La bandiera nazionale della Guinea Equatoriale, una delle poche in cui figuri un arbusto, nasconde in realtà un piccolo segreto. Poiché se fosse possibile ingrandire tale pianta, scrutando attentamente in mezzo alle sue fronde, vi apparirebbe l’accenno appena visibile di un movimento. Poiché saldamente abbarbicato ai rami del kapok (albero del cotone sudamericano) figura in mezzo ai vaporosi baccelli una creatura dello stesso identico colore, consistenza e aspetto in senso generale. Colui o colei che lentamente compie le sue esplorazioni, alla ricerca dei popolosi insediamenti da distruggere… Con il passaggio di una lingua imprevedibilmente lunga e micidiale. Tutto in proporzione, s’intende! Chi potrebbe temere d’altra parte, tra gli umani, questo esponente di 15 centimetri circa del super-ordine degli Xenarthra o “vertebrati-alieni” per la particolare conformazioni delle loro vertebre e il bacino. Esseri principalmente appartenenti al contesto ecologico dell’America Meridionale, che includono l’armadillo, i bradipi ed i formichieri. Tra cui la nostra beneamata conoscenza, dal numero del Pokèdex incerto, ed altrettanto ardua classificazione attraverso il succedersi delle epoche pregresse. Biasimate, a tal proposito, la remota collocazione della specie, ma anche la semplificazione ereditata da Linneo in persona nel 1758, che potendo basarsi unicamente su un numero limitato di campioni e cataloghi di seconda mano, individuò una singola specie monotipica “pigmea” che decise di denominare Myrmecophaga didactyla (oggi diventato Cyclopes didactylus) in netta contrapposizione con il genere lievemente meno compatto e ferocemente territoriale del Tamandua. Soluzione data come buona almeno fino all’epoca corrente, quando l’accumularsi dell’evidenza nelle osservazioni portò a far notare l’effettiva persistenza di due almeno tre popolazioni geneticamente indipendenti: quella settentrionale a nord dell’Amazzonia, una seconda nel nord-est del Brasile ed una terza più piccola, situata nel paesaggio paludoso di mangrovie dell’isola di Trinidad, a largo della costa sudamericana. Il che potrebbe non aver neppure dato inizio all’effettiva presa di coscienza della situazione, quando si considera lo studio pubblicato nel 2017 da Flávia Miranda ed altri naturalisti dell’Università federale di Minais Gerais, relativo all’individuazione di ben sei distinti gruppi di fenotipi e una conseguente speciazione, potenzialmente, ben più complessa di quanto originariamente sospettato. Certo, in forza di tratti esteriormente non troppo evidenti, quali la forma del cranio e la scurezza delle linee disegnate sul ventre e il dorso del formichiere, purtuttavia funzionali a comprenderne la fondamentale diversificazione a partire da un’eredità genetica comune, probabilmente risalente al remoto Pleistocene. Ben più che una mera formalità, quando si rileva la sua effettiva classificazione monolitica come animale a “rischio minimo” d’estinzione, che potrebbe del tutto ragionevolmente non corrispondere alla verità dei fatti…
conservazione
La pelle morbida e sensibile alla luce della cosiddetta salamandra infernale
Situata negli spazi interstiziali tra le pietre, in mezzo alle acque turbinanti di molti dei fiumi e torrenti rapidi degli Stati Uniti Occidentali, la creatura nota scientificamente come Cryptobranchus alleganiensis ha avuto nel folklore e nel dialogo informale una vasta pluralità di appellativi: lucertola lasagna, diavolo del fango, cane d’acqua, grampus, tritone d’acqua leveriano, alligatore di Allegheny (questi ultimi due mutuati da studiosi del settore). Quello che più di ogni altro si è affermato nel corso degli ultimi due secoli, a partire dalla prima classificazione del 1803, è l’anglofono hellbender, che significa “[salamandra] destinata a far ritorno all’Erebo”, luogo sepolto e popolato dalle anime dei dannati. Un’associazione d’idee potenzialmente giustificabile, almeno dinnanzi all’opinione pubblica, dall’aspetto non molto raccomandabile del grosso anfibio pieghettato, lungo fino a 74 cm dal muso aguzzo fino alla punta della sua coda. Laddove storie si erano moltiplicate, sin dall’epoca remota delle colonie, in merito a pescatori che nelle ore dell’alba e del tramonto si erano trovati a estrarre involontariamente dalle acque il misterioso drago strisciante, subendone un conseguente destino infausto