L’intelligenza artificiale del drone anti-squalo

Immaginate uno scenario in cui qualcuno è stato incaricato di premere un pulsante. Non a intervalli regolari, come nel bunker del telefilm Lost, bensì con uno scopo e metodologia precisa: ogniqualvolta il pulsante viene premuto, una vita umana sarà salvata dall’assoluto baratro della dannazione. Questa persona, coperta di una simile assurda responsabilità, dovrà osservare la specifica comparsa di uno spettro affusolato nel mare. E soltanto al riconoscimento di tale diabolica essenza, intervenire. Per le prime settimane o mesi, volendo presumere di trovarci di fronte ad un individuo dall’alto tenore professionale ed equilibrato, tutto procederebbe speditamente. Ma dopo il primo inevitabile errore, costato la vita ad un innocente, il guardiaspiaggia inizierebbe ad irrigidirsi; il giorno a seguire, inizierebbe a premere il pulsante anche in momenti erronei, con conseguente dispendio d’interventi superflui di salvataggio; e dopo la prima serie di errori, inizierebbe a mancare la trascurare segni evidenti dello spettro, causando ulteriori incidenti. La sua vita, ancor più di quella delle vittime, diventerebbe un inferno. Qualcosa di simile è stato scoperto negli ultimi due anni dall’amministrazione regionale del NSW (Nuovo Galles del Sud, Australia) secondo luogo al mondo per vittime degli squali dopo la Florida, capitale mondiale dei bagnanti assaggiati “erroneamente” dal pesce carnivoro per assoluta eccellenza. Da quando, nel 2015, dando il via libera ad un progetto per ridurre simili casi nel luogo che ne ha visti ben 295 a partire dal 1990, di cui 122 fatali, il governo di Sydney ha stanziato i fondi per attivare il più sofisticato sistema multi-canale nella storia dei sette mari. Con reti a ridosso delle spiagge, boe di rilevamento, esche avvelenate, una app per le notifiche sul cellulare e droni, dozzine di droni, prodotti in parte dalla compagnia Little Ripper, con sede a Belrose, non più di 25 Km a nord della grande città di Sydney . La quale, avendo creato anche una scuola per l’addestramento e la preparazione sul campo degli addetti al pilotaggio e rilevamento, ha avuto modo di rilevare come l’accuratezza delle vedette a distanza fosse sorprendentemente bassa, nell’ordine del 20-30% di squali avvistati correttamente, senza fare confusione con delfini, balene o grossi pesci di vario tipo. Il che ha portato, negli ultimi tempi, alla ricerca di una soluzione alternativa: e se fossero i computer ad occuparsi di questa mansione?
Fa il suo ingresso in scena, a questo punto della tragedia, il team di ricerca del Prof. Michael Blumenstein, direttore della scuola di software nel dipartimento di scienze informatiche dell’Università Tecnologica di Sydney. Figura attiva nel campo dell’intelligenza artificiale, ma sopratutto, nell’ultima nuova branca di questo ambito, le reti neurali. Coadiuvato tra gli altri da un’altro ricercatore di origini indiane, il Dr. Dr Nabin Sharma, già produttore di algoritmi simili per il riconoscimento delle grafie orientali.  Fino a poco tempo fa, eravamo abituati a considerare lo strumento delle entità frutto della programmazione umana come ottimo per gestire i numeri, mediano con le parole, e pessimo per quanto concerneva l’interpretazione delle vere e proprie immagini, attività totalmente ingestibile senza possedere la preziosa fiamma del ragionamento autonomo, puro appannaggio del regno animale. Questa situazione, con gli ultimi progressi nella rapidità di calcolo e lo spazio d’immagazzinamento dati, è stata negli ultimi tempi notevolmente mitigata. E questo soprattutto grazie alla metodologia dell’apprendimento profondo, codificata nella prima volta nel 2006, ad opera degli scienziati Hinton e Salakhutdinov, che hanno scoperto come l’intelligenza artificiale potesse essere suddivisa in strati, e ciascuno di essi addestrato come una macchina stocastica di Boltzmann priva di supervisione. Il che significava, in parole povere, sottoporgli come possibile scenario di utilizzo una quantità spropositata di interpretazioni dello stesso soggetto, concetto o immagine, finché il computer non diventasse in grado di riconoscerlo ed interpretarlo in totale autonomi. In quello che si potrebbe definire, non senza un certo timore reverenziale, la vera scintilla della vita creata in laboratorio. Macchine che possono salvarci oppure distruggerci, dunque, come profetizza più di qualcuno, ma che soprattutto nel frattempo, possono agire per semplificarci notevolmente la vita. Ed in qualche caso risparmiarci l’incontro con belve feroci del più mordente tipo…

