E fu così che la città delle Valli, dei fertili campi, delle saline e ricchezze tanto a lungo agognate, finalmente riuscì a conoscere la pace. Quando nel 1598, dopo essere stata distrutta e ricostruita più volte a seguito delle guerre di conquista condotte dalle repubbliche di Venezia, Genova ed il Sacro Romano Impero, finì finalmente sotto l’egida pontificia, grazie all’inclusione assieme a Ferrara nei domini della famiglia d’Este, feudataria del papa Gregorio XV. Ma sarebbe stato solo successivamente all’elezione in conclave di Urbano VII, nel 1627, ed il conseguente invio del suo nuovo legato nel territorio dell’odierna Emilia Romagna, il cardinale Giovanni Battista Maria Pallotta, che la città situata presso il delta del Po avrebbe raggiunto il massimo livello del suo splendore. Grazie all’impiego dei fondi per la realizzazione di grandi opere pubbliche, tra cui l’omonimo canale Pallotta e la relativa porta cittadina per coloro che vi giungevano navigando attraverso il mar Adriatico, costruita secondo modalità e cognizioni precedentemente inusitate. Tutto grazie alla partecipazione al progetto di Luca Danesi, l’architetto, matematico e cavaliere della Santa Sede già celebre per gli studi effettuati in merito alle piene del Po e del Tevere, nonché la costruzione di una serie di chiese e monasteri presso la città ferrarese. Esperto idraulico, nonché possessore delle cognizioni necessarie a costruire il complesso architettonico che nessuno, prima di quel momento, aveva mai neppure lontanamente pensato d’immaginare e che il popolo sarebbe giunto a definire, con il trascorrere dei decenni, attraverso il nome descrittivo di Trepponti, proprio perché composto, almeno in apparenza, da un insieme di tal numero di ponti.
Posto all’interno del centro storico in corrispondenza dell’incontro tra i quattro canali di Salara, Sant’Agostino, San Pietro e Borgo nell’anno 1638, l’edificio si presenta all’occhio dell’osservatore come una serie di cinque arcate percorse da scale, poste a sostegno di uno spiazzo sopraelevato dalla forma di un pentagono schiacciato, sormontato da sei pilastrini e due alte torri d’osservazione. Costruito a un’altezza tale da permettere il passaggio di molte, sebbene non tutte, le imbarcazioni usate all’interno dei confini cittadini, tale infrastruttura dall’alto grado di funzionalità sarebbe quindi ben presto diventata un importante simbolo cittadino, tale da far definire lo stesso scenario del canale Pallotta come un vero e proprio Teatro, particolarmente apprezzato dai potenti estensi che al di là dell’antistante palude avevano costruito una delle loro famose residenze rurali. Iniziò quindi l’epoca d’oro di Comacchio, un simbolo duraturo dell’opulenza di questa particolare regione italiana che conobbe un lungo periodo di pace, almeno fino alla guerra di successione spagnola che avrebbe portato all’invasione da parte delle forze asburgiche nel XVIII secolo, soltanto per essere successivamente restituita allo Stato Pontificio, che era rimasto neutrale. Mentre la sua notevole collezione di ponti, tale da farla definire la Venezia d’Emilia, continuava a crescere in maniera esponenziale…
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La cosa mostruosa che occlude il passaggio della cloaca
Liberatorio è il gesto rapido, fondato su un principio tecnologico, che consiste nella semplice pressione di un pulsante murario. Atto a scatenare, nello spazio definito dalla lucida e biancastra porcellana, la versione attentamente circoscritta di una piccola cascata: acqua che trascina, flusso che cancella, spedizione via lontano di ogni cosa lurida e indesiderata. Inclusa carta igienica e purtroppo qualche volta, soprattutto nei paesi di matrice anglosassone, il problematico strumento della salvietta profumata, la cui scatola riporta rigorosamente il termine flushable: scaricabile nello sciacquone delle casalinghe circostanze. Nessun problema di tipo logistico, per la più