Nel celebre racconto di Edgar Allan Poe “Il pozzo e il pendolo”, un prigioniero dal crimine misterioso viene sottoposto a una particolare forma di tortura dall’Inquisizione Spagnola: chiuso in una stanza completamente buia, legato ad un tavolo di legno, si ritrova a percepire il movimento di una lama oscillante, affilata come un rasoio, che ad ogni passaggio si avvicina al suo corpo, finché ad un certo punto, giungerà per ucciderlo molto, molto lentamente. Quando per una casistica inaspettata, alcuni ratti non rosicchiano le corde che lo tenevano intrappolato, permettendogli di cercare rifugio verso i margini della sua cella. Ma è allora che le pareti diventano incandescenti, ed iniziano a stringersi, costringendolo verso un buco profondissimo nel pavimento che all’interno della sua mente, finirà per corrispondere al più profondo abisso dell’animo umano. L’evoluzione di determinati animali velenosi, in un certo senso, è come la cella orribile immaginata dallo scrittore americano: gradualmente, la selezione naturale dona al serpente uno strumento d’offesa che gli permetta di cacciare, pur essendo un animale relativamente piccolo e privo di zampe, che dispone di un singolo attacco per catturare la sua preda. È questo il momento in cui il pendolo tagliente raggiunge l’estremità di Levante, caricandosi per effettuare la sua prima oscillazione. Dopo che un numero sufficiente di esemplari/preda viene quindi avvelenato e fagocitato, attraverso le generazioni viene tra loro selezionato un gene che permette alle vittime, gradualmente, di sviluppare l’immunità. In questo momento il pendolo si trova a Ponente. Ma è allora che, senza falla, di nuovo i serpenti trovano un modo per rendere il loro veleno ancor più letale, dando inizio ad un ulteriore, e più basso passaggio della lama torturatrice. E così via… Il pozzo all’interno del quale cadere, nel frattempo, rappresenta l’occasione in cui un essere umano dovesse venire morso, per autodifesa o una semplice sfortunata coincidenza. Possibile che a quel punto, un angelo giunga a salvarlo?
Per la legge infinita della Natura, è letteralmente impossibile che un qualcosa resti uguale. Così anche i serpenti, secolo dopo millennio, possono soltanto adeguarsi al moto del pendolo, diventando sempre più letali. O sempre meno. Ma nel primo caso, la questione è più complicata che la mera elaborazione di “un veleno peggiore”. Poiché una sostanza creata per uccidere qualsivoglia forma di vita, è inerentemente affine all’attacco di un hacker: per quanto esso aumenti il grado di sofisticazione del suo cavallo di Troia, esso non potrà passare per sempre dalla stessa backdoor. Così avviene la diversificazione, essenzialmente attraverso tre vie distinte. Nel primo caso (citotossine) il serpente attacca le membrane delle cellule stesse, sostanzialmente i mattoni costitutivi della vita stessa, iniziando un qualcosa di affine al processo di digestione ancor prima di fagocitare la preda. Si tratta della forma di veleno più primitiva, creata a partire dalla saliva e generalmente associata a zanne corte ed arretrate nella bocca dell’animale. Più pericolosa è la seconda alternativa (neurotossine) che attacca i nervi causando una paralisi immediata, generalmente seguìta dalla morte per soffocamento del soggetto colpito. Alcuni dei serpenti più pericolosi del mondo sono dotati di questo strumento d’offesa. Oggi siamo qui a parlare, tuttavia, di un’alternativa più rara, e per certi versi ancora più terrificante: l’emotossina, ovvero il veleno che attacca direttamente il sangue. Periodicamente, su Internet, compaiono questi video in cui una figura di esperto preleva una certa quantità del suo stesso sangue, lo versa all’interno di un recipiente e vi aggiunge una singola goccia di veleno, immancabilmente appartenente ad un qualche spietato essere strisciante. E ed è allora, nel giro di meno che un minuto, che la sostanza rossa perde quasi completamente la sua forma liquida, trasformandosi in un ammasso gelatinoso: il sangue, in parole povere, si è coagulato. Ve lo immaginate l’effetto di un simile evento all’interno dell’organismo… Quasi istantaneamente, si formerà un trombo, bloccando il regolare funzionamento della circolazione nell’estremità colpita. Quel che è peggio, tuttavia, è il suo potenziale trasformarsi in embolo, per viaggiare lungo le autostrade venose fino ad un organo importante, come il cuore, il cervello o i polmoni. Ed a quel punto, quanto credete che possa restarvi da vivere, anche ricevendo assistenza medica pressoché immediata?
