Con il metodo della ruota si taglia più legna

Tire Method

C’è un detto americano che recita: “La legna che tagli da solo ti scalda due volte.” Dal che si desume, almeno in via teorica, che quell’altro albero che addirittura abbatti con le tue forze e poi spezzetti prima di inserire nella stufa, sono almeno quattro, le volte parallele in cui ti dona il suo tepore. E se un tale arbusto tu l’avevi anche piantato e coltivato, curato laboriosamente per diversi anni, ciò che ne deriva è un carburante supremo, non tanto per la qualità di quella legna, quanto per il fatto che derivi da un lungo e reiterato sforzo quotidiano. “La fatica nobilita il boscaiolo.” Sembra profilarsi come semplice morale della situazione. Ma questo non significa che sia sempre necessario, o utile, complicarsi la vita: pensate alle tipiche immagini inserite nei poster motivazionali delle grandi aziende d’oltreoceano, secondo i quali non c’è “I” (la lettera ma pure la parola io) in “TEAM” e nell’immagine figura una barchetta con un buco, in mezzo alla tempesta, con due individui che si affannano a svuotarla tramite l’impiego di altrettanti secchi. Mentre uno soltanto, indolente, siede silenziosamente all’altro lato del natante, senza fare un alcunché di nulla. Però ecco: se non ci fosse un contrappeso all’altra parte dello scafo, a farlo pendere in maniera corretta, l’acqua entrerebbe immediatamente in eccessiva quantità, portando tutti giù fino al fondale. E simile è la storia di quell’altra allegoria, con il LEADER che conduce avanti il carrettino assieme ai suoi stessi schiavi, con sopra la pietra gigantesca necessaria per una qualche piramide egizia, mentre di contrasto il BOSS, seduto sopra al suo di carico, aumenta passivamente il peso che quegli altri devono spostare. Però pensate a questo: se non ci fosse qualcuno, lì sopra, ad indicare il passo da seguire, o a dare il tempo degli sforzi con le sue frustate (ehm…All’epoca si faceva così) fin dove potrebbe mai giungere una tale pietra? Lavorare in modo intelligente, risolvere i problemi: è questo ciò che conta. L’impegno, lasciamolo a chi a voglia di fare futile filosofia.
Spaccare il proverbiale ceppo, nella vita urbana contemporanea, è un compito che sta acquisendo un fascino sempre maggiore. Soprattutto, a ben pensarci, perché sono sempre meno le persone che l’abbiano fatto: al cinema, nei telefilm, tra un’avventura e l’altra dei cartoni giapponesi, figura spesso l’attimo di riflessione, in cui l’eroe, in una tersa mattina d’inverno, sfoga le sue frustrazioni contro l’ultimo residuo di un tempo maestoso arbusto. E l’intera circostanza, nel complesso, appare conturbante, con gli uccelli che cantano, qualche lieve sbuffo di fatica, la natura che ci osserva da lontano, compiaciuta. Mentre nella realtà dei fatti… Persino negli Stati Uniti più rurali, addirittura in mezzo agli alberi del Canada selvaggio, questo non è un compito che l’uomo della strada affronti tutti i giorni. Troppo pratico è un sistema a pellet, se non addirittura la simpatica bombola del gas. Così, in genere, o ti manca l’esperienza, oppure la costituzione. Punta il maglio oppure l’ascia, fallo bene e stai sicuro che ci metterai soltanto due minuti. Ma il ragazzo, in genere, sbaglierà mira una volta su due, mentre l’uomo per così dire adulto, a meno che non sia il personaggio mitico di Paul Bunyandovrà fare i conti con l’immediato senso di stanchezza delle membra quando non addirittura il mal di schiena. Entrambi problemi risolvibili, applicando un certo grado d’attenzione a quello che si sta facendo, me nel secondo caso, soprattutto, che risulta tale in modo interessante. Ecco qui un esempio.
Brad è il simpatico signore di mezza età, probabilmente il padre dell’utente di YouTube Sara Pearson, che negli ultimi giorni sta acquisendo una vera e propria esplosione di fama internazionale, grazie all’idea avuta da quell’altra di mostrare un suo particolare approccio al complesso compito di fare legna per il fuoco. Ed il consenso collettivo è chiaro: si tratta di una soluzione semplice, ma Geniale.

