A proposito delle cavallette che hanno invaso la città di Las Vegas

Quando il saggio indica verso il cielo notturno, lo sciocco tende a guardare il dito. La persona dalle doti di perspicacia conformi alla media, nella maggior parte dei casi, riesce invece a dirigere la propria attenzione verso la Luna. Ma occorre una particolare predisposizione, per non parlare dell’implicita tendenza a prestare attenzione ai dettagli, per notare la piccola ombra che si staglia dinnanzi ad essa, le ali spalancate, gli occhi tondi, le zampe aperte a formare una sorta di “V”. Come Vittoria o Vincite, il Vanto di coloro che Vengono a Vegas col sogno, estremamente condivisibile, di acquisire una vita d’accesso privilegiato alla sicurezza o prosperità finanziaria (a seconda dei casi). Naturalmente le cose cambiano sensibilmente, quando piuttosto che il semplice astro che illumina le notti terrestri, il teatro della nostra scenetta viene sostituito da un poderoso raggio laser degno del film Stargate. Il quale scaturendo dalla sommità della gigantesca piramide, si staglia verso il cielo, agendo come l’esatto inverso della luce della stella cometa che calò sopra una certa stalla a Betlemme, poco più di un paio di millenni fa. Agendo comunque a supporto, caso vuole, di un qualche tipo d’evento biblico, benché stavolta di un tipo decisamente più preoccupante per l’umanità: “Se tu rifiuti di lasciar partire il mio popolo, ecco io manderò da domani le cavallette sul tuo territorio. Esse copriranno il paese…”
Il potente faro di cui sto parlando è naturalmente quello del Luxor, il famoso casinò/hotel a tema egizio che costituisce una delle più celebri attrazioni sullo strip, l’agglomerato di edifici nel Nevada (un tempo) unico al mondo e noto popolarmente come Sin City (Città del Peccato) giusto in questi giorni allietata dall’acuto frinire, e l’insistente frullar d’ali di migliaia, decine di migliaia, forse anche milioni di Trimerotropis pallidipennis, gli insetti comunemente detti cavallette dalle ali pallide, per la particolare livrea delle loro elitre chitinose, che non sono del tipico verde bensì di un grigio chiaro striato di marrone color caffé. Creature in realtà piuttosto note nella parte occidentale degli Stati Uniti, per la loro occasionale tendenza a formare sciamo colossali, un evento registrato almeno sei volte negli anni tra il 1952 e il 1980, tra gli stati di Arizona, New Mexico, Utah e California. Mentre per quanto riguarda il Nevada e Las Vegas, la storia sembra farsi più nebulosa, con l’unico rapporto citato dai telegiornali che emerge direttamente dalla memoria dell’entomologo del Dipartimento d’Agricoltura Jeff Knight che si limita a ricordare, a voce, di “Eventi simili avvenuti più volte nel corso degli anni ’60”. Il che ha comunque senso, considerato che stiamo parlando d’insetti dal comportamento e le connessioni concettuali piuttosto semplici, che agiscono principalmente sulla base di fattori ambientali: situazioni come, a quanto prosegue l’uomo, la primavera particolarmente piovosa che si è recentemente conclusa nella parte meridionale dello stato, con una precipitazione complessiva superiore ai 10 centimetri, praticamente pari alla quantità complessiva che normalmente grazia questo stato desertico nel corso di un anno intero. Ora spesso abbiamo parlato, dando seguito ad una delle considerazioni più diffuse della nostra epoca, di come il mutamento climatico indotto dall’uomo possa aver condotto alla rovina innumerevoli specie d’animali, indipendentemente dalla loro posizione nella catena alimentare. Tra i quali tuttavia non figurano, molto evidentemente, questi saltatori e volatori delle notti non più aride, che immediatamente rinvingoriti dall’improvvisa fioritura, hanno iniziato a deporre le loro uova sotto la sabbia tra marzo e aprile in quantità decisamente superiore alla media. Finché alla relativa schiusa nel mese di maggio, le striscianti ninfe non hanno notato qualcosa di relativamente preoccupante: che in maniera innegabilmente evidente, ce n’erano semplicemente troppe, di loro. Il che ha iniziato il lungo processo di trasformazione che le avrebbe viste mutare, al raggiungimento dell’età adulta verso il culmine dell’estate, in qualcosa di molto più orribile e terrificante…

