L’epica battaglia delle linci canadesi in amore

Nella scena culmine dei migliori film d’arti marziali Wuxia, premiata scuola cinematografica cinese, c’è una scena ricorrente: la battaglia volante nella foresta. In cui la protagonista in fuga, guerriera ereditaria o principessa addestrata da un famoso maestro particolarmente irsuto (per lo meno, in termini di bianca barba) viene raggiunta dalle truppe dell’usurpatore, proprio mentre stava per lasciare i confini della sua provincia. Ed è allora che con i suoi pugni e calci, la spada o gli altri attrezzi d’offesa del kung fu, ella elimina rapidamente quasi ogni singolo avversario, tranne ovviamente quello principale. Il fiero capitano della guardia imperiale che, con un rapido gioco di corde teatrali, sconfigge letteralmente la forza di gravità, per balzare in aria ed attaccarla dall’alto. Ed è allora che lei, piuttosto che continuare la sua fuga, si solleva fluttuando ad incontrarlo, poco prima di atterrare sopra i rami del flessibile bambù. Segue l’elegante parapiglia molto simile a una danza, con la pianta erbacea più alta del pianeta che si piega da una parte e poi dall’altra, offrendo un pratico trampolino per l’improbabile schermaglia. Eppure, il furbo spettatore non può fare a meno di chiedersi: si odiano davvero? O si riesce a intravedere, nello sguardo dei vertiginosi primi piani, il più piccolo e remoto accenno di quel sentimento universale, l’amore..
Di certo, nella regione canadese dell’Alberta non è facile immaginare le presenze vegetali assumono una foggia largamente differente. E in assenza della voracità del panda, gran divoratore di flessibile verzura, le foglie tendono a cadere verso il mezzo dell’inverno, donando alle foreste di pioppi boreali (aspen) un’aria caratteristica e spoglia. E poi, tra le distese candide e innevate della Grande Prairie, o per meglio dire, presso la moderna cittadina che porta quel nome (69.000 abitanti) non c’è una sola principessa, ce ne sono molte. Vestite magnificamente col folto mantello peloso, il cappello invernale con le orecchie a punta, l’espressione estremamente attenta, la coda tronca dall’estremità nera. No, non è un cosplay. Ma una breve descrizione, dei punti per così dire salienti, della femmina di Lynx canadensis, uno dei più celebri felini adattati a vivere nei climi freddi, per la sagoma che tende a farlo assomigliare ad un agile orsacchiotto miagolante. Eppur dotato, come i suoi simili, di artigli affilati e forti denti carnassiali, adatti a strappare via la carne della lepre che riescono a ghermire. Una componente feroce della loro essenza, questa, che si specchia chiaramente nella scena qui ripresa, e pubblicata sul canale Facebook rilevante, dall’abile naturalista che usa l’alias Famous Amos Photography, il quale si trovava nei dintorni della sua città di residenza per catturare qualche immagine del suo volatile apparentemente preferito, il gufo, soltanto per trovarsi di fronte alla più straordinaria e inaspettata delle scene. “La più incredibile esperienza della mia vita” esordisce quindi nella descrizione al video, lasciando che le immagini parlino per dar supporto a tale affermazione. Mentre una versione più approfondita della storia compare sulla testata CBC News, dove il fotografo racconta di aver visto le linci che s’inseguivano dall’automobile, fermandosi immediatamente per andare a investigare. E di come successivamente se le sia trovate a pochi metri di distanza, mentre il suo primo istinto, in quel momento, fosse stato estrarre dalla cintura le fondamentali bombolette di spray anti-orso (mai più senza) poco prima di vedersi superare in corsa forsennata, per poi ritrovarsele improvvisamente sopra la testa, ad un’altezza di circa 30 metri. E sentirle, all’improvviso, cantare insulti ultramondani… O gridare in altri termini, la sconfinata furia della natura. Se avete presente lo spettacolo generalmente offerto dai gatti in amore, forse potevate anche aspettarvi qualcosa di simile. Ora moltiplicatelo per animali lunghi tra gli 80 e 105 cm, ed inizierete a comprendere ciò di cui stiamo parlando! Ma non contenti di emettere suoni, a quel punto i due animali hanno iniziato a rincorrersi tra i rami, con un’agilità capace di sfidare i preconcetti sulla loro forma corpulenta, in realtà frutto principalmente del folto pelo. Uno strano modo di corteggiarsi a vicenda…

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Le foto satellitari di Google riscoprono i popoli dell’Amazzonia