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Disseppellisce la falce per finire prima

Scythe Festival

Rutilante, rumoroso decespugliatore. L’invenzione spaventevole, risalente al 1970, del texano George Ballas, che lo chiamava il “Mangiatore d’Erba”. Costruito in origine, con ingegno campagnolo, attaccando a un lungo attrezzo per solcare il suolo un motorino di recupero, poi su quello un corto filo per la pesca d’altura e una lattina vuota alla sua estremità, onde far da contrappeso alla centrifuga questione. Affinché l’arnese, roteando vorticosamente, facesse un cumulo della vegetazione inopportuna, dalle erbacce, ai rami che tentavano di primeggiare, fin’anche allo stesso placido manto verde della sua tenuta, sempre troppo pronto a uscire dalle righe. Nulla è statico, tranne ciò che è connotato dall’intento artificiale. Per questo si tenta costantemente di spostare il duro impegno quotidiano a quello del tavolo dell’ingegnere, l’inventore, il creativo delle soluzioni. Perché sia rinconfermata, ancora una volte, l’auspicabile questione della “mente” che sconfigge “il corpo”. Perché mai si dovrebbe faticare, alla ricerca del domani, mulinando l’unico attrezzo dalla lama sfavillante? Risalente all’epoca del bronzo, quanto meno, il cui peso è pari alla radice quadrata dell’inverso della voglia di sudare…Solamente se si è privi di un sentiero alternativo, ci si riduce a spendere le calorie acquisite tanto faticosamente, nel perpetrarsi della più terribile metafora, alludente a Quella col cappuccio nero, triste Morte che livella tutte le creature. Altrimenti, qui da noi ci si sveglia, si fa colazione. Poi si preme un comodo pulsante sull’impugnatura. Il resto fa la macchina, ciarliera compagna di una lunga passeggiata. Ma il prato è grande è pieno di sorprese…
Peggio dell’imprevisto, più terribile dell’emergenza. Ciò che annienta e disillude le precoci aspettative, portando l’entusiasmo a spengersi come la fiamma di un falò, sotto la pioggia fredda di un Settembre prossimo venturo: giorno dopo giorno, all’ora predeterminata, fare quella Cosa, quindi l’altra, poi mangiare, poi dormire, è la routine. Quando hai tolto il tempo necessario per andare a scuola, oppure lavorare, poi fare la spesa, cucinare, persino compiere faccende che occupano poco tempo (lavare, stirare, far di conto) cosa resta, della tua giornata? Giusto il tempo per pensare ad un domani, in cui di nuovo la Cosa, seguita da…E in questo siamo pure, dopo tutto, fortunati. Gli Eletti, ad opera perpetuamente rinnovata, di un metodo semplificato, in cui le persone trovano gli orari attentamente connotati dalla ruota fisica di un orologio. Per cui 6-7, ti prepari, 9-18 lavori, 19-21 è il tempo dello svago, etc, etc. Mentre il contadino in senso classico, quell’uomo lì! Non ha respiro… Prova tu a ritrovarti, senza mai vacanze né momenti per l’introspezione, con galline che hanno uova da raccogliere, mucche da mungere, il terreno pronto per la mietitura. Che poi è lontano, quell’insistente suolo vivificatore, e incapace di fermare la sua stolida rinascita e il rigoglio. Totalmente sordo e cieco alle questioni soggettive del bisogno di fermarsi a riposare.
È tutta una questione di contastare la fatica, il rischio, oppure il tempo necessario. Un triangolo dai vertici ben distinti. Soltanto nel regno delle pure idee, coesistono le tre diverse cose: giacché quello che è semplice, in questioni basilari come l’addomesticazione della crescita, spesso si palesa pure più veloce. Pensiamo ad esempio ai nostri antenati Etruschi, che per farsi la barba usavano un rasoio dalla lama curva simile a una mezzaluna. Un tale oggetto lungo all’incirca 15-20 cm, certamente curato nell’affilatura, poteva sfoltire un volto nel giro di due, tre, quattro passaggi. Il problema è che sbagliando, ti tagliavi il naso? Anche, volendo. Ma vuoi mettere! Un singolo strumento come questo, mantenuto adeguatamente, poteva essere tramandato di padre in figlio, diventare un bene familiare. Mentre adesso, una lametta dura dall’oggi al domani, se sei fortunato. È soltanto la falce che resiste, incontrastata…