importante implementazione urbanistica dell’era tardo-rinascimentale MA. Considerate solo per un attimo, le implicazioni pratiche di un grande ambiente abitativo. Megalopoli di 8, 10, anche 12 milioni di abitanti, ciascuno di essi attento a preservare la purezza del suo preciso territorio abitativo, sfruttando a massimo regime quei condotti sotterranei, orribili e segreti, che la gente chiama sottovoce le “fognature”. Dove tutto è solito procedere nella maniera prefissata, tranne quando, per un caso del destino, smette all’improvviso di farlo. Ed è allora che l’inferno stesso, senza pregiudizi o remore di sorta, riesce a rendersi istantaneamente manifesto su questa Terra. Alla forgia delle anime, per il risveglio di una “cosa” senza volto, forma, o pietà di sorta…
E dire che la genesi di questo essere può presentarsi con un volto familiare ed amico. Hai presente: verde? Alto? Frondoso? Albero dentro l’aiuola? Quale implicazione sconveniente potrebbe mai esserci, nel più accessibile e autosufficiente degli arredi viventi, tanto spesso usato per creare spazi ombrosi, nelle strade di maggior prestigio o percorribilità all’interno di un contesto altrimenti asfaltato. Salvo che la pianta ad alto fusto, per sua implicita natura, possiede entro se stessa il seme di un’irrimediabile vendetta. Così radici serpeggianti, procedendo perpendicolari alla sottile linea ideale che divide il sottosuolo privo di sostanze nutritive dalla superficie, progressivamente giungono fino al grande muro cementizio del passaggio fognario. E con l’insistenza che caratterizza tutti quei processi naturali, gradualmente causano piccole crepe nelle impenetrabili pareti. Nient’altro che insignificanti imperfezioni. Bulbose preminenze che introducono l’irregolarità, laddove tutto scorre (πάντα ῥεῖ) secondo il massimo principio universale dell’Universo. Eppur così come la piccola palla di neve, nasce, cresce e si trasforma in un’enorme valanga, lo stesso avviene per l’ostacolo che impatta il flusso dei liquami, arricchito di una certa quantità di flushables. Che la teoria vorrebbe totalmente biodegradabili. Ma la pratica, sa si… Tanto che ad un certo punto, in quel fatale punto, un vortice si forma e inizia ad autoalimentarsi, rallentando quel che corre ogni minuto verso la distante laguna dell’irraggiungibile salvezza. I fazzolettini si annodano. Ed è allora che le cose, in maniera prevedibile, prendono una piega tanto orribile ed inaspettata.
Ecce fatberg: la parola macedonia (alias portmanteau) formata per la prima volta nel 2008 dai due termini iceberg e fat, ovvero “grasso” sebbene tale semplice definizione riesca largamente a mancare il punto chiave dell’intera faccenda. Ciò perché la prototipica montagna di ghiaccio galleggiante negli oceani, staccatosi dalle isole dei poli più remoti, è un’esistenza vagabonda per definizione, che segue il proprio fato tra le onde inclini a trasportarla via, lontano. Laddove l’esistenza ad essa accomunata, nel profondo delle tenebre maleodoranti, quando nasce non si muove dal suo luogo di origine ed appartenenza. Inamovibile ed eterno, creando l’ostruzione che persiste costituendo una barriera che un poco alla volta, compromette il funzionamento dell’impianto di scarico cittadino. Ponendo le basi di una catastrofe persino troppo orribile da immaginare…
L’incombente distopia situazionale del palazzo più imponente a Macao
Scaturendo dal suo massiccio uovo dorato, la torre di cristallo emerge tra le nubi con stranissimo profilo a martello, alto esattamente 256 metri. Come un fiore, come un Faro, come la distanza tra il dire e il fare. Oltre i calibri dei condomini anneriti dallo smog, situati ad un’elevazione comparabilmente limitata dal livello stradale, il suo profilo sfrangiato sembra non soltanto voler grattare il cielo, ma tagliarlo via letteralmente, dallo scorcio che riesce a profilarsi oltre il punto di fuga prospettico dal surrealismo e un certo livello di minaccia latente.
