Il carro armato che sfidò Mad Max

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200 milioni di dollari. Potevi (quasi) usarli per lanciare un razzo in orbita geostazionaria. Ci sono volte, nel mondo cinematografico, in cui l’alto costo di produzione di una pellicola non è immediatamente palese al pubblico in sala. Ad esempio ogni qualvolta c’è un impiego del computer, non tanto finalizzato alla creazione di esplosioni più grandi o improbabili creature aliene, bensì per trasformare un borgo dei nostri tempi nell’antica capitale di un regno, oppure posizionare le notevoli mura di un castello antico proprio lì sulla collina artificiale, dove ti servono per la determinata scena. Ovvero tutti effetti di quel tipo che “non si deve notare” ma che sono in grado di richiedere comunque un alto grado di perizia, e quindi la partecipazione al progetto di un’intera equipe specializzata. In altri casi, il fenomenale rischio finanziario in cui lo studio ha scelto d’imbarcarsi non potrebbe essere più chiaro, arrivando in effetti a connotare molti dei valori estetici di questa o quella scena. E quando ciò si verifica, generalmente, c’è di mezzo un qualche inseguimento su ruote! Dopo tutto, l’industria dell’entertainment di Hollywood ha una lunga tradizione in materia, con un intero mestiere, quello dello stuntman, dedicato proprio al perfezionamento della guida “da film” nonché un vasto ventaglio di fornitori in grado di realizzare senza indugio qualsiasi mezzo semovente che l’umana fantasia possa riuscire a concepire. Il che ha portato sugli schermi di proiezione, nei anni precedenti all’invenzione del CG, un repertorio talmente vasto di corse spericolate, tamponamenti e slalom tra il traffico e i pedoni cittadini, che ormai persino l’uomo senza patente non avrebbe alcun problema ad individuare eventuali imprecisioni nello svolgersi dell’ennesima carneficina (non)stradale. Il che lascia facilmente intendere come sia stato possibile raggiungere una tale cifra spropositata, nella realizzazione di quel film dell’anno scorso che la cui totale durata fu praticamente un solo lungo, caotico inseguimento.
Fu evidente quasi subito, dal momento dell’uscita, che Mad Max: Fury Road sarebbe presto entrato nella storia dei cult movies. Ecco una creazione appassionata dal ritmo serrato, straordinariamente curata dal punto di vista estetico, e forse quel che è ancora meglio nel suo genere, sostanzialmente priva di uno sviluppo narrativo che rallenti il ritmo, escluse un paio di momenti in cui si espongono i lunghi e travagliati trascorsi dei protagonisti più o meno umani del racconto. Il che non è facile, visto come a rubargli la scena e i primi piani, per ciascun singolo minuto dell’adrenalinica vicenda, ci fossero alcuni dei veicoli più straordinari che siano mai stati guidati innanzi ad una videocamera, come la spropositata Macchina da Guerra di Furiosa, ovvero l’autotreno della Tatra cecoslovacca migliorato per l’occasione con l’applicazione di teschi umani, la pala di uno spazzaneve, pannelli corazzati e due pezzi di Volkswagen Beetle sopra il rimorchio, usati come posizioni di tiro per i cecchini. O le Plymuth Sedan rugginose trasformate in dei mostruosi porcospini, grazie all’applicazione di un numero di aculei simili a spade, del tutto casualmente pari a quelli di un formichiere africano… Ma il pezzo forse più incredibile di questa assurda collezione dovrà rimanere il Pacificatore del capo di Bullet Farm, rabbiosamente interpretato da un Richard Carter incoronato di bossoli trasformati in copricapo, e costituito per la parte superiore di una Chrysler Valiant Charger degli anni ’70, mentre sotto c’era…Un… Qualcosa di cingolato. Ed assolutamente fuori dal comune, forse più di ogni altro singolo aspetto del film.

