La morsa ferrea del paguro lungo un metro

coconut-crab

Al termine della seconda guerra mondiale, le terre emerse di Tahiti costituivano ancora un luogo in larga parte incontaminato. Tralasciando i rottami di due navi francesi nel porto, affondate dalle cannoniere tedesche, e i segni del bombardamento conseguentemente subìto dalla colonia degli europei, il territorio della maggiore tra le Isole del Vento era coperto da una lussureggiante foresta pluviale, il cui contenuto rimaneva largamente sconosciuto ai non nativi. Ma le cose stavano per cambiare. Era il 1946, quando il celebre naturalista inglese Carl Alexander Gibson-Hill, con la sua equipe di studiosi, terminò di prepararsi ed avviò una spedizione tra l’ombra dei maestosi alberi, alla ricerca di specie animali o vegetali precedentemente sconosciute. La marcia proseguì spedita, mentre le candide spiagge, per la prima volta, svanivano dietro le spalle dei visitatori. Versi di uccelli mai sentiti prima accompagnavano la marcia silenziosa. Al risveglio dalla prima notte all’interno di alcune tende allestite in una spaziosa radura, tuttavia, il gruppo avrebbe avuto una spiacevole delle sorprese: diversi oggetti di variabile importanza mancavano all’appello. Delle posate ed un grosso coltello, lasciati distrattamente accanto al fuoco spento dell’accampamento. Alcune pentole metalliche, una borraccia. Addirittura un sandalo spaiato. Stupito e inquietato, Gibson-Hill si rivolse alla guida locale, chiedendogli se da queste parti vivessero delle comunità con cui non era stato ancora effettuato il primo contatto: “Mr England, tu non deve preoccupare. Uomini non ha rubato tue cose da accampamento. Questo furto è opera di ua vahi haari: grosso granchio che rompe il cocco.” Ah, d’accordo. Allora tutto ok. Immaginate un mostro alieno che si arrampica sugli alberi, grazie ad otto zampe unghiute e due possenti chele. Mentre le antenne, sottili ed agili come tentacoli, si muovono ritmicamente ad annusare in ogni direzione…
Probabilmente avrete familiarità, come chiunque sia mai stato al mare, con la buffa sagoma del granchio eremita. Uno degli esponenti delle molte specie del genere Pagurus, dalle nostre parti non più grande di qualche centimetro, caratterizzato dalla graziosa abitudine di proteggere il suo molle addome con qualcosa di trovato in giro, come una piccola conchiglia, un pezzo di legno, un tappo di bottiglia… Ora simili animali, come molti altri crostacei, raddoppiano le proprie dimensioni più volte nel corso della propria vita, evento a sèguito del quale non soltanto scartano il proprio esoscheletro, per costituirne faticosamente uno nuovo, ma devono immediatamente premurarsi di trovare una casa nuova. Ora queste creature vivono in comunità, ragione per cui un’intera famiglia di essi, quella maggiormente adattata alla vita sulla terra ferma, prende il nome di Coenobitidae, ovvero in latino ecclesiastico “[Coloro] che prendono parte al convivio”. Tende a verificarsi occasionalmente, dunque, una strana occasione: decine e decine di paguri, l’intera popolazione di una spiaggia, s’incontra all’alba per decidere chi abbia diritto alle conchiglie migliori. Gli esemplari più grossi combattono bonariamente tra loro, mentre quelli piccoli generalmente, possono godere dell’acquisizione dei loro scarti, che comunque indossano con estrema soddisfazione. Come si dice: la spazzatura di qualcuno è il tesoro di qualcun altro! Tutti prendono parte al vivace carosello, e generalmente, tutti ricevono, alla fine, un abito (quasi) perfetto per loro. Tutti… Tranne il più grande e nudo dei Coenobitidaeche ormai da molti secoli ha del tutto rinunciato a procurarsi un abito della sua misura. Egli è il Birgus latro, o come viene più comunemente chiamato, lo spaventoso granchio ladro.
La caratteristica principale di questo insolito prodotto dell’evoluzione, che in epoca remota è riuscito inspiegabilmente a colonizzare un vasto numero d’isole estremamente distanti tra loro nel bel mezzo del Pacifico e dell’Oceano Indiano, è che esso si è completamente adattato alla vita nell’entroterra nella sua forma adulta, arrivando ad abitare a fino 6 Km dalla spiaggia più vicina. Finché non giunge l’ora di tornare al luogo della nascita, per deporre le proprie uova.