Ma quel che è peggio è che tra l’altro, un singolo serpente non ha bisogno di scegliere soltanto una delle tossine possibili, a discapito delle altre. È anzi piuttosto diffuso il caso di specie che dispongono di due, o tutti e tre i tipi allo stesso tempo, causando uno shock su più fronti che nel giro di letterali minuti, non lasciano alcuna via di scampo all’organismo colpito…
evoluzione
Il pesce mostruoso dal muso gentile
“Se mi ricade addosso, sono morto.” L’essere fuoriuscito dal fiume Fraser restava sospeso tra l’acqua e il cielo canadese, in una posizione quasi perfettamente perpendicolare al suolo. Almeno un occupante della barca non poté fare a meno di andare con gli occhi al tatuaggio sulla spalla della guida locale situata a prua, raffigurante la carpa giapponese ritratta dall’artista nello stesso momento d’estasi del gigantesco storione bianco (Acipenser transmontanus). Il grande nel piccolo, l’immagine che imita la realtà. D’un tratto di udì un grido dalla riva, dove alcune persone stavano effettuando un pasto a base di panini e snacks: “È pignose, Pignose naso-di-maiale!” Il pescatore notò allora, giusto in quel fatidico istante, l’inusuale aspetto della creatura: le sue dimensioni certamente superiori alla media, unite all’aspetto non conforme della testa, che sembrava godere di una forma bulbosa e gonfia esattamente nella parte in cui si sarebbe trovato il muso di un mammifero, costituito dall’evoluzione appositamente per grufolare. Il che non era, in effetti, troppo lontano dalla realtà: poiché questa intera famiglia di pesci all’origine del caviale, costituita da 27 specie riconosciute, conduce una vita che potrebbe essere descritta come a metà tra il salmone e il pesce gatto, setacciando i fondali alla ricerca di molluschi, crostacei e altri piccoli nuotatori. Una mansione condotta attraverso i suoi sensibili baffi e la particolare categoria d’organi noti come ampolle di Lorenzini, che gli permettono di percepire il campo elettrico delle altre forme di vita., da risucchiare quindi senza pietà. Quindi il pilota della barca, un giovane facente parte anche lui della ditta di tour di pesca attiva nell’intera Columbia inglese, si girò verso il cliente articolando a gran velocità qualcosa sulla falsariga di: “Tre, saranno almeno trecento chili” Mentre la guida tentava di comunicare “Cento anni, un pesce che ha fatto due guerre mondiali!” In un attimo di panico, quindi, il pescatore proveniente dalla città di Calgary si ricordò che stava tenendo tenendo in mano una canna, la cui lenza andava a perdersi nella bocca del bitorzoluto titano. Con un sospiro interiore e un certo grado di rassegnazione, iniziò quindi a riavvolgere. Fu allora che il pesce ricadde in acqua proprio accanto a lui, producendo un boato terrificante.