Siamo oggi dotati di uno degli strumenti didattici più potenti della storia: un mappamondo in rilievo che può essere ingrandito, ruotato, esplorato e scomposto nel mosaico di tutte le riprese mai effettuate da una fotocamera sospesa in orbita geostazionaria. Fino al volgere dell’anno 2000, i bambini studiavano la geografia mediante l’impiego di carte geografiche o globi di plastica, fatti ruotare manualmente. Oggi, la percezione delle masse continentali, i mari, i monti e le nazioni viene acquisita tramite una sorta di fantastico videogame, che contiene, ed al tempo stesso amplifica, la simulazione di volo, l’escursione avventurosa e la trasformazione in spettri fluttuanti all’interno di un istante congelato nel tempo. E se questo rappresenta, per noi gente comune, il software rivoluzionario di Google Earth, pensate cosa può arrivare ad essere per un archeologo: colui che, come parte inscindibile del suo lavoro, dovrà costantemente compiere ricerche sul campo, al fine di ampliare il ventaglio delle nostre conoscenze della storia. Eppure, non importa quanto eclettico, per un simile studioso ha sempre importanza poter visualizzare l’aspetto complessivo di un luogo, il rapporto tra i diversi biomi che s’intrecciano in esso, i confini geografici degli spazi occupati da una determinata civiltà. Proprio quello che stavano facendo, presumibilmente, Jonas Gregorio de Souza e José Iriarte dell’Università di Exeter, assieme a svariati colleghi, in relazione ad un’area relativamente poco approfondita della vasta foresta del Brasile, polmone osmotico di tutti noi. Quando, spostando il cursore del mouse nei dintorni del bacino del Tapajós, uno dei principali affluenti del Rio delle Amazzoni diviso tra gli stati del Mato Grosso e il Parà, relativamente poco esplorato dai ricercatori di questo campo. Poiché si riteneva tradizionalmente, con valide prove logiche, che le popolazioni stanziali di un simile contesto fossero vissute, prima della venuta di Cristoforo Colombo, principalmente nelle pianure fertili, piuttosto che all’ombra degli alberi della giungla, dove il suolo dalla composizione acidica avrebbe compromesso qualsiasi coltivazione a scopo alimentare. Così che oggi permane, immutata, questa immagine del tipico indigeno dell’Amazzonia, un appartenente a comunità tribali nomadi, prive di strutture sociali complesse. Eppure per quale ragione dovremmo pensare che quello che è vero oggi, debba esserlo stato fin dall’alba dei tempi? Una linea d’analisi che deve aver guidato il team di Souza mentre ciascuno dei partecipanti annotava, l’una dopo l’altra, una serie di 81 strane forme rilevate ed evidenziate nel territorio, una sorta di versione in piccolo degli antichi geoglifi di Nazca, la celebre pianura peruviana con le immagini rituali di numerosi animali ed altre geometrie. Abbastanza per ipotizzare, nell’intera area presa in analisi, una popolazione di circa un milione di persone complessive, in linea con una proiezione ottimistica di fino a 10.000.000 nell’intera area amazzonica, laddove in molti ritengono, tutt’ora, siano esistiti sempre e soltanto dei piccoli villaggi isolati.Ma nulla di tutto questo avrebbe dato dei risultati degni di pubblicazione, se la squadra non si fosse quindi organizzata, al termine della ricerca, per armarsi ed andare a verificare direttamente l’importante intuizione.
Questo è il principale dovere degli esploratori: vedere coi propri occhi, prima di dare la forma finale a un’idea. Eppure anticamente, non sempre la loro categoria veniva considerata pienamente degna di fiducia. Nel 1533, il missionario dominicano spagnolo Gaspar de Carvajal partì dalla colonia peruviana di Quito, dove era approdato sette anni prima per diffondere la parola di Dio, al fine di accompagnare il governatore Gonzalo Pizzarro, fratellastro del più famoso Francisco, nella sua ricerca della leggendaria “Terra della Cannella” chiamata in spagnolo la Canela. L’ecclesiastico quindi, assunto come cappellano della spedizione, tenne un dettagliato diario del viaggio, che oggi costituisce una delle testimonianze più rilevanti delle civiltà precolombiane del Sudamerica al momento del loro massimo splendore, prima che le malattie importate, i conflitti armati con gli europei e la privazione delle risorse ne decimassero tristemente la popolazione. Eppure per secoli, il suo racconto fu considerato a tratti esagerato, sopratutto quando parlava delle vere e proprie città costruite lungo il corso dei fiumi dell’entroterra brasiliano, costruite “…per un estensione di fino a 15 miglia, senza lasciare alcun tipo di spazio tra una casa e l’altra” e “vasti campi coltivati nelle radure, paragonabili per varietà e ricchezza dei raccolti a quelli della nostra Spagna”. Finché tanto tempo dopo, quasi accidentalmente, Google Earth non gli ha dato ragione.

