Il fiore nauseante della pianta senza clorofilla

Sei zampe che faticano a districarsi, antenne che vagano nell’aria, alla ricerca di un’ultima speme. La giornata dello scarabeo stercorario non poteva essere peggiore di così: eppure, la perlustrazione era iniziata coi migliori propositi! Come siamo giunti a questo? Tutto quello che le sue piccole sinapsi arrivavano a ricordare, era l’odore invitante, di un ammasso dell’ottima sostanza da regalare alla partner di deporre le uova. La creta della sua Arte, il tesoro di qualcuno, come si usa dire, che poi è la spazzatura di qualcun’altro. Biologica, se capite cosa intendo. Da appallottolare ben-bene, onde trasportarla meglio, in una forma perfettamente sferoidale. È bello avere una missione, nella vita, ma… Si aspettava una collinetta marrone… E invece con l’avvicinarsi alla fonte di questo profumo, di fronte ai suoi occhi compositi si era palesato l’inverosimile: la torre bulbosa, con una porta a fessura, invitante come l’ingresso di un pascolo degli Dei. Che fare? Ci sono animali, a questo mondo, che di fronte a un dono troppo evidente tendono a sviluppare i primi accenni della diffidenza. Quel sentimento tipicamente umano, che tuttavia deriva dagli stessi propositi evolutivi di qualsivoglia altra creatura di questo ed eventuali altri pianeti. Il tipico coleottero, tuttavia, difficilmente risulta essere tanto sofisticato. Camminando con la sua andatura dondolante, percorrendo una linea diretta fino al centro dell’obiettivo, il nostro scarabeo ha così cominciato la sua scalata fino all’ingresso. E poi…
Non datelo subito per spacciato. No, non è un fungo. Si, si tratta di una pianta. Si, del tutto priva di foglie. No, non è carnivora. Davvero! Benché sia cronicamente incapace, di effettuare il processo di conversione di aria, luce ed acqua in sostanze nutritive ed ossigeno, e quindi già sospetta per definizione, la Hydnora africana è un’esistenza sostanzialmente innocua. Per chi CAMMINA, alla ricerca di cibo. Non tanto, invece, per le colleghe appartenenti al suo stesso regno vegetale. Stiamo parlando, per usare un termine immediatamente chiaro, della rara esistenza di una sorta di tubero parassita. Il cui aspetto, ecologia e ciclo vitale permettono di classificarlo, senza alcuna esitazione, tra le piante più strane del mondo. La distribuzione di questo vegetale è limitata, essenzialmente, a tre nazioni: Angola, Namibia e l’estremità meridionale del Sud Africa. Tutti luoghi in cui crescono particolari varietà di euforbia, quella vasta famiglia di alberi, arbusti, liane, cactiformi ed erbacee, in grado di sopravvivere ad un’ampia varietà di climi, dall’umido tropicale alle regioni circostanti il deserto. E sufficientemente forti da tollerare, nella maggior parte dei casi, il furto di nutrienti praticato da una tale spietata abusiva. Ora potreste pensare, magari, che quella sorta di antenna radar tripartita che ha attratto il nostro scarabeo, tramite l’esca dei suoi osmoferi, strutture biancastre in grado di imitare l’odore degli escrementi o della decomposizione (l’opinione varia) sia l’intero corpo della pianta. Comprensibile, ma non è così. La Hydnora sudafricana, così come se sue parenti più prossime in Madagascar, Kenya, Tanzania e persino Sud America, in una chiara dimostrazione dell’epocale deriva dei continenti, si sviluppa in realtà quasi completamente sottoterra. Mentre la sua unica parte in grado di ricevere la luce del Sole (non che ci faccia granché) è il vistoso fiore, alto all’incirca 10-15 cm. Vi ricorda niente? Siamo di fronte, essenzialmente, ad un essere non poi così diverso da un fungo. Ed in effetti esistono funghi parassiti, che traggono i propri nutrienti dalle radici delle sfortunate piante limitrofe, del tutto incapaci di reagire. Ma qui c’è una sottile differenza: il ruolo della parte per così dire, emersa. Perché per questa pianta, che ovviamente non produce alcun tipo di spore, l’unico scopo di dare nell’occhio è proprio quello. Attirare ed intrappolare l’insetto. Ma NON mangiarlo…

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Il miracolo del secchio che si svuota da solo