Leggi tutto

La pianta che uccide la fotosintesi umana

panace-in-trentino

Chi ha detto che la morte e la sofferenza hanno sempre un aspetto orribile, offrendoci l’opportunità di sfuggire sulla base del nostro istinto innato? Talvolta, ciò che è bello nasconde un terribile segreto. E soltanto chi compie l’errore di toccarlo, potrà conoscere gli abissi più profondi ed atroci del senno di poi. Guardate per esempio, questi magnifici e svettanti fiori biancastri… Ci pensereste due volte, a toccarne il fusto per avvicinarvi e sentirne da vicino l’odore? Eccovi dunque, un avviso di pubblica utilità: non fatelo mai NELLA vostra intera VITA.
Ora, nello specifico non è particolarmente diffuso il caso di persone che, per trascorrere un pomeriggio un po’ diverso, scelgano di camminare lungo il tratto della Strada Statale 50 che collega i paesi di Bellamonte e Paneveggio, sebbene si tratti una parte estremamente gradevole del Trentino e un esempio di paesaggio italiano naturalmente simile al giardino di un lord. Ma l’impiego preferenziale di automobili è un’ottima fortuna, come si può chiaramente desumere da questo video dell’utente Paolippe risalente a un paio di anni fa, in cui egli ci mostrava un aspetto…Lievemente…Problematico di questi rigogliosi prati: la presenza non spiegata e totalmente fuori controllo di una delle piante più pericolose al mondo, la Pànace gigante di Mantegazza (Heracleum m.) che prende il nome dal patriota, darwinista e precursore ottocentesco della fantascienza italiana, Paolo Mantegazza. Un dubbio onore concessogli dagli amici e colleghi scienziati Emile Levier e Stephane Sommier. Basterebbe infatti soltanto sfiorare questi sottili arbusti di fino a 5 metri, lasciando che la linfa che la ricopre entri in contatto con la propria pelle scoperta, per ritrovarsi a gestire il pieno effetto di un terribile veleno. I cui sintomi, piuttosto che includere uno stato temporaneo di paralisi o causare un “semplice” forte dolore, ricercano un metodo più subdolo per farvi pentire di essere nati: spalancare le porte della vostre difese contro i raggi UV, per poi lasciare che sia l’inconsapevole astro solare, ad ustionare orribilmente la parte colpita. L’esperienza personale di chi resta affetto da questa malefica specie vegetale, appartenente alla famiglia delle apiacee, imparentata con il ben più semplice finocchio ed altre piante usate in ambito alimentare, appare spesso degna di essere narrata attorno ad un fuoco acceso per la notte di Halloween, tanto scuote dalle fondamenta la nostra concezione di un mondo in cui tutto dovrebbe tendere in qualche maniera al bene. Davvero, voi non avete idea! Perché per qualche terribile momento, non succede assolutamente nulla.
Più di un povero bambino in Gran Bretagna, paese in cui la pianta originaria del Caucaso è molto diffusa, negli ultimi anni si è avvicinato ed ha preso a giocare col pànace, entrando in contatto col tronco e le foglie. Oppure, ipotesi ancor più atroce: un cane portato a passeggio si era avvicinato, possibilmente senza riportare conseguenze (alcuni animali sono immuni) ma portando nel pelo una quantità esiziale dell’insidiosa linfa. Toccata la pianta o l’animale, trascorsi 20, 30, 40 minuti: fino a lì, zero sintomi. Quindi qualche ora dopo, con un arrossamento improvviso, le mani, braccia e talvolta anche il viso si sono quasi istantaneamente ricoperte di enormi vesciche, richiedendo una rapida corsa all’ospedale più vicino. E sia chiaro che questa condizione rischiosa, che in casi estremi può anche condurre alla cecità e alla morte, non era una reazione allergica, né l’effetto su di un fisico indebolito da altri problemi di salute, ma l’imprescindibile effetto di una concentrazione estrema di furanocumarine fotosensibilizzanti, un tipo di sostanze usate nelle creme abbronzanti fino al 1996. Ma non c’è niente che nutra e protegga la pelle, nell’atroce vendetta della pianta che prende il nome del buon Mantegazza…

Leggi tutto

Il bruco pettinato come un aspirante presidente degli U.S.A.