o un qualche tipo d’avvelenamento dovuto al suo morso. Un dettaglio, quest’ultimo, frutto della semplice immaginazione, vista l’assoluta assenza di tossine nella biologia di questo animale, totalmente incapace di nuocere all’uomo. Il che non significa che siamo innanzi a una creatura pacifica, vista la sua natura di efficace ed implacabile predatore, cacciatore notturno di ampie schiere di gamberetti, pesciolini, larve ed esemplari adulti d’insetti. Continuamente catturati mentre si sposta nuotando controcorrente, la bocca a forma di spatola completamente aperta per riuscire a trangugiarne la maggior quantità possibile. Questo grazie principalmente all’utilizzo del proprio senso dell’olfatto eccezionalmente sviluppato, piuttosto che i piccoli occhi poco funzionali, quasi del tutto incapaci di formare immagini e quasi unicamente sensibili alla direzione della luce solare. Un’inclinazione, quest’ultima, più che altro utile a difendersi massimizzando le già significative capacità mimetiche dell’animale, in grado di sparire totalmente nel suo ambiente ogni qual volta ne percepisca l’esigenza, nonostante le dimensioni tutt’altro che trascurabili del suo corpo. Aiutandosi, a tal fine, con l’ulteriore percezione ambientale di particolari organi sensoriali: da una parte la linea laterale, un sistema sul proprio profilo sensibile alle vibrazioni e del tutto simile a quello posseduti da una vasta quantità di pesci, coadiuvata nel presente caso da una prerogativa molto più distintiva della nostra cara salamandra americana. Sto parlando nello specifico della sua capacità di percepire, letteralmente, eventuali fonti di luce dalla superficie pelle stessa, potendo così determinare quanto la pietra elettiva stia effettivamente funzionando al fine di coprire interamente il suo piatto corpo. E non si contano letteralmente i casi, in cui la coda dell’animale sia stata disposta con precisione assoluta mediante tale tipologia d’informazioni, al fine di sparire letteralmente sotto la geometria del suo legittimo fondale d’appartenenza…
Quasi un topo ma la coda sembra una carota: può soltanto essere un dunnart
Si risveglia ed esce dal suo nido, corre, cerca, fa la guardia al territorio. La piccola creatura che ci sembra di conoscere fin troppo bene. Essa può godere, d’altra parte, di un musetto aguzzo dall’olfatto molto sviluppato. Piccoli occhi neri per guardarsi dai pericoli e dai predatori. Zampe agili, passo scattante, la capacità di muoversi rapidamente e senza far rumore. Il primo indizio che non tutto sia quello che sembra, d’altra parte, s’identifica nella fondamentale presa di coscienza contestuale. Poiché dove siamo a passeggiare, nelle ore di penombra quando il sole si avvicina all’orizzonte, se non verso il continente nel remoto meridione, l’assolata terra dei canguri e di creature che si sono distanziate, biologicamente, per un minimo periodo di almeno un centinaio di milioni di anni… Australia. Dove la diffusa soluzione evolutiva del mammifero dotato di placenta, fin da tempo immemore, si è vista contrapporre dall’evoluzione l’intrigante approccio di colei che può contare su un marsupio, tasca nel suo corpo che protegge e al tempo stesso massimizza le opportunità di crescere dei nuovi nati. Non che il singolare appartenente al genere Sminthopsis, parte della stessa famiglia dei Dasyuridi entro cui si trovano i kaluta, quoll e il diavoletto tasmaniano, possa dirsi l’ordinario membro e tipico rappresentante della sua categoria, neppure in questo. Stiamo qui parlando, d’altra parte, di un essere dalla lunghezza massima di 90 millimetri e una durata della vita pari a 15-18 mesi, quasi come un topo, per l’appunto. Che ha dovuto perciò individuare pratici sistemi per riuscire a trarre il massimo, da ogni circostanza ed utile momento della sua frenetica esistenza. Semplificando: vedi la natura puramente carnivora della sua dieta, per cui si concentra nel mangiare più che altro insetti, ragni, piccoli rettili ed anfibi, le cui sostanze nutritive in eccesso vengono comunemente accumulate nella coda dell’animale, che può per questo assumere la distintiva forma conica di un tipico ortaggio da radice. Ottimizzando: con l’intero periodo diurno e buona parte delle notti che trascorrono in uno stato letargico detto in gergo tecnico “torpore”, che li porta ad abbassare la temperatura ed il calore