L’acqua. L’acqua non è priva di una propria imprescindibile volontà. Chiunque abbia mai ponderato il tracimare di una diga, il crollo degli argini, l’onda devastante di uno tsunami, non può che essere giunto alla conclusione che l’elemento più fondamentale per la vita, dopo averne ricevuto l’influenza fin dalla più antica genesi delle creature, ha finito per esserne influenzato in qualche modo, acquisendo non soltanto la forza necessaria per comportarsi nello stesso modo 9 volte su 10. Ma soprattutto per fare l’esatto opposto, quella fondamentale decima volta! Avevate mai pensato, ad esempio, che l’acqua può scorrere in salita? Proprio così, non c’è niente di particolarmente insolito: di certo avrete familiarità con il concetto del sifone. Non quello del WC a forma di U, che poi sostanzialmente sarebbe in effetti l’ESATTO opposto del sistema di sfruttamento del fenomeno sfruttato, fin dai tempi degli egizi, per le mansioni più diverse, tra cui irrigare i campi, svuotare un serbatoio, iniziare il processo di pulizia di un acquario, rubare la benzina direttamente dalle auto (che resta pur sempre un liquido) …Ovvero un ponte ad arco formato da un tubo flessibile, con un’estremità posta più in alto dell’altra, in grado di garantire il travaso del primo recipiente all’interno del secondo. Per lo meno fino al calo del pelo dell’acqua fino all’imboccatura di partenza. Un’attività funzionale allo scopo, che tuttavia presenta un significativo problema: l’avviamento. Perché possa verificarsi il fenomeno del sifone, infatti, occorre che il circuito su chiuda, per così dire, giungendo a riempire lo spazio di raccordo con un’unica massa indivisa della sostanza bersaglio, che unisca letteralmente i due ambienti coinvolti nella specifica missione. Il che costituisce, in effetti, un problema. Perché nessuna delle soluzioni è davvero soddisfacente: di certo non la prassi più utilizzata, che prevede di utilizzare la nostra stessa forza polmonare per succhiare il fluido all’interno del tubo, rischiando di ingurgitarne una sgradevole parte. Ne quella d’inserire l’interezza di quest’ultimo all’interno del recipiente, lasciare che si riempia e poi tapparne un’estremità, poco prima di spostarla all’interno del secchio sottostante. Per poi aprire il tappo, e dare inizio alla spontanea magia…. Ma pensate voi a voler praticare un simile metodo all’interno di uno spazio niente affatto raggiungibile, come il già accennato serbatoio di un veicolo a motore… Giammai, potrete riuscirci… Ecco a voi, dunque, un sistema migliore.
Ce lo mostrò Rob Morrison, uno dei conduttori del programma australiano degli anni ’70, ’80 e ’90 The Curiosity Show, costellato di una serie di esperimenti semplicemente riproducibili ed altre dimostrazioni scientifiche di chiaro interesse generale. In questo segmento durante il quale, a un’occhio inesperto, potrebbe sembrare che sia stata messa in pratica della vera e propria stregoneria. Dopo aver travasato dell’acqua con un sifone convenzionale, dunque, il divulgatore ne impiega uno decisamente più sottile, costituito da una semplice cannuccia ad angolo acuto di vetro, costruita per poggiare il suo gomito esattamente in corrispondenza del bordo del recipiente quadrangolare. Perché in quel caso, il salto necessario per far iniziare all’acqua lo spostamento è talmente insignificante, che il semplice gesto di tappare l’altro buco con un dito, poi permettere all’aria di entrare all’interno tutta d’un colpo, si dimostra sufficiente a far partire l’orchestra delle molecole in festa. E tutto questo potrebbe sembrare già piuttosto notevole, finché non si assiste al passaggio ancora ulteriore: una versione più sofisticata dello stesso concetto, con la forma di una M asimmetrica, che una volta inserita nell’acqua inizia IMMEDIATAMENTE a sifonare. Senza alcun intervento da parte degli umani. Davvero siamo di fronte, ad uno dei maggiori misteri del nostro tempo…

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La lunga notte del pappagallo vampiro

