Spiegando il prato umido sopra la pecora dal piede di lumaca

Perché si sappia che la simpatica creatura verderana di mare appartenente al genere Costasiella, protagonista di migliaia di post di Instagram, Pinterest ed altri social, è in realtà una LADRA di CLOROPLASTI, che segretamente SUCCHIA VIA dalla forma a ventaglio delle sue alghe preferite, presso i bassi fondali delle sue terre d’origine d’Oriente. Non proprio un modello da prendere ad esempio, nevvero? Amanti delle cose piccole e striscianti, come gli erpetofili dal pratico terrario dei serpenti, che non mai potrebbero d’altronde possedere una creatura tanto rara, insolita e preziosa. Ecco allora come nasce la leggenda, di un’immagine che tanto spesso viene messa sopra un piedistallo, accompagnata dai commenti e cuoricini metaforici del caso, prima e dopo l’ora subdola del nutrimento. Per un vero fenomeno lungo 1 cm dell’evoluzione naturale: quanti altri animali, pluricellulari e complessi d’altra parte, possono affermare di riuscire a trarre beneficio dalla fotosintesi clorofilliana?
La C. Kuroshimae dunque, che prende il nome dall’isola giapponese di Kuroshima presso cui fu per la prima volta descritta scientificamente nel 1993, è un’apparentemente tipica rappresentante del gruppo informale delle lumache di mare, in realtà classificata dalla scienza non nell’ordine dei piuttosto celebre dei nudibranchi, bensì il diverso clade dei sacoglossa, caratterizzati da una dieta molto più specifica e la rara dote, niente meno che invidiabile, di trarre nutrimento dai puri e semplici raggi del sole. Alternativa tutt’altro che preferibile per loro, tanto che vi ricorrono soltanto nei periodi o le stagioni in cui c’è scarsità di cibo, causa fenomeni atmosferici o ambientali che abbiano ridotto temporaneamente la diffusione delle alghe anti-ossidanti e solitarie del genere Avrainvillea, loro habitat e nutrimento preferito. Presso cui è possibile osservare, a seconda della posizione geografica all’interno di un areale che si estende fino all’Indonesia e le Filippine, il suo intero genere che include 12 tipologie differenziate dalla forma ed il colore sulla punta delle multiple escrescenze sulla schiena note alla scienza col termine di cerata, benché la tonalità dominante resti sempre quella smeraldina che deriva dall’auto-installazione delle cellule vegetali acquisite durante il pasto. Approccio alla vita che tutt’ora risulta in grado di creare una certa perplessità nel mondo scientifico, data l’apparente necessità di modificare in qualche misura geneticamente le cellule di una tipologia completamente distinta di creatura, affinché possano continuare a svolgere il compito per cui erano state create.
Altrettanto misteriosa, nel frattempo, risulta essere la metodologia d’accoppiamento di queste lumache, benché possedendo esse tutti e due gli organi come dei veri ermafroditi simultanei, in natura sia probabile lo stile classico del duello dei peni, in cui ciascun mollusco tenta d’ingravidare la controparte al fine di riprodursi sfuggendo alla dispendiosa deposizione e successiva tutela delle uova. Un altro tratto di distinzione, piuttosto che ragione per l’accostamento, nei confronti della pecora quadrupede dei pascoli montani.

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Le lunghe implicazioni oniriche dell’ultra-uovo

