Il ritorno del ciclista che restò paralizzato

Martyn Ashton Run

Intatto, immutato, illeso nell’anima e nell’entusiasmo che gli avevano permesso di raggiungere i massimi vertici di uno sport prettamente individuale, il bike trial, fino al giorno ed al minuto del terribile imprevisto. Settembre del 2013: Il quattro volte campione inglese ed una del mondo Martyn Ashton, uomo simbolo da oltre 10 anni di un’intera branca dell’acrobatismo estremo coi pedali, subisce un grave incidente durante una dimostrazione al gran premio della Moto Gp di Silverstone. Perdendo il suo precario punto d’appoggio da una stretta barra da un’altezza di tre metri, cade a terra slogandosi due vertebre, tra l’incredulità del pubblico e la stampa di settore. Il mondo del ciclismo trattiene il fiato, fino al giorno in cui ci viene rivelata l’infelice verità: il fuoriclasse ha perso la sensibilità nell’intera parte inferiore del suo corpo, ed anche a seguito di una lunga riabilitazione, allo stato attuale della medicina, non è stato possibile restituirgli l’uso delle gambe. Non è davvero facile immaginarsi, dall’esterno, il treno dei sentimenti e dei pensieri che devono aver attraversato la mente di un simile straordinario specialista, nel momento in cui rischiava di veder deragliata la sua intera vita su un binario differente. Si possono fare tutti i piani del mondo, ma come si dice, è impossibile prevedere l’influenza libera del fato. Il nostro punto forte è la capacità di adattamento. Martyn poteva, come altri eroi trovatisi nella sua crudele situazione, diventare molte cose: un’allenatore, un consulente tecnico, un giornalista. Dedicarsi a tempo pieno all’arte, alla musica o allo studio della storia. Mentre invece, come già era successo nel 2003 a seguito di un precedente infortunio alla schiena, decise di seguire il suo percorso di recupero fino alle estreme conseguenze, persino in questo caso ben più grave. “D’accordo, la situazione è cambiata. Non potrò tornare il ciclista che ero.” È affascinante immaginare i suoi pensieri: “Vorrà dire che diventerò MEGLIO di prima.” Il risultato di questa linea, finalmente rivelato in questo video di metà della scorsa settimana, appare lampante sotto gli occhi di noi tutti.
Il campione un tempo infortunato appare in cima ad una delle innumerevoli montagne verdeggianti della regione di Snowdonia, nel Galles settentrionale, che gli antichi chiamavano Eryri, dalla parola locale usata per riferirsi alle aquile che qui facevano il nido. Un luogo solitario, dunque, splendido e incontaminato. Eppure, persino qui, egli non è solo: all’allargarsi dell’inquadratura, compaiono i colleghi Blake Samson, Chris Akrigg e Danny MacAskill, pronti ad assisterlo nel rapido trasferimento veicolare. Perché nel giro di pochi secondi, appare chiaro il metodo e il messaggio della scena, con Ashton che viene posizionato su quella che costituisce, indubbiamente ed incredibilmente, una bici da cross ad alte prestazioni. La speciale mountain bike, costruita su misura dall’azienda specializzata Mojo e fornita dello stesso sedile usato dagli sciatori alle Paralimpiadi invernali, che ritorna presto a costituire l’interfaccia tra l’individuo e la strada, non importa quanto accidentata, quasi come non fosse mai successo nulla di gravoso in precedenza. Quasi perché, nei fatti, la discesa in velocità sulle tortuose vie della regione più umida dell’intero Regno Unito, comporta una serie di abilità fisiche e attenzioni tecniche del tutto differenti. Ed è proprio nel modo in cui gli riesce di affrontare ciascuna curva, facendo affidamento unicamente sulla forza delle braccia, piegandosi soltanto il necessario, eppure dimostrando una grazia che sarebbe invidiabile a molti atleti ben più convenzionali, a dimostrare il lungo percorso di recupero e la capacità di adattamento di questo sportivo d’eccezione.
Mentre ciò che colpisce maggiormente dal punto di vista emotivo, è il modo in cui l’intera sequenza viene offerta al pubblico, completa di un montaggio che da largo spazio all’espressione allegra di Ashton, nonché ai gridi e alle risate di lui e dei tre amici, tutti egualmente entusiasti per il ritorno in attività del campione, ma anche per la gioia spontanea che dà il praticare un simile sport, in mezzo alla natura e senza una preoccupazione al mondo.