Ciascuna nazione tende a rappresentare sulle proprie banconote ciò di cui va maggiormente fiera, ed allo stesso modo in cui le lire facevano sfoggio dei ritratti di alcuni dei maggiori scienziati ed artisti italiani, così come l’euro mostra monumenti e punti di riferimento dell’Unione, il quarto paese per grandezza nel continente d’Oceania ha sempre avuto la tendenza a far figurare sopra i soldi i suoi animali più famosi. Tra cui l’imponente pappagallo kea (Nestor mirabilis, fino a 50 cm di lunghezza) che aveva figurato sul retro del biglietto da 10$ per l’intero periodo tra il 1967 e il 1992, come fulgido simbolo della Nuova Zelanda.  Strigopide decisamente insolito, perché vive preferibilmente sulla neve, unico nella sua famiglia. Giocherellone, curioso e qualche volta un po’ troppo espansivo, al punto da guadagnarsi l’appellativo prototipico di “cheeky” (sfacciato) essendo in grado di allietare ed infastidire da oltre un secolo i turisti che vengono per sciare ad Arthur’s Pass, presso le Alpi Meridionali dell’Isola del Sud. “Perché?” Potreste a questo punto chiedervi “Che cosa aveva fatto il poverino per meritarsi di essere sostituito in tale onore dal kārearea, il semplice falco neozelandese?” Il quale non è per dire, ma in fin dei conti non è altro che un semplice rapace di palude, incapace di elaborare un pensiero più complesso di: “Dov’è il topo? Dov’è il topo? Prendo il topo!” La risposta in effetti potrebbe stupirvi. E cambiare i vostri presupposti in merito a quello che ci si può aspettare da un pappagallo: uno di questi svolazzatori verde oliva, dal riconoscibile sotto-ala di un arancione acceso, era uscito ben dopo il tramonto del sole. Per uccidere di nuovo.
Sembra a tutti gli effetti una leggenda metropolitana, come quella, della vicina Australia, secondo cui dei giganteschi koala carnivori si nasconderebbero sulla cima dei più alti alberi di eucalipto, pronti a lanciarsi sulla vulnerabile ed impreparata testa dei passanti dall’aspetto più saporito ed invitante. Eppure, si tratta di una questione di vecchia data: fu per la prima volta attorno al 1860, che i pastori delle valli e colline verdi attorno alla città di Christchurch, rese celebri dalla saga cinematografica del Signore degli Anelli, iniziarono a trovare strani segni sulle loro pecore più preziose. Profonde ferite sanguinanti, sui fianchi ed in prossimità dei quarti posteriori, dove gli animali non avrebbero potuto procurarsele da soli neanche volendo. Alcuni esemplari più giovani, oppure vecchi e malati, iniziarono ad essere trovati morti, letteralmente dissanguati per l’effetto della spiacevole situazione continuativa nel tempo. Per anni si pensò a una nuova, sconosciuta malattia, finché il proprietario di una tenuta nei dintorni, James MacDonald, non ebbe modo di assistere all’episodio in prima persona: era il 1868. Quando nelle sue retine spalancate sarebbe rimasta impressa l’immagine del verde, assatanato pappagallo, che nel profondo della notte balzava sopra la pecora, ignorando i suoi belati terrorizzati e colpendola selvaggiamente, con il grosso e acuminato becco ricurvo, di un simbolico colore nero. Nulla sarebbe stato più lo stesso. Nel 1889 il naturalista Alfred Wallace, nel suo libro sull’evoluzione intitolato Darwinism, citò l’esempio del kea in merito all’adattamento comportamentale, per cui una specie animale primariamente vegetariana, a seguito di un cambiamento della situazione ambientale, può scoprire ed esplorare nuove fonti di cibo. Ciononostante, per oltre un secolo furono in molti a non credere possibile che un simile uccello, tutto fuorché minaccioso, potesse addirittura uccidere un mammifero quadrupede di tali dimensioni. Finché nel 1993, all’interno di un documentario della NHNZ, non vennero incluse le riprese di prima mano di uno di questi attacchi, effettuate da un anonimo testimone di tanta animalesca brutalità.
A questo punto, la Nuova Zelanda si trovò di fronte ad un dilemma: rinnegare il maligno torturatore, oppure continuare a ricordarlo unicamente per i piccoli fastidi, il modo in cui era solito, durante le sue scorribande diurne, rendersi tutto fuorché benvoluto, benché sempre in maniera ragionevolmente simpatica, dovuta al suo desiderio di provare tutto e tutti, comprendere la vera ragione delle cose… Certo che alla fine, per quanto egli possa esser stato un saggio e ferreo governante, ce l’avreste mai visto il conte Vlad III di Valacchia sopra i soldi della Romania?

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Lo strano fascino dei toponimi spropositati

