L’uomo che da 53 anni costruisce la sua cattedrale

Justo Gallego

“Un edificio così, posso tirartelo su in… 144 ore, esattamente sei giorni. Ed il settimo ci riposiamo” Ah, si. La modernità! Che consente ad un’impresa, del tipo maggiormente rappresentativo di questa realtà dell’edilizia, di costruire un qualche cosa a pezzi, nelle incandescenti acciaierie e gli stabilimenti di lavorazione cementizi. Quindi caricarlo su dozzine di camion, raggiungere la posizione pre-determinata e con un gran dispiegamento di uomini, di mezzi e attrezzature, rendere reale il fabbricato, così. Ci sono aziende prevalentemente cinesi che, negli ultimi anni, si sono ferocemente combattute al fine di creare il palazzo più alto nel più breve tempo possibile (40 piani in 4 giorni, 120 piani in 10 giorni!) dimostrandosi potenze rilevanti nella progressiva inurbazione delle masse popolari un tempo disagiate. Il mondo cresce, l’ha sempre fatto e non potrà mai smettere di farlo. Tanto che sarebbe possibile, allo stato dei fatti attuali, replicare da una luna piena all’altra un qualunque tra le più grandi opere architettoniche del passato. Eppure, in quale modo queste sarebbero la stessa cosa? Nell’aspetto? Possibile. Nella limitatezza di funzioni e convenienza? Forse, ma non credo. Nello spirito? Impossibile! Non tutto quello che lo rende meritevole di essere abitato, merita di essere privato del suo originario quantum di complessità.
Don Justo Gallego Martínez è l’ex cistercense di matrice trappista, con 8 anni trascorsi presso il monastero di Santa María de Huerta nella provincia di Soria, che da quando ne aveva 36 ha fatto ritorno nella sua nativa Mejorada del Campo, una cittadina sul confine di Madrid. Con una finalità davvero particolare: mettere a frutto in modo pratico quanto da lui appreso come costruttore autodidatta, attraverso la lettura di alcuni vecchi tomi sull’architettura dei latini e del Rinascimento, al fine di costruire un edificio di 20×50 metri, con superficie di 8000 metri quadri. Dedicato, molto chiaramente, a Dio. Ma andiamo…Con ordine. Dalla ricca selezione di testimonianze reperibili online, è possibile ricostruire almeno in parte la vita e le esperienze di quest’uomo totalmente fuori dalla convenzione: Gallego Martinez nasce nel 1925, in una famiglia molto cattolica di agricoltori e proprietari terrieri. Ciò gli fornisce, fin da subito, ottime prospettive di una vita agiata, condizione che tuttavia non sembra soddisfarlo. Così egli decide, attorno al 1953, di intraprendere il sentiero della vita monastica, per meglio perseguire la profonda spiritualità del suo sentire. I suoi colleghi del monastero, tuttavia, non sembrano approvare il suo modo di essere, che lo portava ad essere schivo, poco loquace, per quanto possibile persino solitario. Don Justo dedica le sue giornate al solo studio e alla preghiera, rivolgendo appena la parola ai conviventi, finché non capita una fatale evento che accelera il momento di rottura: nel 1961, poco prima di pronunciare i voti definitivi, egli si ammala di tubercolosi, e deve temporaneamente lasciare il monastero di Santa María. Portato d’urgenza all’ospedale di Madrid, inizia un periodo di dura degenza, durante il quale, tra i patémi della malattia, giura: “Se Dio vorrà guarirmi, cambierò il sentiero della mia vita. E la dedicherò completamente a Lui!” Nel frattempo la madre, fervente religiosa, non ha dubbi di sorta: la malattia non è che un contrattempo, i monaci hanno in realtà rifiutato suo figlio e non vorranno più riaverlo indietro. Intuizione che si rivela di lì a poco un’assoluta verità, quando Don Justo, finalmente guarito, sceglie o in altri termini è costretto a trasferirsi col cognato e la sorella, che gli sarebbero rimasti vicini per il resto della vita. Lungi dal perdersi d’animo, quindi, inizia il periodo più profondo di auto-documentazione della sua vita, durante il quale impara da autodidatta i mestieri del muratore, dell’architetto e dell’ingegneria. O per meglio dire, si costruisce nella sua mente una serie di equivalenze, indubbiamente semplificate, di ciascuna secolare disciplina, per poter disporre finalmente di strumenti validi alla realizzazione del suo sogno. Ad un certo punto duro e inevitabile, quindi, gli succede di ereditare le proprietà dei genitori, inclusive di numerosi terrieri agricoli attorno alla città di Madrid. La maggior parte li vende, alcuni li dà in affitto, soltanto uno sceglie di tenerlo per se, nell’area sempre meno rurale dei sobborghi di Mejorada. Nei mesi successivi, con sommo stupore dei vicini di casa, sopra quel suolo iniziano ad accumularsi mucchi e mucchi di mattoni.