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La leggenda del carro armato senza testa

Swedish S Tank

Nascosto tra gli alberi di conifere, semi-sepolto nella terra di brughiera, un solo ed unico cannone avrebbe atteso l’avanzata del nemico. Basso, coperto da un telo mimetico, praticamente invisibile da una distanza superiore ai 200 metri. Dentro la casamatta corazzata, tre addetti ben addestrati, di cui due rivolti in avanti e l’altro in direzione totalmente opposta, ciascuno dotato dei più moderni visori termici e altri strumenti di rilevamento. Artigliere, servente/addetto radio, capitano: niente di così diverso dall’equipaggio di un comune bunker anti-carro, edificato sui confini di un paese che, per sua sfortuna, confinava con i suoi avversari storici più temuti. Con una significativa differenza dalla tradizione: l’occhio attento di una spia, assai probabilmente, l’avrebbe notato pressoché immediatamente: la bocca di fuoco da 105 mm di cui è dotato l’implemento misterioso, un cannone della BOFORS allo stato dell’arte, risulta incastrato saldamente tra le piastre d’armatura frontale, inclinata e spessa fino a 337 mm. Non soltanto, dunque, esso non può ruotare, ma neppure modificare l’alzo per sparare in alto oppure in basso. Esso è, per tutti gli aspetti e sotto ogni punto di vista, totalmente fisso in quella direzione. Finché un dispaccio radio, il trasalire di un momento, fumo e polvere al di là dell’orizzonte, non risvegliano il pronto equipaggio dal torpore: “Una colonna che avanza, tutti pronti al mio segnale!” Fa il più alto di grado, mentre una strana vibrazione percorre l’ambiente claustrofobico che ospita l’intera scena. È stato infatti acceso… Il motore.
Per comprendere cosa abbia portato, nel 1956, l’ingegnere della KAFT svedese Sven Berge a proporre uno dei veicoli da combattimento più avveniristici e bizzarri della storia, ed il suo governo ad iniziarne realmente la produzione in serie poco più di 10 anni dopo, occorre descrivere brevemente la posizione politica dei paesi scandinavi in quell’epoca, la particolare conformazione del loro territorio ed il ruolo che si sarebbero trovati ad avere, nel caso di un ipotetico surriscaldarsi del confronto silenzioso tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. Cominciando con il sottolineare come, nonostante la politica nazionale di occasionale collaborazione con l’Occidente, la Svezia ci tenesse a qualificarsi come entità neutrale, ed in caso di guerra termonucleare globale avrebbe costituito un bersaglio di secondaria importanza, anche e soprattutto per l’abbandono, dovuto a mancanza di fondi, di un programma per l’acquisizione di armi atomiche di distruzione su larga scala. Ciò aveva radici profonde nella politica di quel paese, che dopo la drammatica riduzione della sua popolazione dovuta ai tragici eventi delle guerre napoleoniche, aveva saputo guadagnarsi una classe politica che non sentiva più il bisogno di affermarsi in campo internazionale con l’uso delle armi, tanto che a partire dalla guerra in Crimea del 1856, il governo di Stoccolma iniziò a rifiutarsi di assistere sul campo di battaglia il suo alleato storico, la Russia. Durante la prima guerra mondiale, questo paese più compatto che mai diede la stessa risposta alla Germania, suo fondamentale partner commerciale e addirittura nel 1914, quando i russi occuparono abusivamente le isole Åland per collocarvi una base di sommergibili, non venne attuato alcun tipo di rappresaglia o controbattuta, fatta esclusione per una protesta formale al termine del conflitto, rivolta alla neonata Società delle Nazioni. Una scelta che si rivelò vincente a lungo termine, quando durante l’intero secondo conflitto mondiale, il paese riuscì a rimanere relativamente inviolato dalle forze nemiche, in mezzo al vortice dell’Operazione Weserübung, che portò all’occupazione tedesca di Danimarca e Norvegia. Ma terminata quell’era di rabbia dei popoli, giunti alla pace apparentemente di vetro tra le nascenti super-potenze del secolo rinnovato, diventò estremamente chiaro un aspetto: che se pure la Svezia fosse riuscita a scampare alla furia di un primo assalto nucleare da parte dei sovietici o di chicchessia, la vicinanza meramente geografica al più grande paese del mondo l’avrebbe resa un territorio ideale in cui dispiegare gli armamenti, per disseminarli oltre e nasconderli, per quanto possibile, dagli occhi scrutatori provenienti da Oltreoceano. E questo, loro non l’avrebbero mai accettato.

