La chiave interpretativa, dopo tutto, potevamo anche elaborarla in autonomia: che la Disney, azienda da sempre specializzata in topi antropomorfi, anatre starnazzanti e cani bipedi che guidano (male) l’automobile, abbia utilizzato le proprie corpose risorse, almeno in parte, nel campo a volte inquietante dell’ingegneria genetica. Un impegno tutt’altro che nascosto da un velo di segretezza, e si potrebbe anche restare sorpresi, quando ci si rende conto che l’unica cosa che occorre fare, per prendere atto personalmente della questione, è recarsi presso Epcot, l’utopica Città del Futuro teorizzata personalmente dallo stesso Walt. Sostanzialmente rappresentante, fin dalle origini, un’estensione più educativa del Regno Magico che vi confina: cupole geodetiche invece che castelli fatati, monorotaie sopraelevate, navi spaziali ed inevitabilmente, grosse serre dove mettere in mostra processi come l’idroponica, l’aeroponica, metodi d’irrigazione e distribuzione integrata dei pesticidi. Un potenziale baluardo finanziato coi dollari del capitalismo, come la base operativa di Tony Stark-alias-Iron Man, dedicato a combattere, almeno con le apparenze, il più grande dei mali: la fame del mondo. Un fine che non può essere perseguito unicamente a parole. Ecco dunque, il più straordinario dei fatti: limoni giganti, grossi come cocomeri bitorzoluti. Limoni che sembrano usciti direttamente dalla Preistoria. Che comparivano, quasi per caso, in un vecchio video (2011) creato dal colosso dell’entertainment e poi pubblicato sul proprio portale di aggiornamenti, senza tuttavia preoccuparsi d’inserirlo nell’elenco pubblico di YouTube (vedi sotto). Così eccolo, quasi sette anni dopo, ricomparire su Reddit e la blogosfera, senza un accompagnamento nozionistico che possa servire effettivamente a dissipare, ed in qualche maniera corroborare il mistero. In esso compare Gary, una gioviale e un po’ forzata figura di addetto marketing, che si reca ad intervistare il “Principe dei Prodotti Agricoli” Les, apparentemente il responsabile, nonché maestro dei giochi, all’interno del padiglione botanico The Land. Per non parlare della singola foto, pubblicata a novembre dello stesso anno, in cui la curatrice di nome Dani tiene in mano una versione ancor più massiccia del globo giallognolo in questione, passato nel frattempo da 4 a 9 Kg. Possibile che tutto questo sia soltanto un prodotto della natura?
L’effettiva provenienza dell’empio agrume, ufficialmente, non viene tutt’ora rivelata. La Disney, azienda da sempre attenta a preservare il suo patrimonio intellettuale, ha probabilmente depositato nel frattempo un brevetto, e non vuole privarsi completamente dell’opportunità di trarre da questa importante invenzione, prima o poi, un significativo guadagno. Ma c’è tuttavia una sola cosa, in effetti, che può nascondersi sotto l’oscura scorza: nient’altro che il limone di Ponderosa, scientificamente chiamato Citrus limon x medica. La cui origine è rivelato, come spesso succede nella botanica, nel formato stesso del nome: Citrus lemon, la più riconoscibile delle cose aspre e gialle, (moltiplicato) per una delle quattro specie ancestrali da cui derivano tutti gli agrumi moderni: Citrus medica, comunemente detto il cedro. Una commistione derivata originariamente, secondo la più accreditata teoria, da un’impollinazione accidentale tra le due specie verificatosi nel 1887 presso la fattoria di George Bowman ad Hagerstown, nel Maryland, usando frutta proveniente proprio dall’Italia. L’importanza del cedro nella tradizione calabrese è del resto assai nota, fin dall’epoca dei Romani, che usavano definirlo mela frigia, assieme agli altri strani frutti provenienti dal commercio coi territori dell’Asia Meridionale, allora usati per tutto, tranne l’ambito alimentare. Bensì come repellenti per gli insetti, cura per l’alito cattivo, antidoto per la nausea e vari tipi di veleni; da cui il nome latino, per l’appunto di C. medica. Ma è il secondo ingrediente del Ponderosa, in effetti, a poter suscitare il maggior grado di sorpresa: il limone comune. Lo sapevate che proprio il prototipo della sua intera categoria, l’iconico ovoide paglierino dal caratteristico gusto astringente, non ha proprio alcunché di naturale? Derivando anche lui da un antico incrocio, si ritiene tra il pomelo ed il cedro. Le uniche “specie ancestrali” assieme al mandarino (Citrus reticulata) e la papeda asiatica, il più antico di tutti gli agrumi. In quest’ottica non c’è poi niente di così speciale ed unico, nell’impresa portata a termine dalla casa di Mickey Mouse. Tranne il risultato…
biologia