Lo storione è il pesce perfetto per l’attività ricreativa, poiché pur essendo gigantesco e notoriamente assai combattivo, resta pur sempre un esponente della pratica genìa fluviale. Affrontabile senza il noleggio di barche d’altura, né dovendo affrontare lo spauracchio di squali barracuda o mal di mare. Tutto quello che occorre fare è venire fin qui, pagare l’obolo d’iscrizione giornaliera (che in alcuni casi può arrivare a più di 1.000 dollari) e prepararsi all’esperienza avventurosa di un’intera vita, culminante naturalmente con il rilascio dell’incolpevole e prezioso gigante. In un simile scenario, è inevitabile che alcuni abitanti delle profondità finiscano per essere catturati più volte nel corso della loro lunga vita, finendo per diventare delle vere e proprie celebrità locali, specialmente quando riconoscibili per una o più caratteristiche morfologiche non conformi. E nessuno sa, esattamente, quando sia iniziata la leggenda di Pignose: un vecchissimo esemplare maschio forse non tra i più grandi, ma comunque tutt’altro che trascurabile nelle sue dimensioni, che potrebbe aver riportato un infortunio all’epoca della sua gioventù, potenzialmente dovuto all’elica di un fuoribordo. È in effetti un tratto particolarmente noto di questi pesci la resilienza, che gli permette di sopravvivere ed adattarsi a ferite di varia entità; un altro storione famoso del fiume Fraser è Stubby, così chiamato per l’assenza di un pezzo di coda. Ma è soltanto il suo cugino nasone, rimasto impervio alla cattura umana per un periodo piuttosto lungo, ad aver acquisito uno status comparabile a quello del mostro del Lago di Lochness, con la differenza che questo, alla fine, l’hanno trovato. Per ben due volte: la prima la scorsa estate del 2016 durante il mese d’agosto, ad opera del diciannovenne in visita Nick McCabe. E la seconda pochi giorni fa nei primi giorni di ottobre, di nuovo dalla stessa persona tra l’esultanza collettiva dei testimoni presenti, chiudendo un cerchio glorioso durato un anno. Che cosa leghi il fato dell’antico abitante al giovane pescatore in visita, un po’ come Moby Dick alla sua balena altrettanto bianca, nessuno lo sa. Ciò detto, si tratta di una relazione certamente assai meno tragica, visto come lo storione, nonostante l’aspetto impressionante, costituisca un animale del tutto innocuo per l’uomo, sia in Nord America che presso la foce del fiume Volga, dove vivono alcuni degli esemplari più grandi appartenenti alla varietà beluga (Huso huso) principalmente in funzione della relativa piccolezza della sua bocca priva di denti. Ad ogni modo per essere sicuri, terrei piccoli cani e gatti lontano dalle rive del fiume. Non si sa mai. Tutti gli appartenenti alla famiglia Acipenseridae vivono infatti particolarmente a lungo, diventando svariate volte più grossi di un luccio nostrano. Così nessuno conosce davvero quale sia il limite ultimo del suo terribile risucchio.
L’arteria pinnuta che porta nel cuore della foresta
I ritmi della vita sono diversi nelle profondità delle acque lacustri, fluviali e marine. In un periodo tra i 2 e i 6 mesi, si schiude l’uovo, e si fa la conoscenza col mondo in forma di avannotti. Una volta esaurito il nutrimento presente nella propria capsula di nascita, si inizia a dare la caccia al plankton. La più piccola ed onnipresente corrente di vita. L’estate non fa in tempo a finire, che già sei diventato un parr: il termine, privo di equivalenza italiana, che indica i giovani salmoni. Per tre anni, tali esseri restano in questo stadio, finché non sentono con tutto il loro essere che è giunto il momento della verità. Tre anni sono passati, quando si lasciano indietro la livrea mimetica a strisce, sostituita da scaglie scintillanti come la corazza di un antico eroe. A quel punto, sono pronti: in un turbinio di guizzanti esseri, la grande migrazione ha inizio. Dapprima a gruppi sparuti, quindi veri e propri branchi, l’esercito dei nuotatori inizia a percorrere le anse e le rapide del fiume Chilkat, in Alaska. Loro è il trionfo, l’estasi e la ricchezza. Di un vero e proprio furto generazionale: quante sostanze nutritive, quali magnifiche proteine, l’energia accumulata, costoro sottraggono al luogo di provenienza? Come una valanga che tutto assimila, i pesci corrono verso valle. Ma nel farlo, come una sanguisuga, si portano via il fluido stesso dell’entroterra, verso le oscure vastità dell’Oceano Pacifico. Chi ma risarcirà la foresta?