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Questo veicolo consuma meno di una lampadina

Eximus 1

Un nuovo record mondiale si fa strada dalla cittadina svedese di Delsbo, in prossimità del lago Dellen Settentrionale e non poi così distante dalle coste del Mar Baltico, tra le acque gelide che bagnano l’Europa del Nord. Che costituisce la risposta pratica ad una domanda che un po’ tutti ci siamo posti, prima o poi: possibile che spostarsi su rotaie debba sempre comportare, nonostante il costo ridotto per singola persona rispetto all’automobile, un’impronta carbonifera comunque sufficiente a consumare ulteriormente le risorse del pianeta? E cosa succederà, nell’imminente giorno dell’esaurimento delle risorse fossili, quando tutto quello che ci rimarrà a disposizione saranno un paio di pedali, l’eolico, l’energia del Sole… Sarà forse a quel punto, che ci ricorderemo dell’opera del team di studenti dell’Università di Dalarna, che come già molti altri gruppi simili a loro, hanno tentato di applicare la loro mente priva di preconcetti ad un problema che ci assilla tutti quanti, per vincere un premio in denaro non propriamente straordinario, ma riservando uno spazio per la propria creazione in una pagina importante dell’antologia motoristica dei nostri tempi. Eximus 1, dal termine latino che significa “straordinaria” questo è il nome di quella che si potrebbe definire una vera e propria locomotiva leggera, del peso di appena 100 Kg ma in grado di trasportare facilmente un equipaggio di cinque persone lungo i 3,36 Km del tratto ferroviario che collega Delsbo a Fredriksfors, completo di un dislivello complessivo di 3 metri. E tutto questo, consumando un valore comprovato di appena 0,84 wattora a persona, laddove una lampadina al neon ne fagocita tranquillamente 3,5, e sia chiaro che si tratta di un dato che viene considerato, ad ogni modo, estremamente positivo. La competizione rilevante, denominata semplicemente Delsbo Electric, prevede in effetti la partecipazione a ciascun viaggio di un numero variabile tra 1 e 5 persone, dal peso medio di ALMENO 50 Kg, sulla base delle quali vengono quindi scalate le misurazioni finali. Di conseguenza, un veicolo dalla capacità di trasporto superiore, come la Eximus, non viene in alcun modo svantaggiato. Il che costituisce forse l’aspetto maggiormente significativo di questa particolare competizione rispetto a quella che l’ha ispirata, la quadrimestrale Shell Eco-marathon, in cui la convenzione prevede che ciascun veicolo trasporti unicamente il suo pilota. Un concetto chiaramente finalizzato alla presentazione di dati ancor più sfolgoranti, ma che avrebbe esulato in qualche maniera dal concetto di cui sopra, che vede i mezzi di trasporto che utilizzano la strada ferrata come una risorsa di ottimizzazione ulteriore del consumo, proprio in funzione del numero di passeggeri contenuti al loro interno.
Contenuti: stipati, inscatolati. Il veicolo in questione, in effetti, per lo meno in questa sua prima iterazione, non si è propriamente fatto notare per il comfort di utilizzo, visto il suo corpo interamente in alluminio, sia dentro che fuori, senza alcun occhio di riguardo a qualunque cosa avrebbe fatto lievitare il peso. La carlinga aerodinamica, con una prua esteticamente simile a quella dello Shinkansen giapponese (benché ovviamente a scala molto più ridotta) vedeva inoltre l’unica apertura di una lastra trasparente in plexiglass, mentre per il resto gli occupanti erano stati sostanzialmente chiusi dentro all’equivalente motorizzato del tipico barbecue da esterni in stile americano. Non era del resto necessario godere di una visibilità eccellente su ogni lato, visto come la competizione prevedesse l’impiego su rotaie, e con l’unico attraversamento potenzialmente pericoloso di quella che il sito ufficiale definisce “una strada molto trafficata”. Benché immagino che fosse stato, per lo meno, abbassato il passaggio a livello. L’intero tragitto ha richiesto un tempo di circa 20 minuti, durante i quali il motore elettrico, alimentato con tre batterie, è stato accesso soltanto per 110 secondi, lasciando che l’Eximus procedesse per inerzia nella rimanente parte della sua impresa. Una tecnica, oltre che logica, comprovata da una lunga storia di esperienze studentesche pregresse…

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Zapata e l’hoverboard che sta dividendo il web