Il veleno che ferma lo scorrimento del sangue umano
Nel celebre racconto di Edgar Allan Poe “Il pozzo e il pendolo”, un prigioniero dal crimine misterioso viene sottoposto a una particolare forma di tortura dall’Inquisizione Spagnola: chiuso in una stanza completamente buia, legato ad un tavolo di legno, si ritrova a percepire il movimento di una lama oscillante, affilata come un rasoio, che ad ogni passaggio si avvicina al suo corpo, finché ad un certo punto, giungerà per ucciderlo molto, molto lentamente. Quando per una casistica inaspettata, alcuni ratti non rosicchiano le corde che lo tenevano intrappolato, permettendogli di cercare rifugio verso i margini della sua cella. Ma è allora che le pareti diventano incandescenti, ed iniziano a stringersi, costringendolo verso un buco profondissimo nel pavimento che all’interno della sua mente, finirà per corrispondere al più profondo abisso dell’animo umano. L’evoluzione di determinati animali velenosi, in un certo senso, è come la cella orribile immaginata dallo scrittore americano: gradualmente, la selezione naturale dona al serpente uno strumento d’offesa che gli permetta di cacciare, pur essendo un animale relativamente piccolo e privo di zampe, che dispone di un singolo attacco per catturare la sua preda. È questo il momento in cui il pendolo tagliente raggiunge l’estremità di Levante, caricandosi per effettuare la sua prima oscillazione. Dopo che un numero sufficiente di esemplari/preda viene quindi avvelenato e fagocitato, attraverso le generazioni viene tra loro selezionato un gene che permette alle vittime, gradualmente, di sviluppare l’immunità. In questo momento il pendolo si trova a Ponente. Ma è allora che, senza falla, di nuovo i serpenti trovano un modo per rendere il loro veleno ancor più letale, dando inizio ad un ulteriore, e più basso passaggio della lama torturatrice. E così via… Il pozzo all’interno del quale cadere, nel frattempo, rappresenta l’occasione in cui un essere umano dovesse venire morso, per autodifesa o una semplice sfortunata coincidenza. Possibile che a quel punto, un angelo giunga a salvarlo?
Per la legge infinita della Natura, è letteralmente impossibile che un qualcosa resti uguale. Così anche i serpenti, secolo dopo millennio, possono soltanto adeguarsi al moto del pendolo, diventando sempre più letali. O sempre meno. Ma nel primo caso, la questione è più complicata che la mera elaborazione di “un veleno peggiore”. Poiché una sostanza creata per uccidere qualsivoglia forma di vita, è inerentemente affine all’attacco di un hacker: per quanto esso aumenti il grado di sofisticazione del suo cavallo di Troia, esso non potrà passare per sempre dalla stessa backdoor. Così avviene la diversificazione, essenzialmente attraverso tre vie distinte. Nel primo caso (citotossine) il serpente attacca le membrane delle cellule stesse, sostanzialmente i mattoni costitutivi della vita stessa, iniziando un qualcosa di affine al processo di digestione ancor prima di fagocitare la preda. Si tratta della forma di veleno più primitiva, creata a partire dalla saliva e generalmente associata a zanne corte ed arretrate nella bocca dell’animale. Più pericolosa è la seconda alternativa (neurotossine) che attacca i nervi causando una paralisi immediata, generalmente seguìta dalla morte per soffocamento del soggetto colpito. Alcuni dei serpenti più pericolosi del mondo sono dotati di questo strumento d’offesa. Oggi siamo qui a parlare, tuttavia, di un’alternativa più rara, e per certi versi ancora più terrificante: l’emotossina, ovvero il veleno che attacca direttamente il sangue. Periodicamente, su Internet, compaiono questi video in cui una figura di esperto preleva una certa quantità del suo stesso sangue, lo versa all’interno di un recipiente e vi aggiunge una singola goccia di veleno, immancabilmente appartenente ad un qualche spietato essere strisciante. E ed è allora, nel giro di meno che un minuto, che la sostanza rossa perde quasi completamente la sua forma liquida, trasformandosi in un ammasso gelatinoso: il sangue, in parole povere, si è coagulato. Ve lo immaginate l’effetto di un simile evento all’interno dell’organismo… Quasi istantaneamente, si formerà un trombo, bloccando il regolare funzionamento della circolazione nell’estremità colpita. Quel che è peggio, tuttavia, è il suo potenziale trasformarsi in embolo, per viaggiare lungo le autostrade venose fino ad un organo importante, come il cuore, il cervello o i polmoni. Ed a quel punto, quanto credete che possa restarvi da vivere, anche ricevendo assistenza medica pressoché immediata?