megalopygidae

Gli animali possono prendere il nome dalle situazioni di contesto più diverse: possono riprendere quello del loro scopritore (Gazella di Thompson, Aquila di Stellar) trovarsi connotati da un aggettivo che sottolinei il loro aspetto evidentemente maestoso (gufo reale, pinguino imperatore) o di un sentimento che potrebbero suscitare nell’osservatore, mentre tenta di tornare all’automobile lungo un sentiero di montagna (ad esempio, l’Ursus arctos horribilis, che poi sarebbe il temibile orso grizzly). Altre volte, a prestare l’appellativo a una particolare specie ci pensa un’importante personalità pubblica o dello spettacolo, generalmente con l’intento di rendergli in qualche maniera onore: esiste un ragno della botola detto Aptostichus angelinajolieae, così come una particolare mosca dei fiori diffusa in Costa Rica si ritrova denominata Eristalis gatesi, dal cognome del magnate ex-direttore d’azienda Bill Gates. Talvolta, invece, la situazione sfugge chiaramente di mano e sconfina fuori dal reame della logica: l’appellativo dell’attuale presidente uscente Barack Obama si ritrova attribuito ad un pesce, una lucertola estinta, un fungo e un parassita delle anatre, tra le svariate e scollegate altre cose. Sembra dunque che intraprendere una carriera politica fino ai massimi livelli sia un sicuro biglietto per comparire non soltanto sui libri di storia, anche all’interno di quelli di biologia. E forse, non sempre nella maniera in cui sarebbe desiderabile riuscirci.
Quando in tempi non sospetti la coscienza collettiva di Internet vide comparire sotto i propri occhi questa particolare larva di lepidottero, nota in determinati ambienti informali come bruco-gatto o bruco-cane (si scorge una vaga somiglianza col profilo di un grazioso pechinese) iniziò subito la corsa per cercare un nuovo termine metaforico di paragone. Pur sapendo bene che doveva trattarsi di un Megalopygidae, ovvero il bruco di una di quelle falene diffuse in tutto il continente americano ma in particolare negli Stati Uniti del sud-est, il cui addome risulta ovviamente altrettanto ricoperto di escrescenze pilifere color marroncino. Fu tuttavia ben presto chiaro che non ci trovavamo di fronte al solito esponente della specie M. Opercularis, il cui effetto dolorosamente urticante risulta fin troppo noto ai giardinieri ed agli escursionisti d’oltreoceano, così come la sua dimensione relativamente ridotta di un paio di centimetri. Bensì di qualcosa di completamente nuovo e più grande: ovvero il trumpapillar, o in altri termini, il bruco di Donald Trump. In questo caso, almeno, l’associazione risulta essere piuttosto chiara. Più volte è stato infatti messo in evidenza lo stile altamente personale della capigliatura del candidato presidenziale repubblicano, considerata tanto insolita dall’aver fatto pensare da alcuni, per un tempo piuttosto lungo, che potesse trattarsi in effetti di un toupée. Ipotesi clamorosamente smentita verso la metà di settembre, quando l’industriale e politico è comparso in Tv durante il popolare talk show di Jimmy Fallon, permettendo al presentatore di scompigliare giocosamente l’oggetto della pilifera discordia. Una dimostrazione, va pur detto, di encomiabile auto-ironia.
Cosa ne pensi il candidato di questo bruco, invece, non ci è dato di saperlo. Questione in realtà piuttosto delicata proprio perché, come accennavo poco più sopra, questa intera categoria di insetti non è considerata propriamente desiderabile in alcun paese facente parte del suo habitat, in primo luogo per la sua capacità di riprodursi in modo estremamente rapido, divorando le più beneamate piante di qualsivoglia giardino. E poi, dettaglio niente affatto da poco, perché si tratta del bruco più velenoso degli interi Stati Uniti d’America. Proprio questa sarebbe, in effetti, la funzione dei suoi accattivanti “peli” o capelli: nascondere un fitto reticolo di aculei, sottili al punto da risultare quasi invisibili, funzionanti come una miriade di aghi ipodermici. Al cui contatto, viene inoculato attraverso la pelle umana una sostanza nociva la cui specifica composizione, a dire la verità, non è stata ancora mai studiata. Mentre si conoscono, anche fin troppo bene, i suoi effetti: entrare accidentalmente in contatto col trumpapillar o un qualsiasi altro esponente della sua genìa, causa un immediato gonfiore della parte colpita, con la comparsa di una ferita sanguinante dall’aspetto a reticolo, riprendente la disposizione degli aculei della larva. Si tratta generalmente di una situazione non pericolosa per la sopravvivenza di un umano adulto, benché possa giungere a costituire, in effetti, un’emergenza medica mediamente grave. Il dolore è infatti MOLTO intenso, arrivando a ricordare da vicino, secondo testimonianze reperibili online, quello della rottura di un osso. Inoltre dura almeno 10-12 ore, durante le quali sembra estendersi e raggiungere i linfonodi più vicini. Una persona colpita sulla mano, ad esempio, molto presto proverà sofferenza nell’intero braccio fino all’articolazione della spalla. Vi lascio immaginare, dunque, quanti pochi predatori naturali abbia questa creatura, un aspetto di cui tra l’altro riesce ad approfittarsene un piccolo uccello…