Polli paracadutisti che conquistano le spiagge della Normandia; piccioni provenienti dal futuro; cicogne trasformate, per il tocco di una magica bacchetta, negli elfi alati di un diverso tipo di Babbo Natale. Esprimi dunque un desiderio, quest’oggi, mentre lasci finalmente la cucina: “Vorrei. Che il mondo fosse fatto nella specifica misura del bisogno… Che ogni cosa ed animale, che siano frutto di un Disegno oppure il corso dell’Evoluzione, perseguissero l’unico scopo di semplificare il senso ed il significato della mia esistenza.” Così battono le dita sull’invisibile tastiera del destino ed Internet, manifestazione materiale dell’umano anelito immanente, giunge in vostro aiuto per il tramite del vaticino che ha il nome di Google, l’onnisciente. Un lungo…Uovo. E in fondo… Perché no? Disposti gli ingredienti di una tipica insalata o di un panino, come i pezzi di una strategia scacchistica Vs. Kasparov dei tempi migliori, tutti abbiamo già sperimentato quell’acuta sensazione d’inadeguatezza. Alla difficoltosa presa di coscienza che “Il perfetto cibo pre-confezionato dai pennuti” non è poi così perfetto, e neanche concepito come cibo, all’origine del suo progetto funzionale. Come sarebbe mai possibile spiegare, altrimenti, la maniera in cui la capsula biologica per eccellenza, una volta resa solida grazie alla trasformazione alchemica del fuoco manovrato dall’umano desiderio (“uovo sodo”, hai presente) può essere divisa solamente in fette trasversali ove la divisione tra la chiara e il saporito albume pare essere, per l’ingiustizia perenne, palesemente ineguale!
È il paradosso fondamentale della civilizzazione industriale, quest’ultimo, per cui produrre confezioni progressivamente più complesse aumenta l’inquinamento e la produzione collaterale di scarti, ma riduce in modo esponenziale l’inerente spreco dei non meno preziosi ingredienti. Pensate a tal proposito, a tutti i ristoranti, le paninerie, le linee aeree, gli stabilimenti gastronomici, che in condizioni di tipo normale devono gettare via, in media, il 33% di ciascun uovo! (“Cameriere, dov’è il rosso nella mia porzione? Inaccettabile! Inappropriato!) A meno, s’intende, di far ricorso allo strumento futuribile della tecnologia. Perché intendiamoci, il lungo uovo nell’epoca moderna c’è probabilmente sempre stato. Ma semplicemente nessuno amava parlarne, per l’immediato senso di rammarico e di raccapriccio che una simile creazione “contro natura” sembra suscitare nella mente degli spettatori-per-caso, subito pronti ad inneggiare ai meravigliosi meriti del cibo prodotto in modo AUTONOMO dalla natura, conversando tra un porzione di corn flakes, una fetta di salame e l’irrinunciabile scatoletta di tonno, sorta splendida tra i flutti dell’oceano senza fine. Così che ad oggi, grazie a uno specifico segmento televisivo, tale mistica pietanza ha guadagnato la particolare provenienza geografica della terra di Danimarca, dove una fabbrica con significativi gradi d’automatismo veniva mostrata produrne una quantità smodata, per un mercato chiaramente dedito alla persecuzione della massima praticità culinaria. Sto parlando del servizio riservato dal programma tedesco per bambini Die Sendung mit der Maus (“La trasmissione con il topo”) a questa delicata faccenda, che comincia tra gli astrusi macchinari e raggiunge il suo culmine su una spiaggia delle Isole Salomone. Il cui commento più immediato, nonché valido a comprendere il fondamentale nesso della questione, appare pienamente riassumibile nella domanda: “Che tipo di pollo serve, esattamente, per produrre un lungo uovo?”

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La forma fisica di Longcat ci ha lasciati: Internet piange l’Altissimo felino

Come i venti di Saturno, flussi d’energia percorrono le strade alterne della Terra, tracciando strisce simili al disegno di una tigre tra l’erba. Qualche volta quindi, se le condizioni sono giuste come capita una volta ogni 6283 anni, essi convergono a formare l’occhio di una candida tempesta. L’arcana genesi che imposta, nella sua forma priméva, le ragioni stesse d’una fine incombente: Catnarok, è il momento di cui parlo, e con ciò l’araldo di una tale fase in mezzo agli uomini, l’eroe memetico di un’Internet ormai cambiata, il gatto-lungo Longcat. Antico più di Facebook, Twitter, Instagram e Whatsapp stessi, forgiato tra le scure pagine di un tempo in cui “postare qualcosa” significava caricare l’immagine su MySpace, e che ritorna nelle cronache a distanza di 16 anni dall’acquisizione della fama imperitura per l’inevitabile triste notizia. A darcela, “La regina senza corona Kochi” (無冠の女王みーこ@高知 – Mukan no jyomiko Kochi) ovvero colei che qualche tempo fa si era presentata al mondo come la padrona giapponese del gatto, disperdendo le nubi di un mistero durato una decade e mezzo: raggiunta l’età veneranda di 18 anni, decisamente rispettabile per un felino domestico, l’amato animale che aveva il nome terreno di Shiro (白 – bianco) si è ammalato improvvisamente e nonostante la corsa dal veterinario, verso le tarde ore del pomeriggio è purtroppo passato a miglior vita. Spalancando la porta dei ricordi assieme a una fondamentale incertezza: che cosa sarà, adesso, dell’antico popolo dei Lulz?
Volendo analizzare il fenomeno Longcat con occhio critico, tentando in qualche modo di risalire fino alle sue instabili radici, è impossibile non fare un parallelo con altri gatti diventati celebri su Internet, come ad esempio il leonino colonnello Meow, l’arrabbiato Grumpy Cat o Fatso-alias-Keyboard Cat, il gatto sovrappeso che veniva fatto “suonare” il pianoforte elettronico grazie a un singolare trucco scenografico di Charlie Schmidt, in quel di Spokane. Ciò che fondamentalmente differenzia la più insensata e longilinea macro degli albori, tuttavia, è proprio il suo non conformarsi al concetto odierno di celebrità a tutti i costi, dato il sostanziale esistere per molto tempo in maniera totalmente separata dalle branche del marketing, merchandising e ogni altra forma di commercializzazione, nella maniera in cui soltanto Internet riusciva ad essere, prima dell’invenzione del concetto stesso di Social Network. Senza mai trovare l’identità, in effetti, di un gatto reale semplicemente perché tutti pensavano che neppure esistesse, essendo piuttosto il frutto di un fotomontaggio oppure in forma ancora più fittizia, il semplice disegno collaborativo di una serie di Anon(-imi) alla ricerca di un qualcosa che potesse sopravvivere alla natura transitoria dei loro post. Longcat ebbe successo fin da subito proprio perché si configurava, nella sua inerente verticalità, come un formato assolutamente perfetto per il web: perché le immagini della grande bulletin board nipponica 2ch.net, dove si ritiene abbia avuto origine, così come quelle di 4chan e le altre versioni occidentali coéve, non venivano ancora tagliate o rimpicciolite dai sofisticati script informatici dei nostri giorni. Per cui scorrendo verso il basso gli ultimi post, la testa del gatto compariva all’improvviso ma nessuno sapeva, in effetti, in che momento sarebbe riuscito a farlo anche la coda, né cosa avrebbe trovato posto tra questi due punti. Gradualmente e inesorabilmente, come sempre capita per i fenomeni comunitari autogestiti, la lunghezza di Longcat continuò quindi ad aumentare. E così le storie fatte circolare sul suo conto, nella versione testuale delle fissazioni memetiche del Web, chiamata convenzionalmente copypasta. E fu allora che la situazione iniziò a diventare “leggermente” più complicata…