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Il fucile proibito che uccideva 100 anatre in un colpo solo

Nonostante la ferocia delle battaglie, e il costo in termini di vite pennute, non fu mai dichiarata una vera e propria guerra. Ma noi umani combattevamo con la ferocia di chi vede in gioco la sua stessa sopravvivenza: o noi o loro, la carne o la morte. Il più delle volte, la morte. Grazie alle più potenti, spietate armi che l’ingegno di un fabbricante poteva giungere a concepire. Era pressapoco il termine del secolo XIX, quando la leggendaria figura del cacciatore professionista Ray Todd, assieme a tre altrettanto determinati colleghi, si avviò per la sua leggendaria battuta nei dintorni delle acque paludose di Chesapeake Bay. Sulla Costa Orientale degli Stati Uniti, dove gli uccelli acquatici si fermavano per riposare nel corso delle loro lunghe migrazioni, a bordo di barche prive di chiglie, per non incagliarsi, e pesantemente rinforzate in ogni aspetto della loro struttura. Di certo, c’era un ottimo motivo: spesso si sussurrava, nei luoghi di ritrovo e nei pub costruiti sul modello irlandese, di come più di un incauto sparatore locale si fosse visto sfuggire il fucile di mano, mandando quest’ultimo a impattare contro la murata posteriore della piccola punt (imbarcazione sospinta col palo) e affondandola immediatamente. Ci sono cose che possono rovinarti la giornata. Altre ancora, privarti del tuo stesso implemento economico di sopravvivenza. E di sicuro nessuno avrebbe mai pensato di mettersi a scherzare, di fronte all’orripilante potenza di una punt gun.
Possiamo immaginarci questa scena nei dintorni cronologici del tramonto, quando i volatili si fanno più coraggiosi, e puntando sulla sicurezza del numero si posano in massa alla ricerca di nutrimento: “Qualunque cosa succeda, non potranno ucciderci tutti, giusto?” Hmmm… Rispondevano gli osservatori galleggianti nelle profondità dei loro pensieri, da una distanza di sicurezza, nel soppesare il modo migliore di avvicinarsi. Dinnanzi a loro, uno degli stormi più impressionanti che avevano mai visto, di un’estensione approssimativa di mezzo miglio. I quattro dell’Apocalisse si scambiarono uno sguardo carico di sottintesi. Tirato in barca il palo, un sistema di propulsione troppo rumoroso, si dotarono ciascuno di un paio di piccoli remi, usati con cautela per fare breccia nella superficie intonsa della palude. Un poco alla volta, ciascuno di loro prese posizione in campo aperto, da dove prendere di mira un’intero angolo della moltitudine starnazzante. Nessuno, tra gli animali presenti, educati dalle leggi ferree e misericordiose della natura, poteva realmente comprendere ciò che stava per capitare. I cacciatori, a quel punto, rivolsero la loro attenzione al principale elemento delle piccole imbarcazioni: un tubo di ferro lungo tra i 2 e i 2,5 metri, dal diametro di fino a 5 cm. Al termine di ciascun tubo, c’era un meccanismo di sparo, bastante ad interpretare gli oggetti come altrettanti, giganteschi fucili. I quali erano stati già caricati prima della partenza, per non fare rumore, con una quantità approssimativa di mezzo chilo di pallini, abbastanza grandi da crivellare un’intero branco dei bisonti di Buffalo Bill. Anche l’effetto in termini d’estinzione incipiente, tutto considerato, era ragionevolmente comparabile a quello. Ray Todd tirò i piccoli remi in barca, prima di alzare leggermente il braccio destro, voltandosi al rallentatore per assicurarsi che i suoi compagni avessero fatto lo stesso. Ciascuno di loro, evidentemente, era pronto a far fuoco al suo comando. Allora il cacciatore calò di nuovo la mano, portandola ad impattare sulla prua del natante. Sull’intera baia, improvvisamente, calò il silenzio. Le anatre percettive, cessando di muoversi disordinatamente, avevano alzato la testa e si guardavano intorno preoccupate. Era il momento: premette il grilletto, sparò.
Ci sono state armi, nel corso della storia, che costrinsero i governanti a cambiare le regole stesse dei conflitti. Strumenti troppo spaventosi (la mitragliatrice Gatling) crudeli (il lanciafiamme) o semplicemente devastanti (la Bomba di tutte le bombe…) perché il loro utilizzo potesse continuare senza alcun tipo di condizionamento. La punt gun fu una di esse, trasferite nel campo relativamente coscienzioso della caccia di 150, 200 anni fa. Il celebre resoconto del cacciatore americano in effetti, la cui opera viene normalmente citata ogni qualvolta ci si ritrova a discutere l’argomento, trova la sua giustificazione e logica nelle cifre riportate a margine della novella: 419 anatre stecchite, al primo colpo sparato di concerto. Ed ancor più col proseguire di una lunga notte, fino ad un totale stimato di 1.000, successivamente rivendute con buon profitto al mercato di Baltimora. La potenza e l’efficacia di questi veri e propri cannoni, impiegati assiduamente anche all’altro capo dell’oceano e in modo particolare in Gran Bretagna, fu tale da costringere i governi, già a partire dal 1860, a promulgare una serie di leggi mirate a limitare il loro utilizzo. Ma l’effettivo divieto non sarebbe arrivato che molti, moltissimi anni dopo….