Ma quel che è peggio è che tra l’altro, un singolo serpente non ha bisogno di scegliere soltanto una delle tossine possibili, a discapito delle altre. È anzi piuttosto diffuso il caso di specie che dispongono di due, o tutti e tre i tipi allo stesso tempo, causando uno shock su più fronti che nel giro di letterali minuti, non lasciano alcuna via di scampo all’organismo colpito…
La strana nascita del pollo dei vulcani
Un litro d’acqua gassata all’interno di una bottiglia da mezzo litro, questo è la Terra. Pianeta i cui stessi sconvolgimenti, attraverso gli eoni, hanno posto le basi per la nascita della vita e la deriva dei continenti. Che cosa saremmo, oggi, se tutta l’energia a nostra disposizione dovesse provenire dal Sole e dalle maree? Nessun fuoco interiore, niente venti, né terremoti. La vita animale, tra cui quella umana, non è che un aspetto della sua controparte minerale, il residuo di quel grande boato primordiale che si oppone naturalmente al processo dell’entropia. Vi sono creature che lo comprendono. Vi sono esseri che devono la loro stessa sopravvivenza a questo particolare barlume di saggezza. E qualsiasi simile recipiente, ciò è inevitabile, presenta un qualche tipo di valvola di sfogo. Normalmente, le chiamiamo “tappi” ma i geografi preferiscono definirli Islanda, Etiopia, Filippine, Giappone… Indonesia, in particolare presso l’enorme isola di Sulawesi. Una confluenza serpentiforme di territori abitabili, fatta di quattro penisole e diversi centri abitati e costellata di vulcani. Ma forse, descrivere questo luogo a partire dalle sue zone urbane sarebbe alquanto riduttivo. Poiché è proprio dalla vasta giungla centrale, che emergono alcuni dei più strabilianti capolavori dell’Evoluzione.
Può capitare di vederlo succedere in qualsiasi periodo dell’anno, come è consueto negli ambiti climatici tropicali: uno stormo, se così scegliamo di definirlo, composta da uccelli lunghi all’incirca 60 cm ciascuno, il dorso nero come il carbone ed il ventre rosa, color di una pesca matura. Con gli occhi cerchiati di giallo e qualcosa di strano sopra la testa: ciò che in gergo aviario incontra il nome di casco, ovvero una struttura semi-solida e bulbosa, simile a un elmetto da football. Ma che è stato anche descritto come una zecca gonfiatasi fino alla dimensione di una noce. Ed è forse proprio questo elemento a donare in massima parte l’aspetto marcatamente alieno dell’animale, un’impressione ulteriormente supportata dagli strani versi che emette, simili a un stridulo tacchino. Per non parlare del suo impossibile comportamento. Una volta raggiunta la spiaggia antistante la propria foresta, infatti, il gruppo di Macrocephalon male (Comunemente detti maleo) inizia immediatamente a scavare, facendo uso delle potenti e spesse zampe ricevute in dono dalla natura. Il proseguire di questo episodio, se non vogliamo definirla una vera e propria scena, progredisce quindi verso il regno dell’impossibile, con le diverse coppie di maschio e femmina che collaborano nel sollevare un impressionante nube di polvere, mentre manciate di sabbia vengono gettate in ogni direzione, incluse le buche dei propri colleghi. Di tanto in tanto, gli uccelli immergono il becco nella sabbia, nell’apparente tentativo di sentirne il sapore. In realt, ne mettono alla prova la temperatura. Nasce qualche lite, gli spazi vengono definiti, il vortice del Caos impera in un favoloso congiungimento di turbinii. Una volta tornata la calma, le femmine si accovacciano sopra i rispettivi buchi e depongono un singolo uovo. Enorme ed oblungo, grande fino a cinque volte quello di una gallina. A questo punto lo ricoprono completamente e con apparente soddisfazione, spiccano il volo per fare ritorno ai boscosi territori di provenienza.