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La rivoluzione delle macchine inconsuete

Rotational golf cart

Il coraggio di esserci, provare ciò che mai era stato dimostrato prima d’ora: è possibile indurre un moto rotativo in un furgoncino elettrico ed erratico, affinché lo spazio necessario per percorrere un chilometro, due, quattordici persino, ammonti grossomodo a quello di una piccola piazzola? L’area rimanente di un parcheggio, la corsia d’ingresso solamente, quella, nello specifico, del parcheggio affiliato al campus dell’University of Loyola, in quel di Chicago Illinois. Visione tolemaica: le apparenze dimostrano con chiarezza innegabile la realtà dei fatti: coi piedi saldamente sull’aiuola, siamo fermi ad osservare questa dannata cosa, del cavallo senza cavaliere, il carro privo di un cocchiere, stranamente abbandonata al suo/nostro destino. Intuizione galileiana: il soggetto del nostro stupore, quel carrello pazzerello, sembra soltanto che si sposti, mentre in effetti è il mondo che vi ruota attorno (sarà invero applicabile, una simile premessa, al caso qui rappresentato…) Madornale, Wilkinson. Perfettamente grossolano, degno di una cella in Vaticano. Ciò che conta non è il moto del contesto, bensì la ragione delle circostanze.  Ecco le domande che dobbiamo porci: cosa trasportava quel furgone? Chi lo guidava, qual’erano i suoi sogni e le sue aspirazioni? Perché il primo poliziotto, accorso sulla scena con fervore, invece di aprire semplicemente lo sportello, colpisce il finestrino con il manganello, spaccando quel che non aveva un simile bisogno. Ah. Comprendere i remoti sentimenti di chi si trovi al cospetto di una tale circostanza non è facile, guardando da lontano. La tremenda frustrazione. L’odio transitorio per gli stolti ed i folli che l’hanno causata. Come, come, Kingdon Come (Sia Fatto il Tuo Regno) si è arrivati ad una simile ingiustizia verso l’uomo e la natura? Quale serie di sfortunati eventi, per usare l’espressione Snicketiana, può averci condotto a a un tale grado d’eccessiva sofferenza! Mi rivolgo a te, supremo demiurgo degli automi ed i sistemi meccanizzati, Skynet. Chè se pure T. Genysis, l’ennesima iterazione dell’antica saga, dovesse rivelarsi derivativo ed insoddisfacente, poco abbiamo da temere: i segni sono manifesti, i tempi assai maturi. Presto avremo l’occasione di sperimentare sulla nostra pelle quella stessa narrazione di macchine pericolosamente intelligenti, destinate a replicarsi all’infinito. Ed allora chi ci salverà, dal segno orrendo della fine, tranne gli eroici addetti alla sicurezza ed all’IT management!
In qualche modo, lungo la sequela dei momenti che compongono quel video, si finisce per assimilare la propria visione a quella degli astanti, i giovani testimoni accidentali che sottolineano la scena con commenti quali “Non ho mai visto niente di simile.” e “Questa è la cosa più fantastica che mi sia mai capitata!” E beato l’entusiasmo di chi non conosce i casi della vita. Nessuno aspira per la sua carriera futura, a consegnar ciambelle nei diversi bar dell’università. E/o portare via la spazzatura dei dipartimenti di chimica e di biologia (possiamo soltanto sperare che i furgoni usati per le due mansioni siano differenti!) Eppure il mondo è pieno di bisogni, e nulla può corroborarli meglio, che il sudore della propria fronte. Letterale, qualche volta, o assai più frequentemente, ai nostri giorni tecnologici e automatizzati, emanazione metaforica del gesto lieve che manovra il meccanismo, preme quel pulsante, ruota il pegno del volante. Preme l’acceleratore e ti trasforma, per un tempo limitato, nell’oggetto e l’ingranaggio di un sistema, due binari della stessa cosa. Apposizione e predicato al verbo che è il verbalizzare: rendere per oggi manifesta l’intenzione collettiva di risolvere un problema. Così, esso è stato, per colui che puote(va). Osserviamo dunque un breve attimo di silenzio, per il povero Richardson (tanto per usare un nome di fantasia) questo ormai ex-corriere di certo chiaramente identificabile, cui era stato affidato il compito di far spostare la massa del presente furgoncino, con la qualifica di mini-trasportatore. Che per un caso imprevisto del destino, d’improvviso è stato volatilizzato dagli eventi, proprio mentre vigorosamente si appoggiava sul pedale, manovrando per immettersi su quel viale. Non è certo colpa tua, mio caro Richardson se quel veicolo, pochi secondi dopo, ha sviluppato un irrefrenabile desiderio di salvarsi dallo stesso orribile destino.