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La statua di un pesce che protegge il tempio thailandese

La visione, soprattutto se ripresa dall’alto, è di quelle che difficilmente potrebbero passare inosservate: un ponte dai riflessi vagamente dorati attraversa quello che sembra essere a tutti gli effetti un bacino d’acqua artificiale. Per condurre eventuali visitatori fino a un’isola di forma circolare, sopra cui una serie d’alberelli ben tenuti vorrebbe forse alludere a una rigogliosa foresta. Al centro della quale sorge un edificio dall’aria serena e i molti tetti sovrapposti, simili ad altrettanti abbaini, le cui superfici laterali risultano tuttavia essere, insolitamente, del tutto aperte agli elementi. Ma ciò che colpisce ancor più lo sguardo, per ovvie ragioni, è la gigantesca CREATURA apparentemente intenta ad inseguire la sua stessa coda, le pinne ai lati di una testa finemente decorata, e la bocca aperta con due file di denti capaci di fagocitare facilmente due o tre persone allo stesso tempo. Prima di azzardare un qualche tipo di descrizione filologica, che vi anticipo essere tutt’altro che scontata, sarà opportuno definire il preciso contesto geografico e culturale di un tale luogo: siamo, per l’appunto, in Thailandia, o per essere precisi a circa 20-30 Km dal centro della capitale Bangkok, in prossimità della costa antistante che si affaccia verso il golfo del Siam. E questa è l’Antica Città, anche detta Mueang Boran, una sorta di attrazione o punto di riferimento per certi versi analogo al celebre parco giochi tedesco Minimundus, benché il sentimento di partenza ed alcuni dei metodi realizzativi risultino essere di un tipo del tutto diverso. Tanto che il suo creatore, il miliardario e rinomato studioso delle arti nato nel 1914 Lek Viriyaphan, era solito definirlo “il più grande museo all’aria aperta del mondo”. Una definizione che nei fatti, sopravvive anche a seguito della sua dipartita nel corso dell’anno 2000. Una ricostruzione in miniatura, dunque, dell’impero regno thailandese, con confini che riprendono la forma dell’odierna nazione e una lunghissima serie di monumenti (ben 116!) miranti a ricostruire, talvolta a dimensione naturale, in altri casi su scala ridotta, alcuni dei più famosi punti di riferimento storici, culturali e religiosi nell’esatta posizione corrispondente sulla mappa riprodotta entro i 320 ettari della notevole “città”.
Data la posizione dell’arcano edificio acquatico, dunque, possiamo identificare il tempio-pesce come la montagna di Sumeru (Meru, o Sumeruparvata) rilievo primordiale che segna il centro esatto del cosmo, nella regione mediana del continente Jambudvipa. Un luogo abitato da numerose creature tra cui naga (uomini serpente) garuda (uccelli giganti) orchi ed esseri umani che attraverso la pratica dello Yoga, sono giunti ad acquisire l’immortalità. Sopra cui sorge, qui rappresentata dal piccolo tempio decorativo, la città del Paradiso Tavatimsa dal nome di Trueng, con al centro il castello del dio Indra, signore della folgore, che nel giorno dell’inevitabile catastrofe finale discenderà per trarre in salvo tutti gli esseri degni di accedere alla vita successiva. La montagna, nel frattempo, è circondata dall’oceano Nathi Si Thandorn e la foresta Himavant, benché nelle fonti facilmente reperibili online, non si faccia alcuna menzione di pesci giganti ai margini dell’intera, complicata faccenda. Il che ci lascia, come unico punto di partenza per la nostra indagine, il cartello esposto nel parco stesso, a vantaggio dei turisti, pronto a definire tale mostro dei sette mari con il nome di Ananda, il pesce dell’Oceano Cosmico. Un nome ed un programma che dal nostro punto di vista occidentale, non spalancano esattamente le persiane poste a nascondere il nesso di un simile mistero…