Leggi tutto

L’invenzione tardiva delle sospensioni navali

“Non è fantastico?” Disse John F. Derrick, architetto di fama presso la Big Apple di New York, NY: “Poter attraversare il capo di Buona Speranza con tanta comodità, persino durante una piccola tempesta?” Ivan Gubanov ci mise qualche secondo a rispondere, mentre allineava attentamente l’occhio sinistro con la biglia bianca, ponendosi in asse rispetto alla buca. “Piccola, tu dici? A me questa non pare piccola.” Enuncio infine, con il suo marcato accento, udibile in modo particolare nelle sillabe con vocali forti. Con un sospiro, tirò indietro la stecca, quindi tirò. “Se tu guardi bicchiere di Vodka sopra tavolo, vedrai l’effetto che tutto questo ha sulla stabilità di grossa nave.” Quasi a sottolineare le sue parole, in quel momento una posata cadde giù dal tavolo del buffet. La palla rossa a cui aveva mirato, sfortunatamente, mancò la sponda nel punto prefissato, rotolando a qualche centimetro di distanza da essa, mentre il sistema idraulico sotto al tavolo, sbuffando rumorosamente, lo manteneva perfettamente orizzontale. Adesso toccava all’americano: “Si ok c’è qualche vibrazione, ma io non credo che il capitano sia in alcun modo preoccupato. Dopo tutto, qual’è la cosa peggiore che possa succedere? Un naufragio, ah ah!” Ivan aggrottò le sopracciglia, quindi si rassegnò a lasciar correre, mentre aspettava che il destino della partita facesse il suo corso. I quadri alle pareti della Riva Spaziosa, bastimento da 300 metri e 92.000 tonnellate, sembravano altrettanti metronomi animati da una loro forza interiore. John allineò il colpo con attenta considerazione strategica. John calibrò attentamente la potenza e quindi John lasciò liberi i mastini della guerra verso un obiettivo non proprio facile da trovare. Ivan, dall’occhio maggiormente allenato, era certo che a quel punto sarebbe stato in perfetta posizione per  vincere la partita. Non una singola volta, il suo rivale aveva centrato esecuzioni tecniche di una simile difficoltà. Ma proprio mentre la stecca stava per raggiungere la palla bianca, successe qualcosa d’imprevisto ed inaspettato: le tende alla finestra si scostarono visibilmente, a mostrare un’onda più alta delle altre che stava impattando proprio in quel momento a babordo del possente natante. Entrambi i giocatori fecero un mezzo passo avanti per mantenersi in equilibrio, proprio mentre l’americano tirava. La traiettoria deviata dal caso, tuttavia, si dimostrò più corretta del previsto, mentre la sfera rossa raggiungeva la buca d’angolo e senza un suono, scompariva alla vista dei potenziali spettatori. “Lo vedi John, questo è quello che io chiamo fortuna. O se tu crede, questo punto l’ha fatto onda di grande mare. Io NO capisco perché sistema di stabilizzazione tavolo biliardo non può essere usato su tutta dannato nave.” Strizzando lievemente gli occhi, l’architetto si preparò al prossimo turno, ma la sua mente era già altrove. Stava pensando intensamente a qualcosa che aveva letto su Internet un giorno, e al fatto che nel giro di qualche settimana, si sarebbe ritrovato in Australia.
C’è un altro capo famoso che compare immancabilmente sul tragitto di tutte le crociere dirette verso l’Oriente, attraverso il continente di Oceania e tutta l’area del Pacifico meridionale. Senz’altro meno famoso, e agitato, il Cape Naturaliste non avrà forse dinanzi una città come la capitale del Sudafrica, ma vanta non di meno una ridente comunità di appena 5.000 abitanti, nota con il nome preso in prestito dall’Inghilterra di Dunsborough. Non siamo poi così lontani da Perth e benché qui manchi, naturalmente, la sua industria pesante, non c’è alcuna carenza di fervide menti che hanno studiato presso la sua celebrata Università. Così nuove compagnie spuntano spesso all’ordine del giorno, in modo particolare nell’ambito scientifico e il campo della tecnologia. Realtà operative come la Nauti-Craft di Chris Heyring, ex-professore di modellazione tridimensionale che ha deciso, nel 1982, di abbandonare il suo posto di lavoro sicuro per fondare una compagnia assieme alla moglie, intraprendendo la difficile strada dell’inventore. Nel giro di 8 anni accumula una quantità significativa di premi e riconoscimenti per le sue innovative tensostrutture, che trovano applicazione in diverse zone dell’Australia. Finché nel 1990, arriva la svolta: Chris forma la Kinetic Pty Ltd, brevettando un innovativo tipo di sospensioni, che lui chiama alquanto appropriatamente Kinetic Dynamic Suspension System O KDSS. Usato in diversi modelli da strada giapponesi della Toyota e della Lexus, nonché nelle loro auto da corsa, il meccanismo si rivela effettivamente assai utile e concede al suo creatore una solida base economica, su cui porsi in modo pratico la domanda che in realtà, forse, aveva da sempre custodito in se: sarebbe mai possibile, volendo, ammortizzare una nave?

