Il grande fiume sotterraneo creato per proteggere la capitale giapponese

Tanaka gettò uno sguardo rapido verso la stazione di Ichinowari, tentando di scacciare via il senso di colpa, tanto distante dal suo modo di affrontare i casi della vita. L’aveva detto lui del resto, al capo-sezione di Kita-Cho, che fermare per strada il ragazzo delle consegne del tofu mentre si recava al commissariato di zona non sarebbe stata una buona idea. Ma gli ordini dell’oyabun erano stati chiari: nessun quartiere per coloro che tentavano di coinvolgere la polizia. Tutti dovevano pagare la loro quota. Annientare i tentativi di ribellione. Così si era messo alla guida della Century di sua madre, inseguendo il furgoncino Mazda Bongo lungo alcune delle strade maggiormente trafficate della megalopoli… Ma di certo non voleva finire per buttarlo fuori strada e tanto meno, l’avrebbe mai mandato a sbattere contro la cabina della polizia! Ora pioveva, era tarda sera, aveva perso il cellulare nel tentativo di chiedere aiuto durante le prime fasi della sua rocambolesca fuga a piedi e a quanto pare, avrebbe dovuto passare la notte fuori città. Così tentando di non attirare troppo l’attenzione, scavalcò il guardrail a lato della strada dove si trovava successivamente alla corsa in treno, per fare il suo ingresso dentro quello che poteva solamente essere, almeno in apparenza, un campo da calcetto per i ragazzi della scuola. Le sirene già risuonavano sulla distanza, quando l’uomo della Yakuza intravide una possibile speranza di salvezza: la piccola cabina di cemento, con un portone metallico lasciato miracolosamente socchiuso. “Yatta, che fortuna!” Sussurrò tra se e se. Perché Tanaka, in quel momento, seppe esattamente dove si trovava. E capì come avrebbe fatto a ritornare nel territorio protetto dalla Compagnia! Esagerando il movimento delle braccia mentre accelerava il ritmo della camminata, fece quindi i ventiquattro passi che lo separavano dalla salvezza. E i settecento successivi, lungo l’interminabile scalinata di cemento, fino alle viscere della terra stessa…
Avete mai sentito parlare del Sistema Metropolitano dei Canali Sotterranei nell’Area Esterna? Anche detto 首都圏外郭放水路 (shutoken gaikaku hōsuiro) o ancor più in breve, G-Cans (acronimo che non sembrerebbe essere l’abbreviazione di alcunché) dall’intero popolo di Tokyo, a cui generalmente viene attribuito il patrocino nelle trattazioni internazionali nonostante il centro di controllo, i principali accessi di manutenzione e soprattutto il vasto tempio/serbatoio di tracimazione siano collocati presso i sobborghi della cittadina indipendente, qualche chilometro a nord, di Kasukabe. Per una precisa considerazione strategico-topografica, finalizzata a poter raccogliere, ogni qualvolta se ne presenti la necessità, le acque in eccesso provenienti dai cinque vorticanti fiumi di Tonegawa, Arakawa, Tamagawa, Sagamigawa e Tsurumigawa, al fine di convogliarle tutte nel più grande e capiente Edogawa, verso le acque salmastre della baia. Ogni qualvolta, naturalmente, piogge troppo ingenti o il corso di perturbazioni significative finisca per attraversare una delle aree più intensamente popolate dell’Asia e del mondo, ove l’intensa attività urbanistica ha da tempo ormai del tutto cancellato con l’asfalto la naturale permeabilità del suolo. Ma come spesso capita, la gente ha ormai da tempo dimenticato. Come l’impressionante cattedrale sotterranea lunga 177 metri e i cinque “pozzi-albero” verticali da 70 metri di profondità e 30 di diametro siano in realtà la mera punta dell’iceberg. Di un intero tunnel sotterraneo lungo più di 6 Km, al cui confronto, costruire una qualsiasi linea della metropolitana sembrerebbe poco più di un gioco da ragazzi…

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Makoko, la Venezia derelitta delle coste d’Africa orientale