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L’albero coperto di caviale brasiliano

La luce dell’alba illuminava di traverso le acque del fiume Arinos, affluente di seconda generazione a partire dal grande corso del Rio delle Amazzoni. Se un membro dei vicini popoli Tupinambà o Aimoré, di cui ancora permanevano alcune comunità isolate nel profondo di questa foresta ragionevolmente incontaminata, avesse deciso di sporgersi oltre  gli argini lievemente scoscesi, avrebbe intravisto attraverso il fluido  trasparente la più fantastica varietà di pesci, larve d’insetti e almeno una dozzina di riconoscibili dorsi delle tartarughe dalle orecchie vermiglie, Trachemys scripta, intente, ad un ritmo per loro frenetico, nella ricerca di prede o possibili fonti di cibo. Diciamo di trovarci, in effetti, sul finire dell’autunno, quando persino a queste latitudini tropicali, la temperatura iniziava a calare, e le giornate a farsi progressivamente più brevi. Era il momento, volendo esser chiari, in cui la cognizione del rettile iniziava ad avvisarlo di accumulare una riserva di grassi, sufficiente ad iniziare un lungo periodo di dormiveglia. Non un vero e proprio letargo, sconosciuto per gli animali originari di climi tanto caldi, ma il cosiddetto processo di brumazione, una riduzione dei processi metabolici con attività estremamente ridotta per molti mesi. Comunque abbastanza significativo, da un punto di vista dei ritmi dell’organismo, da poter costare la vita agli esemplari più deboli e privi di nutrizione. Il nostro ipotetico indio, dunque, avrebbe potuto seguire il susseguirsi di gusci scuri, fino al punto in cui essi, tra l’erba di media altezza, sembravano disegnare un percorso a guisa di processione. Come una lenta fila di formiche, verso l’unico possibile obiettivo del loro desiderio: quello che in lingua Tupi viene correntemente definito il jabuti o jaboticaba (a seconda della trascrizione) ovvero letteralmente “luogo delle tartarughe” che ai nostri occhi inesperti, si sarebbe presentato essenzialmente a guisa di un albero, dell’altezza non indifferente di una quindicina di metri. Il più singolare, e magnifico, tra tutti gli arbusti del territorio.
La prima reazione di chi scruta sul campo per la prima volta il bizzarro tronco di questa pianta, purché si tratti di un esemplare adulto e in epoca successiva alla fioritura, è di evidente sorpresa, seguita talvolta da un comprensibile senso d’inquietudine. Questo perché l’arbusto in questione, il cui nome scientifico è Plinia cauliflora, può apparire letteralmente ricoperto da quelle che sembrano a tutti gli effetti a delle uova di una qualche misteriosa creatura, attaccate come quelle dei pesci sulla ruvida superficie di scogli sottomarini. I suoi rami, carichi di fronde verde intenso o color salmone, non hanno in effetti l’accompagnamento di alcun tipo di frutto né fiore. Parti che si trovano rappresentante, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, lungo lo spazio verticale del tronco stesso, attraverso la scorza coriacea di una corteccia strappata in più punti. Globi, su globi, su globi, di un nero lucido che cattura l’anima, e l’assorbe attraverso il ritmo ed il canto del desiderio. Un odore sottile ma percepibile a grandi distanze, carico di un sentore zuccherino, tale da risultare irresistibile per il naso attento delle tartarughe vermiglie ed altre… Più singolari specie. Tornando così al nostro accompagnatore in questo fantastico mondo di misteri, egli avrebbe scoperto il raduno delle compatte creature, intente a consumare il mare di bacche mature già cadute a terra. Tra tutte loro, quindi, sarebbe comparsa la forma di un essere notevolmente avvantaggiato: la càgado de serra, o tartaruga dal collo serpentino. La quale, protendendosi alla massima estensione permessa dalla sua flessibile spina dorsale, piuttosto che afferrare l’oggetto del desiderio dal suolo erboso, riusciva a farlo direttamente dal tronco, acquisendo per se le primizie migliori. Che fosse proprio questo, il segno cercato dall’indio? Sorridendo tra se e se, l’uomo estrae dalla sacca il suo flauto tradizionale, intagliato nella forma del pesce apapà, col quale emette un fischio attentamente modulato, il cui significato era “Venite, accorruomini. L’yvapurũ è pronto. L’ora del raccolto è già su di noi.” Sarà meglio che si affrettino, pensò tra se e se. Mentre le tartarughe, imperterrite, continuavano a masticare, purũ-purũ, purũ-purũ…

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