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La funzione delle capre nell’economia dell’aeroporto americano

È nel momento della più drammatica necessità, quando ogni possibile speranza sembra andare in dissolvenza verso l’orizzonte, che l’inclinazione innata verso l’eroismo scaturisce dalle gesta di qualsiasi essere, donando un senso significativo al corollario dei minuti, ore, giorni, eccetera, che gli restano da vivere su questa Terra. Come quando Edward Henry “Butch” O’Hare, aviatore navale e primo asso americano della seconda guerra mondiale, in ordine di tempo e non solo, decollò col proprio Grumman F4F Wildcat assieme a quello di un commilitone dalla primitiva portaerei USS Lexington nel 1942, formando un’ultima linea di difesa contro nove bombardieri pesanti provenienti da una base giapponese. Soltanto per scoprirsi totalmente privo di assistenza, quando le armi del suo compagno si incepparono, costringendolo a poggiare nuovamente le sue ruote sopra il ponte del vascello. Segue nel racconto il primo di una serie di passaggi attentamente calibrati, poi un secondo e così via a seguire, che gli permisero di abbatterne tre, riuscendo a danneggiarne gli altri al punto da salvare la sua nave. Impresa in grado valergli, nell’ordine, la concessione della prestigiosa Medaglia d’Onore del Presidente, l’attribuzione del suo nome al potente cacciatorpediniere USS O’Hare varato nel ’45, e soltanto quattro anni dopo, anche nei confronti di quello che sarebbe ben presto diventato “il miglio quadrato più trafficato al mondo” con la qualifica informale di aeroporto/deposito del frutteto di Chicago.
Detto ciò, chiunque avesse visitato l’O’Hare poco prima del recente anno 2013, avrebbe assai probabilmente finito per pensare “Accidenti, questo posto deve aver visto giorni migliori”. In modo particolare nel caso di un approccio dalla direzione del torrente Willow-Higgins, i cui argini scoscesi impedivano il disboscamento sistematico della vegetazione, a meno d’impiegare costosi meccanismi, piuttosto che prodotti chimici lesìvi per l’ambiente. Il che aveva portato, negli anni, all’accumulo di un fitto strato di siepi e sterpaglie, usate come nido da procioni, anatre, gabbiani ed altre bestie dell’universo selvatico, capaci di creare non pochi grattacapi nel contesto della gestione appropriatamente conforme di un luogo di partenza ed atterraggio così fondamentale. Almeno finché nell’anno del fatale cambiamento, in un tranquillo giorno d’estate, all’organo preposto di gestione noto come CDA (Dipartimento Aereo di Chicago) non venne in mente l’idea di frapporre innanzi ad un possibile disastro futuro la figura di un improbabile, quanto insolito eroe. Che tutti noi, sotto una guisa oppure l’altra, indubbiamente conosciamo: l’essere diabolico (soltanto quando di colore nero) la cui lunga barba sembrerebbe sottintendere saggezza. Se non fosse per la buffa, spesso scoordinata espressione che campeggia sotto quel piccolo paio di corna, poco prima che il suono straziante del suo tipico richiamo si palesi a perforare i nostri timpani, come si confà al cospetto di una cara quanto prototipica capra.
Ora è certamente lungi da me voler paragonare la figura di un simpatico animale, per quanto utile e operoso, alle gesta di una delle figure maggiormente celebrate dagli americani risalenti all’era della guerra. Tuttavia è palese per chiunque abbia modo e il desiderio d’osservarlo, come l’impiego per tosare l’erba delle più importanti capre di Chicago, prese annualmente in prestito dal pastore Andrew Tokarz con la sua fattoria in Illinois, assieme ad alcune pecore e un asino di nome Jackson, come protezione contro il possibile attacco dei coyote, abbiano fatto molto per incrementare la sicurezza dei voli in partenza e in arrivo per la cosiddetta Città Ventosa. E il tutto senza mai pretendere, persino a fronte del successo conseguito, nessun tipo di coccarda o ricompensa d’altro tipo…