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Come allungare una trivella

Drilling Rig

Quella problematica realizzazione che anche se il telecomando, posto sopra il tavolino del salotto, è tanto vicino da poter leggere i numeri che contrassegnano i pulsanti, non c’è modo di raggiungerlo senza lasciare la comodità del mio divano. Che ha portato la persona ad inventare un tipo nuovo di strumento: come una sorta di tubo telescopico, con la pinza sull’estremità, controllato da un sistema di tiranti collegati ad una leva. Sono molte, le diverse situazioni che richiedono l’impiego di quello che si definisce in gergo un lungo-arnese: raccogliere lattine vuote dal selciato. Grattarsi la schiena verso l’ora del risveglio. Rubare le monete dai distributori delle merendine. Scavare quasi due chilometri giù nel profondo della crosta del pianeta, fin quasi ai margini di un ricco giacimento di gas o petrolio, soltanto per scoprire che non è possibile scendere oltre. Totalmente impraticabile, non importa quanto sia potente il meccanismo di cui disponiamo: semplicemente, si è esaurita la lunghezza della somma tra il nostro string (la lunga  colonna che collega l’asta di trivellazione al suo motore, ovvero il rotary table) ed il bottom hole assembly (il macchinario che traduce il movimento rotatorio in un effettivo gesto di perforazione). A questo punto, fin dai primi timidi pozzi scavati durante la dinastia cinese dei Song in cerca del prezioso minerale del sale, esistono due strade contrapposte: 1 – Decidere che si è fatto abbastanza, accontentarsi del guadagno già ottenuto, estrarre il meccanismo e muoversi per ricercare la fortuna altrove. 2 – Allungare la trivella. È inutile specificare come quasi tutti, quando possibile, scelgano la via numero 2.
Il concetto era evidente già nell’aspetto esteriore del meccanismo in questione: ecco una struttura, di quelle che abbondano sui punti d’estrazione controllati dalle grandi potenze nazionali, fatta in travatura reticolare di acciaio e visibilmente rastremata verso la sua sommità. Quest’ultima caratteristica in effetti, pensata per massimizzare la sua stabilità, più che per costruire l’aggraziata approssimazione di una piccola e isolata Tour Eiffel. Con sotto di essa un buco verticale, stretto e scuro, di molte volte più profondo dell’altezza contrapposta del dispositivo. Si chiama derrick, questo edificio tanto insufficiente in linea di principio. Non è naturale che il sistema sia fondato su una serie di prolungamenti? Si, naturalmente ci avevamo già pensato, il petrolio è ben nascosto dagli strati di terra, pietra ed altri materiali che si sono accumulati nei millenni. Ma non è che l’effettiva procedura d’innesto e allungamento, in effetti, possa dirsi particolarmente nota, soprattutto fuori dal settore degli operatori rilevanti.
A meno che non si continuino a divulgare, responsabilmente ed in preparazione di un’eventuale apocalisse energetica omicomprensiva, video come questo di CalculatedRiskFilms. Un canale specializzato in contenuti adrenalinici e spregiudicati, che qui s’impegna a dimostrarci come occorra un bel coraggio, oltre ad un’ottima coordinazione di squadra, per giungere infine a quel succo che sostiene la cittadinanza e i suoi veicoli, fa funzionare in larga parte i nostri “irrinunciabili” dispositivi. Per il resto, tutto ok.

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