Leggi tutto

L’artiglio del velociraptor che vive ancora

È difficile talvolta interpretare la vera natura degli animali, e diventa ancora più difficile quando la creatura presa in considerazione, purtroppo, si è estinta da tempo. Vedi ad esempio il dromaeosauride per eccellenza, reso celebre nella seconda metà degli anni ’90 dal film di fantascienza Jurassic Park, come un feroce e scaltro predatore, in grado di dare la caccia spietatamente ad un gruppo d’umani coinvolti loro malgrado dal corso degli eventi. Nel 2007, quindi, la scoperta: segni dell’ancoraggio di piume sopra un fossile ritrovato in Mongolia. Gli esperti l’avevano a lungo sospettato, e adesso ne avevano la prova: questo veloce, piccolo e spietato dinosauro (così vuole lo stereotipo) non era primariamente un rettile. Bensì un uccello. Siamo soliti definire il coccodrillo come l’ultimo erede della genìà dei raptor, il che è sostanzialmente erroneo: poiché il coccodrillo, a quell’epoca, già esisteva. Il discendente più prossimo nelle dimensioni sarebbe lo struzzo, come non-volatile privo di keel, la struttura ossea connessa allo sterno per sostenere il volo attraverso le ali. Ma allo struzzo manca qualcosa, per così dire, di liscio e appuntito. L’arma, il pugnale, il crudele strumento, che per milioni di anni avrebbe fatto di questa intera classe di creature i più feroci dominatori delle pianure. Oggi tutti i ratiti rimasti, questo il nome della categoria, sono esclusivamente erbivori e questo vale anche per il casuario, che mangia per lo più frutta e ne disperde i semi, costituendo una specie chiave dell’ecologia locale. Eppure anche la più pacifica delle bestie, in determinate condizioni avverse, può aver bisogno di fare ricorso all’autodifesa. Ed è per questo che il sistema dell’evoluzione, nella sua infinita ed innata saggezza, non scelse mai privare l’utile creatura del rostro da 125 mm incorporato nel dito centrale di ciascuna zampa, facilmente in grado secondo l’ornitologo Ernest Thomas Gilliard di “tagliare di netto un braccio o recidere una giugulare umana.” Del casuario esistono nominalmente 4 specie:  Casuarius bennetti, alto “appena” 150 cm, un tempo ammaestrato come status symbol dai capi delle tribù della Nuova Guinea; il Casuarius unappendiculatus, dalla grandezza e distribuzione simili, però dotato di riconoscibile collo giallastro; Casuarius lydekkeri, una specie pigmea estinta nel Pleistocene. E poi c’è lui, Casuarius casuarius, anche detto (il) Meridionale, l’impressionante uccello alto più di una persona (fino a 170 cm le femmine) che trova la sua maggiore diffusione selvatica sulle coste del Queensland, la “pinna” geografica che si erge nella parte Nord-Est dell’isola d’Australia. Nel 90% dei casi, quando si parla di questi uccelli ci si sta riferendo a questa specie, di gran lunga la più diffusa e l’unica a trovarsi occasionalmente ad interferire con la società umana. Come accadde l’ultima volta in massa nel 2011 a seguito del ciclone Yasi, che disturbò l’ecosistema e spinse gli uccelli a muoversi verso