Gli anni passano, quindi, senza particolari eventi. Forme anonime nella vastità turbolenta, i salmoni vagano per i verdi pascoli d’alghe, catturando tutto ciò che gli capita a tiro. Al raggiungimento di un autunno che può essere il terzo (Salmone Rosa) il quinto (S. di Coho) il settimo (Chum salmon) l’ottavo (Sockeye) o il nono (Chinook) i pesci raggiungono la pubertà. È allora, secondo alcune teorie, che un particolare accumulo di ferro nel loro cranio si attiva, attivando un senso di localizzazione magnetica che gli permette di tornare verso la foce di provenienza. Ed è nel momento in cui i loro ricettori chimici percepiscono l’odore delle acque natie, che inizia la seconda trasformazione: è spaventosa a vedersi. I pesci aumentano la loro massa corporea come l’Incredibile Hulk, sostituendo le proprie fibre muscolari rosse con quelle bianche, più adatte a sforzi ed imprese disperate. Nei maschi, la parte anteriore della bocca sviluppa un uncino (il kype) mentre i loro denti crescono a dismisura. Alcune specie vedono svilupparsi un’impressionante gobba, dalla finalità incerta. Ed è in questa forma, che iniziano a risalire il fiume, verso il luogo in cui avverranno la deposizione e l’incontro nuziale.
Si tratta, naturalmente, di un grande sacrificio. Ciascuno di questi pesci comprende che al termine di questo viaggio, potrebbe non fare ritorno mai più. Benché tra le specie del Pacifico, ne esistano alcune in cui la femmina sopravvive allo sforzo, e ritornata fin giù al mare, può riprendersi gradualmente per vivere ancora quell’esperienza. Ma questo non è garantito, né essenzialmente realmente opportuno. Poiché lo scopo stesso del salmone, come animale semèlpare, è di riprodursi e morire. O venire ghermito dai predatori ancor prima di riuscire a farlo. Persino questo, è preferibile all’oblio marino. Per quale ragione, la natura l’ha concepito così? Non sarebbe stato meglio creare un essere in grado di riprodursi più volte nel corso della propria vita… Forse. Eppure, forse no. La ragione, o il merito di tutto questo va ricercata nell’azione collaterale di uno specifico, fondamentale animale: l’orso.
I nidi sotterranei del pappagallo dei mari
Lo chiamavano puffin, il clown dei mari. Oppure “la” Pulcinella, per differenziarlo dal personaggio del carnevale. Forse per analogia con “la” papera, “la” berta… Ma a conti fatti, dal punto di vista aero/idrodinamico, si tratta di una creatura che ha più di qualche cosa a che fare con “il” pinguino. Da cui l’appellativo Fratercula, il piccolo frate (dal piumaggio nero). Fatta eccezione per il ventre bianco, il becco variopinto e le zampe arancioni. Un animale perfettamente in grado di destreggiarsi in aria, nonostante il corpo arrotondato dalla notevole profusione di piume, così come in acqua, una innata prerogativa della sua intera famiglia degli Auk (Alcidae in latino). Poiché essere carini non sottintende alcuna facilitazione nelle avversità del quotidiano, e direi che il suo stile di vita, tra tutti quelli degli uccelli dell’Oceano Atlantico, resta uno di quelli che richiede il maggior grado di coraggio. La sua varietà più famosa vive nei mari freddi, a settentrione d’Europa, sulla cima delle ripide scogliere di Scandinavia ed Islanda. Da dove si tuffa a capofitto, nella ricerca di piccoli pesci e cobepodi, che afferra in grande quantità grazie alla particolare conformazione del suo becco, per riportarli quindi immediatamente al suo singolo pulcino, nascosto in modo particolare nel mezzo di un prato. Giacché camminando, durante un soggiorno turistico tra tali lidi, può capitare