Leggi tutto

Piume di fuoco e l’insistente richiamo del Paradiso

greater-bird-of-paradise

“Sono qui! Sono qui! Stai parlando di me? Cucù! Cucù!” Intere generazioni di telespettatori, appartenenti alle nazionalità più diverse, sono rimaste nel tempo profondamente affascinate dal particolare tono di voce del naturalista David Attenborough, dalle sue puntuali esposizioni al cospetto di alcune delle creature più incredibili di questo pianeta. Infinite ore di esplorazioni, avventure, momenti televisivi di pura scienza. E dunque ben pochi, fino a quel giorno, si erano permessi di interromperlo. Più volte! Davvero gli scapestrati giovani di oggi….Davvero… Non ci sono più gli uccelli di una volta. Saltellando vistosamente, su di un ramo sopraelevato, il soggetto del problematico contrattempo: un volatile decisamente fuori dal comune. Marrone con la testa per metà gialla, come il cuore di un limone, e l’altra parte verde iridescente. Il becco piccolo e rivolto verso il basso, aperto ritmicamente nelle enunciazioni del suo cacofonico racconto di giornata. Il corpo marrone, graziato dal più eccezionale ciuffo decorativo che la mente di un ornitologo possa immaginare: piume lunghe e sottili a partire dal retro del collo e fino alla metà della schiena, che paiono essere state prelevate precedentemente dalla coda di un uccello due volte più grande. E poi riattaccate, dopo un’appropriata tintura per meglio concordarsi col resto dell’eccezionale livrea, grazie ad un generoso impiego di super-colla. Momentanea umiliazione che spiegherebbe, se non altro, il temperamento dell’inafferrabile piccolo ribelle.
Ma come tutti fin troppo bene sappiamo, non c’è niente in tutto questo che la natura non possa aver già creato da se. E questo, per quanto si riesce a sentire in mezzo all’atroce frastuono, è in realtà un comune Paradisaea apoda della Papua Nuova Guinea, creatura dall’areale ridotto ma molto diffusa, al punto da rientrare nell’invidiabile categoria degli animali a rischio d’estinzione pressoché inesistente. Verrebbe da chiedersi, quindi, perché non sia un abitante comune di centomila gabbiette, alla maniera dei ben più universalmente diffusi pappagalli. Il fatto è che…Avete provato a prenderne uno vivo? Il suo luogo abitativo d’elezione, per quanto concerne la nascita nel nido, il nutrimento, il corteggiamento di una compagna, raramente si trova al di sotto dei 50 metri dal livello del terreno, in prossimità dei rami più alti di una delle foreste tropicali più selvagge e incontaminate del pianeta. L’unico modo di prendere una fenice, come dicevano le antiche leggende, è sempre stata quella di lanciargli una freccia. E come potrete facilmente immaginare, non pochi, nel tempo, si sono impegnati a farlo: talmente diffusa era anzi, fino al sopraggiungere dell’epoca vittoriana, l’usanza di pagare gli indigeni di questi luoghi per far fuori un qualsiasi appartenente delle oltre 40 specie di uccelli del paradiso, che il nome stesso di questo uccello significa in latino: “privo di piedi”. Una strana definizione, derivata principalmente dal fatto che le incolpevoli prede venivano spedite oltreoceano in tale specifica configurazione, dopo che gli arti e le ali erano stati rimossi dai cacciatori locali per farne ornamenti appartenenti alla loro tradizione. Fu dunque creata un’intera teoria in merito al loro stile di vita, basata proprio sull’improbabile idea che essi fossero, per usare un’espressione particolarmente calzante, fatti PROPRIO così. Lo stesso celebre studioso e navigatore italiano Antonio Pigafetta (1492-1531) ipotizzò addirittura che il maschio nidificasse sulla schiena della femmina, senza posarsi mai a terra. E chi ha detto che la fantascienza è un’invenzione risalente soltanto allo scorso secolo…
Del resto, occorre pur comprendere il contesto di un tale fraintendimento. Era l’epoca delle grandi esplorazioni, in cui tutto appariva nuovo e fantastico, del tutto privo di termini di paragone. Gli animali più folli e stravaganti, considerati la prova lungamente attesa dell’ingegno divino, venivano osservati sulla base della loro eccezionale apparenza e lo stesso Linneo, nel XVIII secolo, non poté fare a meno di riprendere la precedente nomenclatura anche perché lui, assai probabilmente, un P. apoda vivo non avrebbe mai avuto l’opportunità di vederlo. A quell’epoca, purtroppo, non c’era la televisione, né i fantastici documentari naturalistici prodotti dalla BBC. E soprattutto mancava ancora, ahimé, la suadente voce dell’uomo che ha dedicato la sua intera vita a divulgare informazioni in merito al mondo che ama di più. Anche se a volte, sembra quasi che esista da sempre…

Leggi tutto