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Viaggiatore sperimenta 10 giorni di meditazione thailandese

Living with the Monks

In molti l’hanno sperimentato senza conoscerne il nome. Mentre si fa ritorno a casa da un luogo lontano, sopra l’autobus o il treno, in automobile, mentre si percorre il tratto a piedi verso l’ultimo traguardo dello spostamento: si usa dire sonder, in lingua inglese contemporanea, facendo affidamento allo strumento del neologismo per rispondere al bisogno molto umano di trovare un nome ad ogni cosa. Si tratta di un sentimento assai specifico, eppure contenuto in linea teorica nella struttura basilare della nostra mente: l’improvvisa, e qualche volta niente meno che shockante, presa di coscienza che tra tutte le persone che ci circondano hanno una storia, complessa e stratificata almeno quanto la nostra, con innumerevoli elementi, amici, luoghi e punti d’interesse. Che noi dal canto nostro, non conosceremo mai. In altri termini, è la comprensione della nostra assoluta assenza di significato nello schema generale delle cose, per una semplice questione di rapporto tra le grandezze in gioco. Esiste quindi una versione urbana della sonder, che deriva non più dall’osservazione diretta dei nostri simili, ma degli usci delle loro case. Dietro ogni porta o ingresso di un palazzo, quanti sogni, quante speranze, quali oscuri ed incomunicabili segreti… Occasionali volte, camminando, ci si immagina dall’altra parte di quella membrana. Senza più un briciolo della propria pregressa identità. E se invece, dietro una particolare porta, non ci fosse altro che il Nulla? Che ne sarebbe, allora, di colui che molto coraggiosamente decidesse di varcarla, alla ricerca di qualcosa di perduto? È un gesto atipico che nasce da un atavico bisogno. Quello compiuto da Dave Hakkens, il travel blogger  dalle inclinazioni ambientaliste, inventore tra le altre cose dell’encomiabile progetto Precious Plastic, che si propone d’insegnare alle popolazioni disagiate come costruire macchine per il riciclo. Colui che durante il suo attuale itinerario in giro per l’Asia (a giudicare dagli ultimi video, le tappe sono state diverse) piuttosto che abbandonarsi alla malinconia che nasce da un simile senso dell’identità perduta, si è diretto verso uno di questi ingressi misteriosi, favolosamente ornati con bassorilievi lignei d’altri tempi, ha bussato e quindi fatto un passo avanti, dentro a uno di questi mondi ben distinti dalla strada comunitaria. Per trovare al suo interno, come da copione, il più totale ed assoluto…
Chi l’avrebbe mai pensato? Siamo a Chiang Mai, una città di 148.000 abitanti sita nell’omonimo distretto del nord della Thailandia, presso il Wat (tempio) di Ram Poeng, costruito per la prima volta, stando quanto riesce a desumere dal breve paragrafo in doppia lingua (tradotto non benissimo) offerto sul sito ufficiale dell’istituzione, attorno al III secolo d.C, quando Chao Yod Chiang Rai, decimo sovrano della dinastia di Mengrai, salì sopra il trono dopo l’assassinio di suo padre. Scoperta quindi l’identità dei cospiratori colpevoli di tale gesto, egli li fece subito mettere a morte, ma poiché era un fervente buddhista dedito alla non-violenza, decise quindi di fare ammenda finanziando la costruzione di un nuovo luogo di culto presso la sua vasta capitale. Quello stesso tempio che oggi si ritrova come protagonista del presente video, dedicato all’attività contemporanea dei suoi monaci, appartenenti alla scuola del buddhismo Theravāda, una corrente identificata con la natura più antica di una tale religione, diffusa soprattutto nel Sud-Est asiatico, mentre l’India e l’Estremo Oriente vedono il suo superamento da parte della scuola di matrice tibetana del Mahāyāna, il Grande Veicolo che si trova perfettamente, e brevemente espresso nella divina natura del Sutra del Loto, l’antichissima espressione di assoluta Verità. Accettato come assoluto e imprescindibile fondamento della propria stessa dottrina dalle scuole cinesi Tiāntái e da quelle giapponesi Tendai e Nichiren. Ma non qui. Dove il significato dello studio dell’insegnamento del Buddha nasce dall’analisi di ciò che abbiamo intorno, ed all’interno della nostra stessa mente, verso un raggiungimento di uno stato superiore di coscienza. Di certo, accettare l’offerta sempre presente di varcare una tale soglia, per passare un tempo di poco superiore a una settimana assieme ai monaci, conoscendo il loro stile di vita…Deve aver costituito un’esperienza…Indimenticabile, nevvero?!