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Paesi Bassi, telecamera in alto: 10 minuti per navigare tra le due maggiori città d’Olanda

Nell’Era della crisi ed ancor più a ragione durante la sua stagione pandemica, importante strumento di sopravvivenza diviene la capacità di reinventarsi a seconda delle possibilità offerte da un mondo in continuo divenire, per i corsi e ricorsi delle maree tecnologiche capaci di risalire il grande fiume. Molte sono le strade possibili, per chi dispone di un’opportuno senso dell’orientamento (e una buona dose di fortuna) e alcune di esse, forse contrariamente alle aspettative, prive dell’asfalto che permette di sfruttarle con autoveicoli gommati. Ma piuttosto fatte d’acqua scintillante, da un lato all’altro di una mappa striata d’azzurro e celeste, i colori usati rispettivamente per i fiumi, laghi e canali. D’Olanda, dove mai, altrimenti? Patria di Vermeer, Van Gogh, Rembrandt e “Timewriters”, l’azienda fondata nel 2012 da Bas Stoffelsen per occupare una particolare nicchia della comunicazione a fini di marketing del mondo contemporaneo: quella del timelapse, ovvero la creazione di video accelerati con il fine di riassumere allo sguardo scene o procedure troppo lente, e in conseguenza di ciò noiose, per riuscire a colpire normalmente l’animo degli umani. Un approccio artisticamente valido e talvolta addirittura creativo, come i membri della compagnia pensarono di dimostrare al mondo con l’innovativo video realizzato appena un anno dopo la costituzione del marchio, soltanto per trovarsi costretti a metterlo a parte nel momento in cui l’applicazione di una misteriosa legge o restrizione nazionale gli avrebbe impedito di pubblicarlo su YouTube. Ma il tempo scorre come l’acqua sotto i canali ed allo stesso modo, riesce qualche volta a trasportare via gli scheletri delle biciclette gettate in mezzo a quei piloni ponderosi che sostengono la via maestra. Così ecco finalmente, in tutto il suo splendore dedicato ad un frenetico autunno del 2020, From Rotterdam to Amsterdam in 10 minutes, che mostra circostanze largamente riconoscibili da una prospettiva decisamente del tutto nuova. Protagonista della sequenza, una pilotina/rimorchiatore di colore rosso intenso, qui mostrata mentre compie un’itinerario tra i più affascinanti immaginabili per qualsivoglia tipo d’imbarcazione. Partendo dal fiume della Nieuwe Maas, effluente del grande Reno in prossimità della sua foce, in mezzo agli alti condomini e procedendo oltre il ponte sollevabile di Rotterdam per poi deviare nel tratto incanalato dello Hollandse IJssel deviando verso il paesaggio settentrionale fatto di pittoreschi villaggi, paludi e polder, fino al profilo riconoscibile della capitale. Un viaggio che potrebbe far pensare, nelle sue primissime battute, ad una ripresa realizzata via drone almeno finché non si fa mente locale sulla sua durata in tempo reale per oltre un intero giorno e la distanza percorsa in assenza di alcun tipo d’interruzione, senz’ombra di dubbio eccessiva per un singolo pieno di batterie. Il che conduce in poco tempo alla domanda rilevante di che cosa, esattamente, si trovasse all’altro capo del cavo di traino fuori dall’inquadratura, per giustificare il viaggio senza scali della piccola e zelante imbarcazione da lavoro. Ovvero quell’oggetto che costituisce, in aggiunta a ciò, anche il palco da cui l’intero mondo di Internet è chiamato a visualizzare l’intrigante itinerario…

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