraica nella principale penisola del Medio Oriente. Tra le contingenze comparativamente di minor rilievo presenti nei suoi diari, figura tuttavia una pietra considerevolmente più grande, ancora oggi non lontano da quell’oasi situata 400 Km a nord della città di Medina, la cui caratteristica principale risulta essere un tratto morfologico decisamente inusuale. Alto sei metri, largo 9 e con un peso attorno alle 120 tonnellate essendo composto di arenaria, il macigno di Al Naslaa sfida d’altra parte la sua stessa definizione singolare, essendo stato suddiviso in un’epoca pregressa in due metà approssimative, mediante la presenza di un taglio tanto esatto e privo d’irregolarità da far pensare subito all’intervento dell’uomo. Tesi avvalorata ulteriormente dagli apparenti “basamenti” vagamente paraboloidi e dalla presenza di una serie di petroglifi con soggetti equestri scavati mediante l’utilizzo di uno scalpello, oggi ritenuti antichi almeno di quattro millenni e potenzialmente collegati alle usanze di popolazioni di cui la storia scritta non ebbe l’occasione di fare alcun tipo di menzioni. Individui, o gruppi sociali che dir si voglia, comunque necessariamente dotati di un’organizzazione del lavoro particolarmente avanzata e strumenti alquanto tecnologici, se è vero che persino oggi un’opera come la pietra in questione risulterebbe tutt’altro che semplice da portare a termine, senza l’impiego di grossi macchinari da cava o persino un qualche tipo d’avveniristico laser militare. Generazioni successivi di archeologi e geologi, da quel momento, si sono succeduti nel tentativo di scoraggiare i teorici del senso comune, pronti a ipotizzare la partecipazione al progetto d’ipotetiche civiltà aliene o viaggiatori del tempo, dando adito a sottotrame tipiche di moltissimi romanzi di fantascienza che d’altronde, avrebbero potuto essere applicate a qualsiasi altro sito insolito situato in altre regioni del mondo. Un tendenza al ricamo concettuale destinata solamente a crescere, successivamente all’introduzione di Internet e la creazione di spazi dedicati letteralmente all’elucubrazione di ogni sorta di controcultura o approcci alternativi alle nozioni irrisolte. Tanto da indurci, persino adesso, a un tuffo avventuroso tra quelle che potremmo definire, in mezzo alle altre, le ipotesi maggiormente degne di essere prese seriamente in considerazione…

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