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La giostra adrenalinica nel turbine dell’orologio

Tourbillon Ride

Punto fermo di ogni rispettabile narrazione che contenga il concetto di viaggi istantanei, siano questi di natura tecnologica o rientrino tra i fenomeni improbabili di una qualche arte stregonesca, è il trauma, più o meno breve, cui vengono immancabilmente sottoposti tutti gli individui coinvolti. L’astronave che nell’iperspazio, locus teoricamente privo del concetto stesso di attrito, vibra rumorosamente alla maniera di un vascello prossimo al naufragio, come il traumatico teletrasporto umano, generalmente seguito dalla brusca materializzazione in luoghi scomodi o elevati, da cui rovinare rotolando in qualche nuovo angolo della Terra. Oppure…Altrove. Ma tutto questo non è nulla, rispetto agli artifici che permetterebbero, almeno nella fantasia di molti autori, di spostarsi liberamente lungo l’asse inconcepibile del tempo. Prima che un protagonista possa conoscere i propri trisavoli ulteriori, o i nipoti dei nipoti, dovrà prendere il coraggio a piene mani per entrare in ciò che si profila, grosso modo, come l’equivalente accidentale di un qualche astruso arnese di tortura. C’è sempre una cabina, oppure un veicolo, che accelera ad un ritmo innaturale. Oppure una capsula senza aperture, che ruotando vorticosamente su se stessa fa dei secoli come secondi, e soprattutto, quando necessario, riesce a farli scorrere al contrario. Quest’ultimo, probabilmente, il maggior miracolo ipotetico del mondo. E ci coinvolge immancabilmente, un simile aspetto esteriore di una prassi immaginifica in cui le leggi della fisica fanno la parte di un fedele cagnolino, al punto che la gente sarebbe anche disposta a pagare, per poter vivere quell’esperienza, persino nell’impossibilità di raccoglierne i frutti più straordinari. Succede, essenzialmente, di continuo: diventar la parte di un qualche movimento o meccanismo straordinario (fuori dal probabile o la ragionevolezza) come una montagna russa, la ruota panoramica, il percorso splisplash con i tronchi giù per la cascata. Tutte cose molto belle, queste, ma con una problematica di spicco. L’ingombro ponderoso delle svettanti strutture in questione, da cui deriva il costo sproporzionato della loro operatività e manutenzione, da sempre condizionamento significativo al numero, e la nazionalità, di chi possa sperimentare sulla propria pelle simili emozioni.
Enters ABC Rides, l’azienda svizzera che ha costruito questa favolosa…Cosa. Stiamo nei fatti parlando, come avrete già notato grazie al video di apertura, dell’incredibile dispositivo per Luna Park un tempo noto come Starlight, ma che al suo debutto presso il Foire du Trone 2015, la più grande fiera della Francia, ha ritrovato il termine che meglio gli si addice, ovvero Tourbillon, dal nome di un particolare meccanismo con fino a tre assi, che tutt’ora svolge il compito di un cuore nei più splendidi e costosi orologi da portare al polso. La ragione della sua esistenza pluri-centenaria è presto detta: sconfiggere la gravità. Scoprirono infatti i pionieri dell’orologistica moderna, verso la fine del XVIII secolo, che costruire una macchina in grado di avanzare sempre allo stesso ritmo era difficile, soprattutto per l’effetto di quella forza planetaria che perennemente tende a definire le due direzioni del “basso” ed “alto”. Qualsiasi ingranaggio complesso, infatti, se inclinato pure leggermente nella direzione del suo moto tende ad accelerare, e viceversa. Un problema sentito a tal punto, in quell’epoca di grandi navigazioni, da portare il parlamento inglese a promulgare già nel 1714 il cosiddetto Longitude Act, consistente della costituzione di una commissione, che avrebbe attribuito un corposo premio in denaro (20.000 sterline di allora) a chiunque fosse stato in grado di creare il primo cronometro nautico in grado di aumentare la carente precisione delle carte nautiche in corso d’impiego. E ciò che vediamo qui applicato, con la partecipazione di alcuni coraggiosi beta testers svizzeri di un giro di prova, altro non sarebbe che l’applicazione in scala enormemente superiore dello stesso meccanismo inventato dall’orologiaio Abraham-Louis Breguet (1747-1823) colui a cui venne riconosciuto il merito di aver trovato quella soluzione. Soltanto con al posto dei rubini, stavolta, le persone.