corporeo fino a minimizzare al massimo il consumo metabolico di energie. Accelerando: tramite l’efficiente capacità di mettere la mondo una pluralità di cucciolate (di fino a 7 piccoli ciascuna) nell’intero periodo tra luglio ed aprile di ogni anno, con un periodo di gestazione pari ad appena 13 giorni seguìto da 37 trascorsi all’interno della “tasca” della madre, in realtà più simile a una semplice piega sulla pelle del suo ventre peloso. Va pur considerato, d’altra parte, come i nuovi nati abbiano le dimensioni approssimative di un chicco di riso. Non proprio dispendiosi, dunque, da energizzare tramite la produzione ininterrotta del bianco latte che dà la vita…
Il misterioso parrocchetto che si aggira camminando tra i roveti delle notti australiane
Un pensiero che riemerge, la potente sensazione, come un senso che precorre o in qualche modo anticipa gli eventi. Quel sospetto evocativo, dal profondo, che un qualcosa di altamente improbabile sia, pur sempre, possibile, ovvero un dente della macchina dai multipli ingranaggi che conduce al susseguirsi delle ore. Perciò non è proprio come l’emersione di un cucù, dalla guisa del domestico orologio, preciso e inalienabile, che il suono può verificarsi al volgere dell’alba in mezzo agli appuntiti cespugli: “dee-de-dee-de” come un canto mormorato e sommesso e poi di nuovo: “de-dee-de-dee”. Poiché è imprescindibile ed intrinseco nella natura stessa degli uccelli, l’affermazione della propria stessa esistenza tramite l’impiego delle onde dello spettro udibile sapientemente modulate per i propri alati colleghi. Anche quando la capacità di passare inosservati costituisce, in ultima battuta, il proprio punto di forza principale. Ed è tanto difficile trovarlo, il Pezoporus occidentalis o cosiddetto pappagallo notturno, che per quasi 100 anni dalla sua scomparsa nel 1915, ogni singolo studioso interessato giunse alla non confutabile impressione che dovesse necessariamente essere estinto. Almeno finché nel 2007 un ranger del parco di nome Robert “Shorty” Cupitt, potando le siepi ai margini di un sentiero per gli escursionisti nel Queensland non trovò sotto le fronde il corpo tristemente decapitato di un piccolo uccello verde a strisce nere, chiaramente andato a sbattere contro una vicina recinzione fatta con il filo spinato. Che avrebbe potuto essere, ma effettivamente non rappresentava affatto, un membro delle due specie relativamente rare di P. wallicus e P. flaviventris, due dei quattro tipi di pappagalli ecologicamente inclini a camminare sul terreno mentre si procacciano il cibo, assieme al ben più grande ed altrettanto notevole kakapò (Strigops habroptila). Ma si rivelò ben presto ad un’analisi più approfondita, grazie all’esperienza dello scopritore, l’improbabile membro dalla coda più corta della sopracitata e quarta categoria, ormai da tempo rimossa dalle guide all’avifauna dell’intero continente australiano. E questo nonostante il presunto areale di tale creatura, in base all’inferenza e le casistiche pregresse, dovesse un tempo estendersi da un lato all’altro dell’arido entroterra continentale, con particolare concentrazione in presenza di macchie dell’erba spinifex del genere Triodia, pianta graminacea capace di raggiungere fino al metro d’altezza. Formando i caratteristici cespugli, dal nome di tussock, tanto densi e acuminati da contribuire a scoraggiare qualsivoglia tipo d’esplorazione da parte degli scrutatori umani. Fattore determinante, difficile negarlo, nella lunga mancanza di avvistamenti per il nostro piccolo protagonista di oggi. Il che avrebbe dato luogo, successivamente, ad una sorta di paradosso. Poiché pur non generando l’immediata corsa alla fotografia che ci si sarebbe potuti aspettare (probabilmente, in molti non credettero che la casistica documentata potesse corrispondere a verità) alcuni esperti cominciarono effettivamente ad aggirarsi tra le lande, perseguendo l’ambizioso obiettivo, finché nel maggio 2013 il naturalista John Young non riuscì a catturare un video di 17 secondi in un’altra zona rigorosamente mantenuta segreta del Queensland. In cui si vedeva un Pezoporus Occidentalis disturbato dalla sua presenza, che si aggirava saltellando in mezzo agli ostacoli del bush. Una contingenza paragonata, dalle riviste di divulgazione, a “Fotografare Elvis che cucina gli hamburger in un fast-food di periferia”…