l’entroterra, invadendo i paesi e le comunità litorali. Il che causò un’ampia serie di problemi, le cui conseguenze stiamo vivendo ancora: poiché le persone, incuranti degli avvisi affissi un po’ ovunque e ripetuti in televisione, fece l’errore di dare da mangiare alle splendide creature, per una sorta di innato, moderno senso d’empatia. Il che le rese, paradossalmente, ancor più pericolose. Si ritiene che un casuario selvatico viva all’incirca 50-60 anni, durante i quali apprende, ricorda ed incamera le sue esperienze. Una volta che questi associa gli umani al cibo, dunque, continuerà a cercarli con insistenza. Restando pronto, nel caso in cui la soddisfazione tardi ad arrivare, ad esporre un sollecito con la sua dote più sviluppata. Ed è allora che il grosso uccello salta in avanti, cercando di uccidere le persone.
L’attacco di un casuario è una visione terrificante, poiché a differenza degli emu o gli struzzi, che notoriamente preferiscono calciare all’indietro, questi balza frontalmente ed allunga il rostro in avanti, sollevandolo quasi all’altezza della testa dotata di una dura cresta ossea, normalmente usata per tenere a distanza la vegetazione. Mentre emette il suo grido di battaglia, un verso cavernoso e profondo che si avvicina sensibilmente alla frequenza più bassa udibile dall’orecchio umano. Ed è allora che ci si rende conto di come una nuova epopea cinematografica, una sorta di reboot scientifico di quel film citato in apertura, potrebbe ipoteticamente risultare anche più spaventoso del suo ispiratore remoto, in cui i dinosauri in questione erano ancora “soltanto” delle lucertole. Ma con la postura, a ben guardarli, di uccelli! Non è certo un caso se esiste una citazione famosa, attribuita ad un non meglio definito guardiano dello zoo, che recita: “Preferirei restare chiuso nel recinto dei coccodrilli, piuttosto che in quello dei casuari.” Dico, vuoi mettere? Un rettile che striscia, contro un uccello che corre. Restando egualmente capace di porre fine alla tua esistenza… Non credo che sarebbero molti, a pensare di dargli torto. Eppure nonostante tutto questo, il casuario è un uccello naturalmente timido, che tende ad eclissarsi al primo suono di provenienza umana. È soltanto in situazioni specifiche ed anomale, che questi può attaccare gravemente una persona. Esiste in effetti un singolo caso documentato di morte, risalente al remoto 1926, quando i due giovani fratelli McClean, 13 e 16 anni, trovarono un esemplare nel loro giardino, e per qualche atavico istinto di diffidenza, presero dei bastoni per tentare di ucciderlo o cacciarlo via. Ma fu allora che l’uccello, sentendosi comprensibilmente minacciato, gli balzò addosso, causando la fuga immediata del più piccolo e la caduta a terra del maggiore, che finì quindi per ricevere una ferita estremamente grave all’altezza del collo causata dal rostro dell’animale. Nel giro di pochi minuti, morì dissanguato. A quanto ne sappiamo, da quel giorno, nessuno attaccò più il casuario con dei bastoni. Tranne, ovviamente, coloro che devono farlo per mestiere.