Un continente antico e al tempo stesso giovane. Ultima spiaggia dell’economia contemporanea ed anche, sotto svariati punti di vista, terra d’opportunità selvagge e inesplorate. Luogo di straordinarie meraviglie, sia dal punto dell’eredità culturale umana che per quanto concerne la natura. Ma al tempo stesso territorio in cui si aprono, dalla quieta superficie delle cognizioni largamente acquisiti, abissi occulti e senza nome, terribili presupposti di un nuovo livello di disattenzione, e per la collettiva sfortuna di chi possiede senso critico al di là dei suoi confini nazionali, tragico degrado. Ove il progresso dei diritti civili tende a giungere, talvolta, alla maniera di una freccia che attraversa i diversi strati della società, andando a colpire unicamente il suo bersaglio che gli era stato assegnato. Considerate, a tal proposito, quanto segue: la Nigeria è un paese di cui la società europea discute molto raramente, fatta eccezione per l’occasionale raccolta fondi messa in atto dalle associazioni senza scopi di lucro o dal Clero. Eppure proprio qui si trova, all’insaputa di molti, la quarta città per popolazione del mondo intero, maggiore d’Africa e la prima fuori dalla Cina. Sto parlando di Lagos coi suoi 16 milioni d’anime, agglomerato in grado di creare in autonomia un Prodotto Interno Lordo superiore a quello dell’intera nazione kenyota. E che perciò inizia ad essere dotato, come molti altri vasti centri della parte del mondo in via di sviluppo, di uno skyline non del tutto privo di grattacieli, espressioni significative del bisogno umano per l’appariscente verticalità. Ma poiché le contraddizioni, come dicevamo, sono parte d’Africa quanto i leoni e le giraffe, è proprio qui che ha luogo a esistere la più notevole tra le diverse antitesi possibili di un tale approccio alla questione abitativa. Qualcosa di tentacolare, spontaneo, incontrollabile e del tutto fuori dagli schemi.
In altri termini: Makoko, lo slum galleggiante (a.k.a. favela, oppure bassifondo) abitato da un numero variabile tra le 86.000 e le 300.000 persone (nessuno può dire realmente di saperlo) che sorge in mezzo alla laguna pesantemente inquinata della megalopoli, proprio ai lati del Third Mainland Bridge, ultimo ponte costruito in ordine di tempo per collegare la terra ferma all’isola di Lagos, centro economico e culturale, al pari di Manhattan negli Stati Uniti, di questa intera regione che si affaccia sull’Oceano Atlantico Meridionale. Benché sarebbe forse più corretto dire, a tal proposito, che è la città stessa ad essere sorta attorno a Makoko, dato il suo effettivo comporsi di sei villaggi di pescatori esistenti da oltre un secolo e abitati da appartenenti all’etnia locale Egun, dai nomi di Oko Agbon, Adogbo, Migbewhe, Yanshiwhe, Sogunro e Apollo, gradualmente inglobati, ed in seguito paradossalmente emarginati, dall’espandersi dei confini urbani dovuto all’aumento esponenziale della popolazione nel corso delle ultime trascorse. Il che ha creato questo luogo fuori dal mondo e dal tempo, in cui famiglie drammaticamente numerose vivono all’interno di edifici su palafitte o imbarcazioni auto-costruite, tentando di trovare quotidianamente il meglio in uno stile di vita che dal punto di vista oggettivo, ben pochi sarebbero pronti a definire Serenissimo…

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L’enorme stella marina costruita per il 70° anniversario della Repubblica Popolare Cinese

Quale ondata di marea, quale tempesta, quale vento di bonaccia ha trasportato il frutto di un’Oceano fuori scala fino alle propaggini meridionali della Megalopoli, con sei tentacoli a raggiera che si allargano nelle altrettante direzioni? Grossi organi per catturare la sua preda, con la bocca trasparente al centro, spalancata nell’attesa dell’ora di cena. Mentre piccoli animali alati, ciascuno con la coda riflettente in posizione verticale verso il cielo, sembrano intenti a cercare protezione tra le ciglia di quegli arti. Traendo nutrimento dai microrganismi che quest’essere lascia transitare, l’uno dopo l’altro, verso il cielo della limpida (o nebbiosa) Libertà. Ma le apparenze, come a volte capita, possono trarre in inganno. E dove un wormhole verso luoghi oceanici distanti può sembrare averci messo lo zampino, in ultima analisi, potremmo ritrovare il segno di una mano asiatica, artificiale ed attentamente “motivata” sin dall’anno 2011, quando fu decretato che attorno alla gargantuesca creatura spiaggiata scorressero otto piste di decollo civili, oltre ad una militare (dài a Cesare..)
Osservando il progredire di un’impresa pubblica verso l’avvicinarsi di un significativo evento, è possibile comprendere le numerose maniere in cui un simile lavoro può essere accelerato, senza per questo perdere la necessaria attenzione nei dettagli. Mentre il tempo necessario a scaricare, collocare e implementare i materiali si trasforma in quello che originariamente sarebbe servito solo per la prima di queste tre operazioni, e la struttura necessaria inizia a prendere forma, sorgendo gradualmente innanzi ai nostri occhi non del tutto preparati. Dieci, cento, mille pali delle fondamenta. E molti metri di soffitto dall’andamento stranamente sinuoseggiante: costituisce tutto questo, se vogliamo, la prova maggiormente significativa per la rinomata efficienza “a discapito di ogni possibile ritardo” che il mondo tende ad associare alla nazione e alla cultura cinesi. Eppure non è solo una questione d’orgoglio, questa di arrivare a completare il nuovo aeroporto di Pechino-Daxing giusto in tempo per le attese celebrazioni del settantesimo anniversario da quando Mao Zedong, investito dell’autorità derivante da aver sconfitto in battaglia le truppe del partito nazionalista Kuomintang, dichiarò conclusa la sofferta liberazione del suo grande paese, dando inizio a una nuova lunga marcia mentre l’eco dei cannoni si perdeva in lontananza, esattamente alle 15:00 del primo ottobre 1949. Bensì l’essenziale necessità di poter disporre di un hub di collegamento realmente efficiente per la prima volta dopo molte decine di anni, al fine di accogliere gli ufficiali di governo, le personalità celebri e i numerosi turisti in visita desiderosi di partecipare alla festa, dopo le cinque decadi attraverso cui il precedente aeroporto di Pechino-Capitale ha infranto tutti i record d’inefficienza burocratica e lentezza procedurale. Senza che a nessun particolare individuo, nei fatti, fosse possibile attribuirne la colpa: dopo tutto stavamo parlando, fino all’inizio della settimana scorsa, del secondo maggior scalo al mondo per numero di passeggeri, situato in un’area d’importanza strategica e governativa decisamente superiore a quella dell’Atlanta-Hartsfield-Jackson negli Stati Uniti, e frequentato in questo da oltre 100 milioni di persone interessate alla capitale della Cina nel solo anno 2018.
Verso un primato che ora non sarà più ragionevole pensare di perseguire, visto il completamento della nuova appariscente struttura, che si è comunque già guadagnata un posto di pari prestigio nel grande albo dei record dell’aviazione: quello di maggior aeroporto con un singolo terminal al mondo. Il che, considerati i circa 72 milioni di passeggeri annui previsti entro il concludersi del prossimo ciclo di stagioni, dovrà necessariamente aver comportato soluzioni tecniche decisamente fuori dal comune…