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A Carnevale, quando il diavolo cammina tra le strade boliviane

Carnival de Oruro

Difficilmente sarebbe possibile trovare, nell’odierna tradizione popolare di ogni luogo, una migliore antonomasia del concetto dell’umanità in festa ed estasi pressoché totalizzante, piuttosto che nell’occasione delle celebrazioni tipiche del carnevale sudamericano, che spesso incorporano mitologie e credenze pre-esistenti, per creare un mondo di colori rutilanti e splendide sfilate variopinte, dagli eguali alti meriti, sia esteriori che spirituali. Una categoria a cui senz’altro appartiene, pur essendo relativamente poco noto qui da noi, la grande festa annuale che si svolge a partire dal sabato prima del mercoledì delle Ceneri, collocato come da prassi del calendario in una data variabile tra l’inizio di febbraio e la prima decade di marzo, presso la prosperosa cittadina boliviana di oltre 250.000 abitanti che ha il nome di Oruru, equidistante dai due centri ben più popolosi di Sucre e la Paz. Durante il quale, i diversi distretti si organizzano con magnifici ed esagerati costumi, appartenenti a gruppi di danza mirati a rappresentare, di volta in volta, alcuni momenti significativi della leggendaria storia cittadina. Tra cui…
La più grande battaglia di tutti i tempi, l’ultimo capitolo di un eterno conflitto tra il bene e il male, gli avversi princìpi che nel corso delle epoche si trovarono a confronto in molti luoghi differenti della Terra. Scenari come l’antica sede della tribù degli Uru-Uru, sita in prossimità dell’omonimo lago nella parte sud-occidentale del paese dell’entroterra che confina con Perù, Brasile e Paraguay. Fu un momento, stando alla memoria orale di coloro che riuscirono a superare la tremenda crisi, assolutamente critico, ed al tempo stesso magnifico e glorioso. E che potrebbe dirsi l’allegoria del destino di un intero continente, il quale a seguito di quel momento, abbandonò gli antichi dei per camminare assieme all’uomo cosiddetto “bianco”. Una transizione che il senso comune di oggi tende a considerare con un certo grado di diffidenza, ricordando il destino di tante genti che non seppero, né vollero accettare la dottrina e l’etica cristiana. Ma che in questo caso, non è davvero difficile capirlo, trovò terreno fertile ed un luogo pronto a convertirsi con imprescindibile entusiasmo. Fu una catarsi di proporzioni, a dire poco, bibliche.
Non c’è una data precisa attribuita a questo evento, come per ogni vero mito che si rispetti, ma è lecito collocare storicamente l’azione attorno all’inizio del XVII secolo, quando il conquistador Don Manuel Castro de Padilla, giunto sin qui dalla Spagna di Filippo III (il sovrano detto “il Pio”) ebbe l’iniziativa di fondare in questo luogo una piccola colonia mineraria, ispirato dalla presenza di alcuni corposi giacimenti di argento e stagno, siti a 3709 metri dal livello del mare. La situazione socio-culturale della regione, a quell’epoca, era piuttosto complessa: fin dall’ormai distante era pre-colombiana, infatti, nell’intera regione del Perù settentrionale si erano susseguiti una variegata serie di divinità e credenze, di volta in volta esportate dall’antica cultura costiera di Wari, quindi prese in prestito, o secondo alcuni, imposte, dalle propaggini meridionali del grande impero degli Inca. Ma nel momento in cui simili sistemi di valori raggiungevano terre tanto remote, tendevano immancabilmente a perdere coesione, sperimentando spesso un cambiamento di significati e ruolo. Avvenne così che agli antichi spiriti degli animali venerati in questi recessi montani, come il dio-lucertola Arankani, la vipera Quwak e il rospo Jampatuqullu, si fossero affiancati, a partire da un’epoca risalente grossomodo all’anno 1000, anche due figure antropomorfe di matrice straniera: la prima maschile e profondamente avversa all’umanità, di nome WariDesam, mentre l’altra femminile e benevola, Apus waka. All’arrivo degli occidentali, quindi, e con l’iniziare della conversione al cristianesimo, tali mistiche entità tutto scelsero, tranne che restare quietamente in silenzio, ricacciate dall’imago della croce dentro le caverne o tra le rocce dei massicci andini.