di udirne il richiamo: come un lamento penetrante fra il nulla, il suono di un trapano alla potenza minima, che sembra provenire dritto da sotto i piedi. E nei fatti, è proprio così: poiché la piccola Pulcinella di 30-32 cm, al momento della deposizione del suo prezioso uovo, si è messa a scavare assieme al compagno per l’entità di un metro. Per far covare a turno ed in fine nascere il suo erede laggiù nel profondo, lontano dal Sole e dai predatori. Una strategia evolutiva, questa, piuttosto insolita per un volatile, ancor più nel caso in cui si tratti di un uccello marino. Che in effetti risulta essere ben poco conosciuta, nonostante il piccolo in questione compaia spesso come simbolo di luoghi quali la Groenlandia, le Isole Faroe, le Vestmannaeyjar e addirittura il Canada occidentale, dove talvolta si recano per svernare, su francobolli, guide turistiche e banconote. Il che probabilmente, non va molto bene all’uccello, che cerca soprattutto un’irraggiungibile tranquillità.
Lungi dall’essere una creatura rara e pregiata, il puffin esiste tutt’ora in oltre 10 milioni di esemplari, benché il mutamento climatico e la caccia eccessiva ne abbiano ridotto il numero di circa il 40-60% nel corso delle ultime quattro generazioni umane. Il suo problema principale è la temperatura del mare, che dovrebbe rimanere al di sotto di un certo valore affinché possa riuscire a cacciare: circa 10-15 gradi, oltre i quali le sue prede tipo si rafforzano, e diventano in grado di nuotare più velocemente di lui. A quel punto, tutto quello che gli resta da fare è migrare, oppure perire. Ma è comunque una triste scelta, questa, poiché l’uccello in questione è non soltanto monogamo, ma preferisce fare il nido sempre nello stesso luogo esattamente come la rondine, talvolta perché ciò gli permette di sfruttare un pertugio pre-esistente magari scavato da un piccolo mammifero come il coniglio. In ambienti in cui tale possibilità si presenta, è possibile incontrare delle vere e proprie colonie di questo uccello socievole, che preferisce vivere in gruppo e ricerca, più di ogni altra cosa, la vicinanza dei suoi simili. Esattamente come fanno i pappagalli. Probabilmente per un meccanismo evolutivo dell’immunità dello stormo, da predatori che includono non soltanto uccelli rapaci, ma anche grossi pesci e talvolta, persino le foche. Per quanto concerne invece le creature terrestri, generalmente il puffin è piuttosto al sicuro, a causa del posizionamento remoto dei suoi pochi, collaudati luoghi d’approdo. Soltanto una creatura, non sembra intenzionata a lasciargli condurre in pace la sua esistenza. Serve realmente che faccia il nome? Siamo noi, l’uomo. O per essere più specifici i nostri simili di talune terre, dove la carne del volatile in questione viene considerata una vera prelibatezza, e l’attività di cattura costituisce un’eredita tramandata dall’epoca dei più remoti antenati. In modo particolare nel territorio d’Islanda, dove la caccia è permessa ed attentamente regolamentata, preferibilmente da effettuare tramite l’impiego dello strumento di una rete da lacrosse sovradimensionata dal nome di fleyg, da manovrare attentamente presso l’estremità a strapiombo del faraglione. Tanto che nel 2008, in un famoso e criticato episodio del suo show, The “F” Word, il famoso cuoco inglese Gordon Ramsey cadde da un dirupo alto 25 metri delle isole Westman finendo in mare e rischiando di morire annegato. Tra la cruda soddisfazione degli animalisti, rabbiosi per l’aver mostrato anche la scena in cui veniva tirato il collo al grazioso volatile pronto per la padella.