Nel giorno in cui l’espressione programmatica e corrente del cyberpunk sta per ritornare alla ribalta grazie alla pubblicazione dell’atteso videogioco eponimo, è difficile non ricordare come l’intento di partenza di quel movimento, alle sue origini letterarie degli anni ’80, fosse mirato a evidenziare una serie di elementi in forte contrapposizione: la ricchezza delle multinazionali rispetto all’esigenza di arrangiarsi per gli hacker e i samurai delle strade derelitte; la tradizione delle antiche discipline orientali contro la più sfrenate soluzioni digitali dei tempi moderni; il pessimismo, quasi dickensiano, per intere generazioni perdute di fronte alla promessa di un futuro impossibilmente migliore. Transumanismo e cibernetica a parte, tuttavia, sarebbe disingenuo voler fingere che almeno dal punto di vista visuale ed apprezzabile, tale intento segretamente didascalico non si sia rivelato anche profetico, in qualità di commento storico a tecnologie e tendenze che stavano iniziando a palesarsi, con estrema pervicacia, già un trentennio a questa parte, in alcune delle metropoli più variopinte ed interessanti dei nostri tempi. Vedi a tal proposito l’estremo sincretismo di Macao, la più longeva delle colonie europee in Asia, destinata a rimanere tale fino al 1999, prima di tornare in qualità di costola cinese nel Celeste Impero, con qualifica formale non diversa da Hong Kong. Se volessimo del resto riassumere in una singola espressione la fondamentale differenza tra questi due luoghi, potremmo anche scegliere d’utilizzare la singola espressione “gioco d’azzardo”, proibito presso l’isola ex-inglese, e permesso invece qui sulla penisola, che si affacciano a una manciata di chilometri sul palcoscenico del Mar Cinese Meridionale. Ma se la città rinominata dai portoghesi rispetto all’antica definizione di Àomén (澳门) può essere detta la monumentale realizzazione dedicata ad una tale basica pulsione degli umani, ciò è anche attribuibile alla singola figura e l’intento imprenditoriale del grande Stanley Ho, l’unico detentore per gli oltre 50 anni a partire dal 1961 di una licenza atta a costruire e gestire in tale terra la remunerativa struttura di un casinò. O parecchi, come sarebbe giunto a fondarne sotto l’etichetta della compagnia Sociedade de Turismo e Diversões de Macau (STDM) ancora oggi amministratrice di 22 tra le 41 siffatte istituzioni tra i confini della città.
Consultando tuttavia le fonti coéve, appare chiaro come verso l’inzio degli anni 2000 la splendente fama della “Las Vegas d’Oriente” stesse iniziando a sfumare assieme alla reputazione in essere, causa un graduale peggioramento e sovraffollamento di alcune delle strutture più rinomate, diventate luoghi di prostituzione e messa in pratica per alcune delle attività meno apprezzabili degli strati sociali in cerca di un facile, per quanto imprescindibile guadagno. Serviva quindi una ventata di rinnovamento che non fosse solamente dovuta all’apporto d’investimenti stranieri e tale metaforico fenomeno atmosferico avrebbe avuto modo di palesarsi, ancora una volta, grazie alla sapiente mano del suo più anziano amministratore. Così l’onorevole Dato Seri Ho, ormai detentore di uno dei titoli onorifici civili più elevati che possano essere assegnati ai non appartenenti di una casa reale, chiese ed ottenne il permesso di far costruire agli architetti di Hong Kong Dennis Lau e Ng Chun Man un qualcosa che potesse essere degno di rivoluzionare lo skyline, ed assieme ad esso le aspettative dei turisti, convergenti tra i dorati confini di Macao. E quel qualcosa sarebbe stato proprio, da molti e appariscenti di vista, l’impressionante Grand Lisboa Hotel.