Leggi tutto

Se un barattolo di lievito può conquistare una nazione

Successe all’incirca un paio di anni fa. L’attore australiano Hugh Jackman, a.k.a. Wolverine l’X-Man invulnerabile dai lunghi artigli, che durante un’intervista dello show di Jimmy Fallon si sentì in dovere di tirare fuori un tostapane, col caratteristico barattolino dal tappo giallo. “Voi [americani]…” esordì sottintendendo la seconda parte, con tono bonario ma realmente esasperato: “Voi… Non la capite, solamente perché la mangiate nel modo sbagliato. Vegemite non è soltanto un qualche cosa che il medico prescrive, per alleviare una carenza della vitamina B. Questa cosa la si mangia a colazione, perché è veramente BUONA. Yum!” Segue la scena tipica, ripetuta in mille video di YouTube, dell’esperto che apre la confezione, permettendo alla controparte di giornata di annusarlo. E l’espressione visibilmente sconvolta del conduttore Jimmy, che storce gli occhi e arriccia il naso, di fronte al possente e inevitabilmente spiacevole aroma di carne salata. L’estratto di lievito è un qualcosa che si assume con moderazione. Eppure, chiedete voi a un anglosassone del Vecchio, oppure Nuovissimo mondo: c’è all’incirca un 50% di probabilità che lo troviate pienamente allineato con l’opinione di Mr. Logan “Ossa d’Adamantio” Howlett. Per poi lanciarsi in una lunga disquisizione sule perché, esattamente, la versione del SUO paese sia sensibilmente superiore. E per quanto concerne la restante metà della popolazione… Beh, lasciamo perdere. Ma la faccenda chiave, che di certo potrebbe condizionare anche noi italiani trovandoci di fronte ad una simile pietanza, è che una tale cosa non va spalmata sulla fetta della colazione come fosse marmellata, miele o (Dio non voglia) dolcissima Nutella. Bensì centellinata con la punta del coltello, e possibilmente smorzata con un sottile velo di burro. A tal punto è forte, e caratteristico il suo sapore. Tutto considerato, sembra strano che il concetto non risulti più noto al pubblico generalista. Ma a giudicare dall’opinione diffusa in merito all’impasto concentrato su scala internazionale, la persona media odia la Vegemite, semplicemente perché tenta di mangiarne troppa, tutta assieme.
E dire che qui siamo di fronte, dopo tutto, ad un qualcosa di tutt’altro che nuovo. La prima diffusione della crema avvenne in Inghilterra nel 1902, a seguito della scoperta dello scienziato tedesco Justus von Liebig, relativa al fatto che il lievito avanzato dalla produzione della birra non dovesse, in effetti, essere gettato via o impiegato come concime. Ma che piuttosto era possibile trattarlo e imbottigliarlo, per procedere alla sua consumazione futura. Si trattò di una rivelazione simile, se vogliamo, a quella del miso giapponese, la risultanza collaterale della produzione di un’altra sostanza frutto della fermentazione, la salsa di soia. E che come quest’ultima, trae l’origine dall’impiego copioso del sale. Una volta estratta e separato questo conglomerato di cellule fungine, infatti, esse vengono rese ipertoniche tramite l’aggiunta del sodio. Un processo che sostanzialmente, le uccide, bloccando ogni potenziale alterazione futura. A questo punto l’impasto fluido, ancora troppo denso e non gradevole al palato, viene filtrato attraverso una macchina vibrante, che separa e rimuove le membrane esterne del fungo microscopico. lasciando indietro il fluido scuro che diventerà, pressoché spontaneamente, Marmite o Vegemite. Già, c’è un doppio nome: perché l’irrinunciabile ingrediente della prima colazione, a dire il vero, non nasce affatto nella versione più dolce (e almeno dicono, più facile al palato) della terra emersa più estesa del continente di Oceania risalente solamente all’epoca successiva alla prima guerra mondiale, bensì presso la Marmite Food Extract Company di Burton sul Trent, nello Staffordshire d’Inghilterra. Esportata quindi nel remoto 1908 la licenza in esclusiva del prodotto verso la Sanitarium Health Food Company della Nuova Zelanda, agli australiani non restò che farne una versione propria, modificata con l’aggiunta di zucchero e caramello. Ora, chiedete ad un australiano cosa pensa della Marmite inglese, e questi vi risponderà, probabilmente, che è amarognola alla stregua di una punizione per i bambini cattivi. E se fate l’inverso con la Vegemite, sono pronto a scommettere che l’altro vi dirà che pare un snack dolce con l’orribile aggiunta di sale, oppure che semplicemente, la mistura richieda più sale. Molte faide sono nate in merito a una simile disquisizione…

Leggi tutto