La strada di ciottoli verdi sembrava perdersi all’orizzonte, mostrando la vera distanza percorsa fino ad allora “Sei giunta assai lontano dal Galles, mia piccola Órfhlaith” disse lo spaventapasseri, mentre i due uscivano dall’alto palazzo del druido di Ohz. “Come pensi di tornare a casa?” L’uomo di latta camminava pensierosamente poco dietro al duo, finalmente cosciente dei sentimenti umani, mentre Bearnard l’orso, ansioso di mettere alla prova il ritrovato coraggio, si era già avviato per la sua strada, alla ricerca di un campo di battaglia al di la della grande Barriera. “Compagno di tante avventure, non devi preoccuparti. Sappi che la Morgen dell’Est, nel momento in cui è crollata sotto il peso del Dolmen della Collina Solitaria, grazie all’aiuto vostro e degli altri eroi, ha dimenticato di far seppellire anche i suoi piedi, ai quali si trovavano i mitici stivali di Víðarr. Ora indovina cosa nascondo nella mia sacca da viaggio?” Con un gran sferragliare, il loro amico si fermo di scatto, chiedendo d’istinto: “Un altro sacchetto d’uva spina?” Spaventapasseri si portò la mano sul volto, meditando sul fatto che dopo tutto, forse, non sarebbe stato l’unico ad aver avuto bisogno di un nuovo cervello. “Oh, oh, oh, mio guardiano dalla corazza istoriata. Sei sempre il solito. Ecco, amici, osservate!” Le calzature leggendarie rubate al popolo dei pirati di Mare, di un pacchiano color arancione, che si diceva potessero condurre gli eroi nel Valhalla. “…O dovunque essi vogliano, come mi è stato spiegato dal druido in persona. Per tornare al punto di partenza, dunque, non dovrò far altro che battere per tre volte gli speroni, mentre pronuncio, prima che l’eco si perda nel vento, il nome di casa mia.” Così detto, senza perdersi in chiacchiere inutili ed ulteriori, la principessa iniziò il rituale. Le nubi parvero convergere sulla loro posizione. Un corvo distante, gracchiando d’aspettativa, si alzò in volo per osservare. Órfhlaith fece una piroetta e diede il primo dei tre colpi THUMP: Llan-vire-pooll-guin… THUMP: …gill-go-ger-u-queern… THUMP …drob-ooll-llandus… Una pausa per riprendere fiato… ilio-gogo-goch… “Gogogoch?” Fecero eco i due testimoni, con gli occhi spalancati per lo stupore. Passarono uno, due, tre secondi. “Ha detto prima che l’eco…. Beh, credo che abbiamo un problema” Fece allora spaventapasseri, sforzandosi di soffocare una sghemba risata.
Se questa è una fiaba lievemente adattata alle circostanze, tuttavia, non significa che in essa manchi una significativa componente di verità. Per scoprire quale essa sia, basterà percorrere il vostro ponte preferito tra due, ovvero quello sospeso sopra lo stretto di Menai o il più moderno Britannia Bridge, per lasciare la terra dei Draghi gallesi sull’isola principale della Gran Bretagna, e transitare attraverso le nebbie della fredda isola di Anglesey. Scorgendo, chiaramente infisso nel terreno ai margini del sentiero asfaltato, quello che potrebbe essere uno dei più grandi cartelli stradali d’Europa. “Benvenuti presso la municipalità di “Llanvirepoollguin…” E via dicendo, per l’estensione di ben 58 lettere dell’alfabeto latino (benché considerata la lingua locale, esse vadano ridotte a “soli” 51 fonemi) Una roba da nulla, una vera quisquiglia da pronunciare *a patto di esservi nati o averci passato una parte significativa della propria gioventù, come l’attrice di Hollwood, Naomi Watts. Un luogo diventato particolarmente famoso quando, a settembre del 2015, il meteorologo della CNN Liam Dutton ebbe l’iniziativa, e la capacità, di pronunciarlo senza il benché minimo errore in diretta tv: Llanfair­pwllgwyngyll­gogery­chwyrn­drobwll­llan­tysilio­gogo­goch, in tutto il suo strabiliante splendore, in grado di coprire da un estremo all’altro l’intera cartina proiettata alle sue spalle, tra lo stupore ed il reverenziale silenzio di ogni singola persona presente in studio. Ed a quel punto, era fatta. Tutti volevano saperne di più….
La realtà in merito all’insolita questione, in effetti, è che non siamo di fronte ad un nome particolarmente antico di qualche misteriosa lingua di tipo agglutinante, alla maniera in cui succede talvolta per i toponimi nord-americani risalenti all’epoca delle Nazioni Native (i quali, tra l’altro, non arrivano a una simile estrema profusione) bensì a una semplice trovata pubblicitaria, risalente alla metà del XIX secolo, quando la popolazione locale, su iniziativa di un sindaco che possiamo presumere particolarmente intraprendente, accettò l’insolita novità pur di comparire sulle mappe ed attrarre qualche turista di passaggio, aiutando l’economia. Prima di allora, in effetti, le cronache non sembrano riportare alcuno specifico nome per la comunità, fatta appartenere convenzionalmente all’antico feudo del marchese di Anglesey. Finché nell’ultima manciata di generazioni, forse anche in funzione della ritrovata celebrità, la popolazione non è aumentata in maniera esponenziale, raggiungendo la cifra attuale di di circa 3.000 persone. Tra le quali una percentuale di oltre il 70%, fatto particolarmente significativo, si dichiara ancora una parlante corrente della desueta lingua gaelica, che gli esperti ritengono prossima alla scomparsa dall’utilizzo attivo. E voi credete forse, che tutto questo sia un caso?

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