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Il volo della slitta di metallo: le portaerei ricominciano da qui

Ford Carrier EMALS

Ore 1300, 17 giugno 2015: una sirena che risuona fragorosa tra gli ampi spazi del ponte di volo della nuova USS Gerald R. Ford, la più grande nave militare che abbia mai solcato i mari della Terra, varata alla fine del 2013 ma che non riceverà un suo ruolo attivo almeno fino a Febbraio del prossimo anno. È questo il segnale, tutt’altro che inatteso, per dare il via al momento culmine di una particolare cerimonia, da compiersi sotto la supervisione silenziosa del capitano, il suo entourage, uno stuolo intero di ingegneri. E soprattutto grazie a lei, la donna che questo vascello l’ha bagnato per la prima volta, supervisionando l’uso della classica quanto allegorica bottiglia di champagne. Stiamo parlando, tanto per attribuire un nome alla figura in abiti informali, di Susan Ford, l’unica donna tra i quattro figli del 38° presidente degli Stati Uniti, il cui paterno nome è stato iscritto sullo scafo della solcatrice degli oceani qui presente. E che nave: la prima di una nuova classe, destinata a rimpiazzare nel corso dei prossimi 20 anni le pur ottime, ma ormai attempate 10 consimili della storica USS Nimitz (varo: 1972) prima super-portaerei statunitense con doppio reattore nucleare A4W, fornita quindi di un’autonomia essenzialmente non condizionata dall’esaurirsi del carburante. Ma già scende il silenzio carico di aspettativa sopra questa nuova erede, mentre gli addetti spingono in posizione la vera protagonista dell’evento. Un curioso e ingombrante dispositivo rosso, dalla forma solo vagamente aerodinamica e dotato della telecamera di bordo su una gondola (estrusione di supporto) frontale, il cui peso complessivo, presumibilmente, dovrebbe assomigliare a quello di un qualche aeromobile destinato a far parte dei 75 che trasporterà la nave. Assai probabilmente un qualche modello di F/A-18, ovvero il successore del mai dimenticato F-14, la cui forma angolare, tante volte orgogliosamente messa in mostra al cinema e in tv, aveva condizionato i parametri dell’estetica automobilistica degli interi anni ’70 e ’80. Mentre adesso, nell’epoca del futuribile come ideale collettivo, ci ispiriamo direttamente al mondo della pura fantasia. Due marinai con elmetto protettivo, a questo punto, assicurano dei grossi cavi di metallo al gancio che spunta in mezzo alla rotaia, l’unica parte visibile di un nuovo meccanismo, poi si allontanano e ritornano sull’attenti. L’aria pare quasi fermarsi, mentre l’ospite d’onore alza il braccio sinistro e, in un gesto un po’ rigido, inizia a puntarlo nella direzione del decollo. Ora, naturalmente tutti noi sappiamo che gli aerei della marina in servizio attivo vengono lanciati grazie all’uso di una catapulta. Ma ciò che avviene dopo è un puro esperimento di fisica applicata…
Tra gli aspetti tecnici più problematici delle portaerei a propulsione nucleare, da sempre concepite per restare in servizio molte decadi e venire aggiornate mano a mano, ne permaneva uno dalla significativa inefficienza, eppure troppo oneroso, o complesso da sostituire: il vecchio sistema di lancio del CATOBAR (Catapult Assisted Take Off But Arrested Recovery) basato sull’impiego di pistoni a vapore. Un meccanismo potente e affidabile, ma che non aveva mai potuto disporre di alcun feedback nei controlli, agendo sempre nella sua massima potenzialità e conducendo dunque a una significativa usura delle strutture degli aerei. Ciò senza nemmeno considerare la bassa efficienza energetica del dispositivo (ovviamente un problema secondario su un vascello nucleare) stimata attorno a un miserevole 4-6%. Proprio per questo, al momento dell’ordine da 13 miliardi di dollari fatto presso i cantieri di Newport appartenenti alla Huntington Ingalls nel 2005, fu reso subito chiaro che la nuova portaerei avrebbe dovuto ricevere la prima generazione delle nuove catapulte EMALS ad elettromagnetismo (Electromagnetic Aircraft Launch System) in grado non soltanto di generare una spinta potenzialmente maggiore, ma di farlo in modo maggiormente regolare e variabile, riducendo sensibilmente la massima minima degli aeromobili lanciabili con il sistema. Ad esso si abbina un sistema di recupero aeromobili, anch’esso elettromagnetico, dalla maggiore applicabilità e delicatezza. Un aspetto molto significativo, in quest’epoca di droni sempre più leggeri.
Ma eccoci al momento della verità: lei che accentua il suo segnale poi, guardando l’ufficiale a fianco che si abassa e punta in avanti con il fare plateale tipico dei controllori di volo militari, piega le ginocchia e socchiude gli occhi, per meglio osservare il “decollo”. Quindi il blocco di metallo con le ruote che parte, a una velocità considerevole, accelera fino al ciglio del ponte di volo e decolla, sparendo lieve verso l’orizzonte, fra le nubi candide e distanti a largo della California come un agile gabbiano, SPLASH!