Zapata Flyboard

Mantenuti dalle macchine all’interno di una realtà parziale, siamo naturalmente diffidenti di quanto ci viene presentato come “nuova tecnologia”. Montaggio ad arte, effetti digitali realizzati al computer, i pannelli monocromatici del chroma key: non sono questi altro che i tre pilastri di un intero edificio di potenziali bugie, dondolante ma solido nel vento delle valide occasioni. Chances di far notizia, generare un clamoroso impatto, cavalcare lo tsunami di una situazione dalle munifiche opportunità di guadagnare. Il che non significa, necessariamente, che quanto quest’azienda, di proprietà del campione di moto d’acqua (Personal Water Craft) Franky Zapata, ci sta mostrando fieramente fin dall’altro giorno sia frutto esclusivo di finzione scenica e una pura faccia tosta. Dopo tutto, stiamo qui parlando dei produttori del popolarissimo Flyboard, un dispositivo che permette di fluttuare sopra l’acqua ad un’altezza di 15 metri, grazie al motore di una PWC collegata ad un lungo tubo ed un ugello a reazione direzionabile. Il tutto controllato da un dispositivo wireless rigorosamente impermeabile. Sistema dall’alto valore d’intrattenimento, che vende nelle sue diverse versioni svariate migliaia di pezzi l’anno, generando un fatturato probabilmente assai considerevole. E perché mai costui dovrebbe rischiare online la sua credibilità latente, mostrando al pubblico un qualcosa di totalmente falso e creato attraverso artifici grafici di vario tipo? Non avrebbe letteralmente, nulla e poi nulla da guadagnarci.
Eppure, qualcosa di strano in questa presentazione di un ipotetico prodotto futuro, c’è. Innanzi tutto, la mancanza d’informazioni fornite al pubblico o inquadrature eccessivamente rivelatorie, scelte comunque giustificabili dal bisogno di non mostrare anticipatamente i propri segreti ai potenziali competitors di settore. Ma soprattutto le tre specifiche prestazionali dichiarate nella descrizione. Con il nuovo Flyboard “Air” (la continuità nei nomi, ci insegna Apple, è un valido strumento dei brand) che sarebbe in grado di raggiungere i 10.000 piedi d’altitudine (3000 metri) fare i 150 Km/h e restare in volo per fino a 10 minuti. Dei quali tre punti, i primi due sono teoricamente anche possibili per quanto concerne il dispositivo stesso, ma difficilmente immaginabili nella configurazione che prevede una persona posta in equilibrio sulla sua sommità, a gambe lievemente divaricate come il cattivo dei fumetti Green Goblin. Ma è proprio il terzo dei valori, in definitiva, ad aver suscitato le maggiori critiche nelle migliaia di commenti postati negli ultimi giorni sul web: secondo la maggior parte delle persone, sarebbe semplicemente impossibile restare in aria tanto a lungo con un dispositivo così piccolo. In effetti, basta considerare la maggior parte dei dispositivi di volo individuale costruiti fino ai tempi più recenti, per trovare un tempo di volo misurabile in semplici secondi piuttosto che minuti, e in definitiva, sicuramente meno estesi. Vediamo, quindi, la questione in maggior dettaglio.
Affinché un simile arnese possa restare in aria per un periodo relativamente prolungato sostenendo il peso di una persona, l’unico metodo di propulsione attualmente probabile è quello di una specifica classe di turbine per aeromodellismo, le P200-RX, che hanno un consumo dichiarato di 0,7 litri al minuto. Ora, il dispositivo di Zapata mostra in una delle ultime inquadrature del video esattamente quattro ugelli nella sua parte inferiore. E questo senza contare le due micro-turbine di colore rosso ai lati che dovrebbe teoricamente impiegare, secondo la teoria più accreditata, come metodo principale di spinta lungo l’asse orizzontale. Stiamo quindi parlando, nella migliore delle ipotesi, di circa 28-30 litri di combustibile (0,7 litri x4 motori x10 minuti). E se nella piattaforma, poco più grande di uno zainetto, ci sono i motori, dovrebbe potrebbe mai trovarsi un simile quibus sine-qua-non? C’è una sola residua possibilità: nello zainetto portato dal pilota, che per l’appunto risulta collegato alla piattaforma da un grosso tubo, il cui impiego a questo punto, sarà più che mai chiaro. Per intenderci, 28 litri corrispondono alla capienza di un forno a microonde di dimensioni medie. Ed è quindi difficile, ma non certamente impossibile, che Zapata disponesse di riserve sufficienti per i tre effettivi minuti del suo primo test. Versioni successive del velivolo potrebbero, teoricamente, vedere l’impiego di borse più grandi… Chi lo sa. Tale aspetto, ad ogni modo, non è insuperabile. Ciò che invece agita il mio senso della credulità, è un altro aspetto del dispositivo in questione: ovvero in quale misterioso modo, colui che si trova a cavalcarlo, possa riuscire a tenersi in equilibrio perfettamente verticale. Specie considerato come, in tale condizione, una semplice svista possa portare ad una morte sicura ed estremamente rapida…

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