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Un colossale uccello per salvare Atlantide sulle coste di Giava

“Se davvero l’atmosfera della Terra si sta riscaldando…” Dice l’uomo a Washington, sulla comoda poltrona che controlla il mondo, “Allora perché gli ultimi inverni sono stati tra i più freddi e lunghi della storia?” Oltre i picchi delle montagne costiere, al di là di un mare profondo e sulle coste di una landa remota, il suo stesso tono querulo viene impiegato da gente con tutt’altro tipo di problemi. “Se questa città veramente sta per scomparire, sommersa nelle acque del sottosuolo, allora perché i miei rubinetti restano ancora del tutto a secco?” Uomo di Jakarta, ottimista per definizione e (indubbia) sfortuna situazionale. Una delle città più tentacolari e sovraffollate del pianeta, con i suoi 10 milioni di abitanti metropolitani, oltre a ulteriori 20 nell’area immediatamente circostante della più importante isola d’Indonesia, tutti protesi a fare ciò che fa normalmente, l’uomo: consumare. Una risorsa sopra tutte le altre e quella risorsa, come apparirà evidente a questo punto della narrazione, è il fluido essenziale che ci da la vita, nella fattispecie quello estratto e portato entro le mura domestiche tramite metodologie per lo più private. Già perché in questi luoghi, vige una regola tipica di certi paesi in rapidissima via di sviluppo: lo vedi, ti serve, lo prendi. Esattamente come a Città del Messico, luogo affetto da una situazione simile benché a uno stadio molto meno avanzato, per cui le diverse comunità locali, in assenza di un allaccio affidabile alla rete urbana gestita dal governo, trivellano autonomamente in profondità, trovando una risposta artesiana (o almeno, così si spera) alla costante ricerca di fonti d’idratazione necessarie per continuare a condurre un’esistenza priva di stenti. Il che ha portato alla nascita di una sorta di graduatoria degli status sociali, secondo cui più è profondo e produttivo il tuo pozzo, maggiormente risulti degno di essere iscritto nell’albo dei “benestanti” o “facoltosi” abitanti della collettività. Ma come tutti noi sappiamo fin troppo bene, un palloncino sgonfiato alla fine inevitabilmente si affloscia soprattutto se sostiene un peso, e ciò risulta altrettanto vero quando si sta parlando di un gavettone non-più-ricolmo, sia che abbia il diametro di qualche decina di centimetri, che i circa 600 Km quadrati coperti dalle fondamenta di alcuni dei più svettanti (e ponderosi) grattacieli dell’intera area asiatica meridionale. Ecco, dunque, l’orribile verità: Jakarta sta affondando, ormai almeno da un paio di decadi, all’allarmante velocità di 7,5-14 centimetri l’anno, tanto che alcuni luoghi si trovano oggi circa 4 metri più in basso di com’erano al principio degli anni ’70. Il che non è propriamente o niente affatto l’ideale, quando si considera la vicinanza dell’Oceano, in costante crescita per il progressivo sciogliersi delle calotte artiche, nonché le frequenti e rovinose alluvioni che tendono a colpire a queste latitudini. Ed avrebbe molto probabilmente già segnato la fine di una tale metropoli, con conseguente spostamento della capitale altrove, come già teorizzato a più riprese sin dall’istituzione del governo democratico nazionale nel 1945, se non fosse per i pesanti interessi economici ed i copiosi investimenti compiuti per salvarla. Tra cui il più ingente, nonché significativo, resta ad oggi lo stanziamento di fondi per il progetto a lungo termine dello NCICD (National Capital Integrated Coastal Development) anche detto Tanggul Laut Raksasa Jakarta o “Muro gigante di Jakarta”. Le cui ali composte da isole artificiali, un po’ come le strabilianti ed inutili isole-palma di Dubai, dovranno innalzarsi a proteggere l’entroterra dalla ferocia ondeggiante del vasto oceano. Se soltanto le società appaltatrici, nonché i politici committenti, riusciranno finalmente a trovarsi d’accordo sui metodi e i tecnicismi collaterali…

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