Lo sguardo severo della statua che influenza i successi sportivi di Philadelphia
Abolizionista, politologo del concetto di Unione (al punto di teorizzare, per primo, il concetto di un Parlamento Europeo) pacificatore di accordi con le popolazioni dei Nativi Americani. Gli unici scritti destinati, tra l’altro, ad essere rispettati dall’uomo bianco! Per essere stato un soldato nella marina del Commonwealth sotto il comando del generale rivoluzionario Oliver Cromwell, contribuendo perciò in maniera indiretta alla sconfitta militare, la cattura e infine la decapitazione nel 1649 del sovrano protestante Carlo I, si trattava di una persona piuttosto placida e bonaria. Sto parlando del figlio dell’ammiraglio e politico William Penn, destinato ad ereditare il suo nome, cognome e la fortuna di una famiglia inglese dalle ascendenze nobili, pur scegliendo di condurre la propria vita secondo i precetti di una particolare visione del mondo. E letteralmente all’altro capo dello stesso! A seguito dell’acquisto dei terreni per la fondazione in America della colonia denominata, non a caso, bosco di Penn (Pennsylvania). Egli aveva esattamente 23 anni infatti quando, sei anni dopo la guerra e nel corso di una missione nei Caraibi, entrò per la seconda volta in contatto con il missionario ed amico Thomas Loe, devoto appartenente a una particolare comunità religiosa, egualmente invisa ai cattolici e i puritani protestanti. Quella degli Amici o Quaccheri, ferventi pacifisti, praticanti dell’astinenza dalle pulsioni più basse dell’animo umano incluso il conflitto armato, mediante l’accesso immediato al sacerdozio di tutti i credenti e proprio in funzione di ciò il rifiuto di ogni forma di gerarchia ecclesiastica. Potrebbe per questo sembrare piuttosto strano, oltre quattro secoli dopo quegli eventi, che gli eredi di una lunga linea di sangue che può condurci fino alle attuali luci e colori della città di Philadelphia, gli abitanti di un tale luogo possano credere in una sua ferma & fondamentale assenza di comprensione rispetto ai crismi della modernità architettonica, tale da far abbattere la furia degli antenati nei confronti di una delle massime aspirazioni, e più importanti lussi di qualsivoglia comunità statunitense.
Potremmo perciò affermare, nell’America (crudele antonomasia) dedita alle venerazioni quotidiane del canale sportivo ESPN, che al giorno d’oggi esistano quattro pilastri: il football, il baseball, il basket e l’hockey su ghiaccio. Così volgendo lo sguardo all’amena città sul corso del fiume Delaware nell’anno di nostro Signore 1987, non potremmo rivelare null’altro che le auspicate grazie della sua Divina Provvidenza, per le rispettive gesta degli Eagles, partecipanti sconfitti soltanto al XV Superbowl (1980), i Phillies vincitori delle World Series di mazza e palla del 1980 ed ’83, mentre sul fronte del pattinaggio su ghiaccio anche i Flyers potevano vantare un duplice trionfo, quello delle Stanley Cup del ’74 e ’75. Mentre sul fronte dell’NBA, i 76ers avevano vinto le finali del 1983, arrivando più volte a disputarle di nuovo nel corso di quell’epico decennio. Una scia di trionfi destinati tuttavia a interrompersi, come avrete a questo punto potuto immaginare, proprio in funzione di uno specifico momento di svolta per quella che i razionali definiscono “Preparazione sportiva e tattica delle squadre” e molti altri, invece, “Volubile natura del crudele Dio dello sport”. Benché in molti pensarono, fin da subito, che in tutto questo potesse esserci lo zampino di un uomo. O per meglio dire, quello della sua più famosa e svettante statua bronzea, posta all’altezza di 167 metri sulla vetta di uno dei primi grattacieli della Terra: la notevole torre in muratura, mattoni d’arenaria e marmo, del glorioso municipio di Philadelphia, oggi il più grande edificio governativo degli Stati Uniti.