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I tre volti dell’artista Murakami: Buddha, manga e re Louis

Murakami Baozhi

Come certamente ben sapranno i fan di Dragonball o una qualsiasi altra serie fantastica di arti marziali, uno dei concetti più importanti nella rappresentazione estremo orientali del potere sono le aure luminose, che permeano la figura corporea di tutti coloro che hanno raggiunto una stazione più avanzata sulla strada verso l’illuminazione. Connotazione estetica che nelle statue, nella pittura e perché no, anche nella moderna cultura di massa, gli studiosi d’iconografia amano definire mandorla, per la sua forma piatta in corrispondenza del suolo, ed allungata verso il lato superiore della scena. Il che dimostra, incidentalmente, il modo in cui la frutta secca fornisca la perfetta metafora per molti aspetti di una delle religioni più diffuse d’Asia, come quella particolare circostanza, sorprendentemente desiderabile, di vivere la sbucciatura di una noce… Nel Museo Nazionale di Kyoto, su gentile concessione del tempio di Saion-ji, è custodita da oltre un secolo una statua lignea particolarmente affascinante risalente addirittura all’epoca Heian (794 – 1185) e che dovrebbe raffigurare, almeno secondo le fonti filologiche a disposizione, la figura semi-mitica del monaco Baozhi, vissuto durante la vita dell’imperatore cinese Wu dei Liang (regno: 502–549) e che fu un discepolo diretto del sommo patriarca Zen, Bodhidarma. Costui, raffigurato sopra un piedistallo a forma di fiore di loto, in abiti da pellegrino e con in mano una bottiglia, presenta una condizione somatica particolarmente inusuale: la sua faccia è infatti spaccata longitudinalmente, con le due metà che si separano ed al centro un nuovo volto, identico, che spinge per conquistarsi uno spazio fra le orecchie e al centro della testa. E chi sarebbe mai, costui? Secondo alcuni, nient’altro che il bodhisattva Kannon (anche detto/a Avalokiteśvara, Guānyīn) personificazione della misericordia, a volte donna, a volte uomo, con la caratteristica di innumerevoli volti e braccia, usati per assistere chi soffre sulla Terra. Secondo altri, un diverso aspetto del monaco stesso, la sua essenza liberata finalmente dalle catene e dai pesanti bisogni della vita terrena. Ed è certamente verso questa seconda ipotesi, che tende la neo-rappresentazione della stessa cosa messa in scena dal quotato artista giapponese Takashi Murakami in occasione dell’inaugurazione della sua nuova mostra “I 500 Arhat” presso il museo Mori nel quartiere Roppongi di Tokyo, che rimarrà aperta al pubblico fino al 6 marzo del 2016, dopo un’assenza ormai protratta per un tempo superiore ai 14 anni. Prima di tornare, come un fulmine variopinto, accompagnato da una vasta serie di opere tra cui quella che dà il nome all’evento, ovvero un titanico dipinto lungo circa 100 metri, che rappresenta nelle sue quattro “regioni” dedicate alle direzioni cardinali le innumerevoli figure dei titolari santi del buddhismo, coloro che per primi o con effetto duraturo scelsero di seguire gli insegnamenti della figura storica di Śākyamuni. Un soggetto dalle forti implicazioni filosofiche, a cui l’autore mise mano per la prima volta nel 2012, assieme ai giovani creativi del suo collettivo Kaikai Kiki, incontrando significativi ostacoli ad un rapido completamente. Eppure, non occorre un’approfondita analisi critica o di contesto, per comprendere come molti degli aspetti estetici che scaturiscono dall’incontro tra l’artista e la religione abbiano un intento di rottura col passato, quando non addirittura, pienamente satirico ed irriverente. Molte delle figure, sembrano orchi, mostri, diavoli cornuti!
Particolarmente evocativa, a tale proposito, potrebbe anche dirsi la maschera di sicuro impatto indossata dal principale figurante reclutato in occasione dell’apertura della mostra (potrebbe anche essere stato l’artista stesso, chi può dirlo) con il volto di Murakami colto nell’attimo in cui sta subendo la stessa trasformazione di Baozhi, con tanto di occhi mobili e il rosso sangue visibile sotto la finta “pelle”. La pagina Facebook ufficiale ne mostra l’attenta preparazione, attraverso l’impiego di materiali plastici e componenti mobili meccanizzate. Di certo, l’antico autore religioso della statua del tempio di Saion-ji sarebbe rimasto assai colpito dalla parte tecnica di un simile progetto. “Ma c’era proprio bisogno…” Avrebbe presto aggiunto, perplesso dall’intramontabile preponderanza dell’ego: “…Di usare un volto uguale a quello dell’autore?”

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