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Come costruire una casetta primitiva

Primitive Technology

In mezzo alla foresta pluviale che costituisce una parte significativa dello stato australiano del Queensland, si aggira un uomo in calzoncini che di questo luogo ha fatto il suo cortile. Il suo nome è…Primitive Technology…Beh, per lo meno quello che dichiara al mondo tramite l’omonimo canale di YouTube. Del resto, come si chiama non è (davvero) importante, almeno non quanto ciò che riesce a dimostrare: che persino un appartenente alla società moderna, un prodotto di tre millenni di civiltà, può ancora ritrovarsi, per puro caso o un hobby stravagante, in mezzo all’assoluto nulla, solitario, privo di risorse e/o di strumenti. Riuscendo, nonostante tutto, a realizzare un qualche cosa che va molto oltre la pura e semplice sopravvivenza. È una casa vera questa, non un semplice rifugio. Grossomodo cubica, larga due metri, con tetto spiovente per proteggersi dagli elementi, mura spesse ed isolanti fino a un metro d’altezza, un letto sollevato da terra, uno spazio per accendere il fuoco e, nelle battute finali del processo progressivo di miglioramento, addirittura un ottimo camino, che permette di chiudere completamente un lato della costruzione, dando adito ad un lato riscaldato in modo più efficiente. Non riesce così difficile immaginare uno scenario in cui una simile abitazione o la sua versione più grande, nel corso del tardo Paleolitico superiore (circa 10.000 anni fa) si rivelasse un bene prezioso per un’intera famiglia dei nuovi popoli stanziali, i primi che iniziavano a dimostrare il vero potere della mente sopra la natura. In via di trasformazione quest’ultima, da risorsa nebulosa e sfruttabile soltanto attraverso la caccia e la raccolta, a un vero spazio in cui la tecnica può dare un senso al legno, la pietra e l’argilla, gli amici di chi ha il metodo e lo studio per apprenderne i segreti. Ma soprattutto importante, a quell’epoca, non era tanto il semplice possesso: ancor più che adesso, nulla durava per un tempo lungo, ed ogni cosa andava sottoposta a continui interventi di manutenzione, portando in primo piano i meriti di chi sapeva far le cose, come costui.
Il video inizia in modo semplice, con l’ingegnere che ci mostra la sua ultima creazione: una rozza ascia litica, creata a partire da una pietra oblunga di quello che dovrebbe essere basalto, piuttosto che l’ideale selce, probabilmente non disponibile in quel singolo contesto. Viene mimato quindi il gesto di modellazione, tramite un sassetto che lui impiega per colpirla in prossimità del bordo, per accentuare un filo tagliente che nei fatti è già perfettamente