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Il grande labirinto che si staglia contro i cieli di Dubai

Permane una fondamentale dissonanza nella mitologica questione di Dedalo e suo figlio Icaro, creatori involontari della propria stessa prigione. Poiché se resta vero che il minoico labirinto fosse stato frutto di un così avanzato ingegno costruttivo, mediante considerazioni relative a renderlo impervio a qualsivoglia aspirazione di fuga, come è mai possibile che proprio loro, non avessero perfettamente impresso nella mente quell’unico sentiero che alla fin dei conti, doveva pur esistere tra tali intersecantisi sentieri? Perché mai fare ricorso a quella tecnica decisamente meno familiare di costruirsi ali di cera, con il rischio che la proverbiale hubris (dannata, orrenda tracotanza!) potesse porre una modifica sui piani di volo, con le tristi conseguenze che fin troppo bene conosciamo. Tanto che se avessimo il curioso desiderio di spostare la vicenda ai giorni nostri, probabilmente tale situazione non avrebbe modo di ripetersi: poiché la coppia, è assai probabile, prenderebbe l’ascensore.
Non è facile descrivere l’effetto fuori contesto della svettante Maze Tower di Al Rostamani, dal nome del conglomerato aziendale multi-settore che ne è stato il committente verso l’inizio degli anni 2010. Poiché essa costituisce, molto probabilmente, la più chiara risultanza del bisogno di attirare l’attenzione tramite il disegno di un diverso luogo abitativo, tra i confini di un agglomerato urbano celebre nello specifico per la natura appariscente dei propri edifici. Congiunzione zigzagante alta 210 metri (per 56 piani) di elementi verticali e balconate, evidenziate nelle ore notturne da svariati chilometri di strisce al LED cangianti, capaci d’inscenare i più bizzarri e variopinti spettacoli a vantaggio degli spettatori che percorrono la sottostante Sheikh Zayed Road. Congiuntura impreziosita invece, nelle ore appartenenti all’infuocato assassino astrale del primo Aviatore, dall’aspetto sobrio e quasi scultoreo di una facciata ricoperta interamente in pregiatissimo marmo Verde Bahia importato direttamente dal Brasile, con doppia finitura contrastante opaca e lucida, capace di riflettere la luce tendendo al bianco. Un tema, questo, che continua negli spaziosi interni adibiti sia a scopo commerciale che abitativo, con ingressi separati sin dagli spazi del parcheggio sotterraneo, attraverso cui si accede ad un maestoso susseguirsi di pavimenti e pareti in pietra naturale, con pietra lavica, ardesia, granito color dell’argento, marmo bianco siberiano… Il tutto nell’esibizione di un’indolente opulenza che proprio qui, nel volto urbano degli Emirati, si è da tempo trasformata nella norma di un linguaggio straordinariamente riconoscibile e in qualche modo appropriato. Fino all’accesso sulla vetta, nascosta da un gigantesco disco circolare con innovativi sistemi di proiezione video, ad un piccolo giardino, le cui siepi perpendicolari l’una all’altra appaiono disposte col preciso scopo, tematicamente rilevante, di portare a perdersi tra i loro rami. Un piccolo labirinto (orizzontale, tradizionale) sopra quello grande (verticale, futuribile) che si richiama al particolare modo di vedere le cose di colui che su richiesta delle due compagnie creatrici, lo studio d’architetti tedesco Planquadrat e quello degli ingegneri arabi della DAR Consult, fu chiamato per donare il proprio tocco personale alla particolare realizzazione di quella insolita idea di partenza. Forse l’erede maggiormente rilevante, professionale piuttosto che genetico, di quel geniale progettista venuto a estrinsecarsi sull’isola di Creta di tanti secoli fa…

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