pronto all’uso. Del resto, la sequenza ha lo scopo di contestualizzare ciò che viene dopo, ovvero l’abbattimento e il disfacimento di alcuni piccoli alberi, attraverso colpi ben vibrati del pesante arnese. E benché sia chiaro come l’efficienza del processo si configuri in modo tutt’altro che ideale, nel giro di un tempo imprecisato gli riesce di crearsi una catasta di legna lunga e flessibile, cui abbina alcune radici e liane raccolte in giro, perfetti ausili alla costituzione di legame tra le parti. Perché P.T, nei fatti, sta per impiegare la tecnica relativamente sofisticata del torchis, il primo sistema strutturale nella storia dell’uomo. L’abbinamento di uno scheletro in legno intrecciato o fibre vegetali a una copertura plastica, come l’argilla. Sostanza, quest’ultima, che in apparenza abbonda in questi luoghi, al punto che nelle battute successive la userà anche per costruire l’intera serie delle ciotole e i bicchieri, perfetto corredo di qualsiasi ottima bicocca. Ma non prima di occuparsi della cosa più importante, il tetto. Quella cosa che, per ottime ragioni, viene spesso usata in senso allusivo per riferirsi ad un’intera abitazione, ad ulteriore riconferma della sua importanza al culmine di qualsiasi processo che possa davvero dirsi, per l’appunto, archi-tettonico. Qui lui compie un significativo errore, largamente trattato nella descrizione scientifica a margine di questo interessante esperimento archeologico. Si tratta della scelta di una soluzione d’impermeabilizzazione basata sull’impiego di una serie di grandi foglie, infilate una per una lungo l’asse di alcuni lunghi bastoni, poi sovrapposti l’uno sopra l’altro, a mo’ di tegole. Nell’ottenimento di un prodotto esteticamente affascinante ed, almeno nei primi tempi, anche funzionale, se non che dopo alcune piogge, forse prevedibilmente, detta materia vegetale ha iniziato a marcire. Così lui, al ritorno sul luogo dell’operazione (nonostante le apparenze, dubito che ci abbia trascorso più di qualche notte) ha dovuto smontare il tutto e ricoprire nuovamente la casa, questa volta, grazie all’impiego della sottile corteccia degli alberi di Melaleuca, le myrtacee d’Oceania a volte dette paperbark. La cui scorza sottile e flessibile, nei fatti, si sta dimostrando molto più valida nel resistere all’insistenza delle precipitazioni locali. Quindi, affinché si possa definire veramente una casa, P.T. si preoccupa di fornire alle sue quattro mura un altro servizio assolutamente irrinunciabile, ciò che distingue, soprattutto, i semplici animali dalla forma di vita (non microscopica) di maggior successo sulla Terra: il focolare.

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