Se ci fossimo trovati in un qualsiasi altro paese, probabilmente, tutto questo non avrebbe portato ad alcunché di fecondo. Privo di calore sufficiente a raggiungere la schiusa, il pulcino sarebbe morto in totale solitudine e oscurità, senza mai sperimentare l’ebbrezza del sovrastante cielo. Ma poiché il suolo di Sulawesi, come per l’appunto dicevamo, è connesso ai condotti che si diramano dal grande mare di magma nelle profondità del mondo, e grazie all’attenzione prestata dai suoi genitori, il suo pertugio irraggiungibile dai predatori potrà vantare una temperatura che si aggira attorno allo sweet spot dei 33 gradi netti. Sufficiente affinché, dopo il trascorrere di 60-90 giorni, il neonato possa rompere il guscio, mettendo piede in quella che potrebbe assai facilmente costituire la sua stessa tomba. Il fatto, vedete, è che il piccolo di maleo può facilmente trovarsi anche ad un metro di profondità. Ragione per cui è biologicamente concepito, fin dal primissimo attimo di libertà, per affrontare le imprese e le fatiche di un esemplare adulto, fatte le debite proporzioni. Ed a quel punto, con rapida rassegnazione, non potrà far altro che mettersi a scavare.
La letale fiocina della conchiglia a cono
Ci sono molti tipi di morte, ad attendere il bagnante sfortunato che decida un giorno di lasciare la prudenza a riva. Squali, grouper, barracuda. Meduse, murene, razze con il rostro penetrante. Oppure perché no, semplicemente la corrente Atlantica, che in un momento di distrazione può decidere di trasportarti in mezzo ai flutti, lontano da un qualsiasi proposito di salvataggio. Ma c’è un solo caso in cui la triste dipartita, come fonte, possa avere la spontanea ricerca e il desiderio di raccogliere qualcosa di bello. Voglio dire, per la maggior parte del tempo, neppure riuscirai a vederla! Essa risiede sotto la sabbia, con soltanto il suo sifone per succhiare l’acqua e trarne ossigeno, mentre medita sulla natura del suo prossimo assassinio col veleno biologico più letale del pianeta Terra. Ma può succedere talvolta, soprattutto sulle spiagge dei diversi mari tropicali (benché non sia inaudito neanche nel Mediterraneo nostrano) che un’improvvisa ondata di marea la prenda e la sollevi, trasportandola gioiosamente fin laggiù, nel bagnasciuga. Ed allora, si trasforma in un pericolo assai reale: poiché l’intera famiglia delle Conidae, più comunemente dette conchiglie a cono, presenta alcuni dei gusci integrati più esteticamente appaganti, geometricamente simmetrici e persino variopinti. Peccato che in determinati ambienti, siano dette le conchiglie [della] sigaretta, in quanto è noto come la puntura del loro seducente aculeo, nascosto all’interno di una pratica proboscide direzionabile sulla parte frontale dell’animale, lasci alla vittima un tempo appena sufficiente per fumarsi l’ultima della propria infelice esistenza. Prima che sopraggiunga la paralisi, causata dall’attacco di oltre un centinaio di diverse tossine a base di peptidi, capaci di annullare totalmente gli impulsi di controllo e comunicazione del sistema nervoso umano, con conseguente arresto cardiaco e/o soffocamento.
Ed è profondamente diabolico, questo mollusco, perché sembra sapere di possedere la più vasta selezione di veleni dell’ambiente subacqueo, e li miscela attentamente in base alla specifica specie di appartenenza, al bersaglio della sua furia e il vezzo del momento, affinché ci sia del tutto impossibile elaborare un possibile siero. Sostanzialmente, nel tentativo di soccorrere qualcuno colpito dalla sua arma formidabile e letale, tutto quello che resta da fare è tenerlo sollevato, liberargli le vie aeree e sperare che la crisi passi prima del sopraggiungere dell’ultimo respiro. Esistono almeno 30 casi documentati di decessi dovuti alla puntura di una di queste conchiglie, quasi tutti connessi a una specie in particolare: il Conus geographus dell’Oceano Pacifico (geografico perché la sua livrea assomiglia ad una mappa del mondo) piuttosto diffuso sulle assolate coste delle Filippine e dell’Australia. Lungo in media 15 cm, esso costituisce una delle conchiglie a cono più relativamente grandi all’interno della loro categoria, come del resto le altre che mangiano pesce e sono in grado di nuocere gravemente all’uomo. Esiste nel frattempo una seconda varietà, anch’essa carnivora ma evolutasi principalmente per nutrirsi di molluschi e vermi dei fondali, la cui puntura non è generalmente più grave di quella di una vespa. Ed è proprio questo bisogno biologico di nutrirsi di carne, per un animale particolarmente statico come un mollusco dotato di conchiglia, ad aver portato nel tempo allo sviluppo di un’arma tanto micidiale. Nient’altro che, in effetti, una versione modificata della radula, il tipico dente usato dalle lumache di mare per raschiare le alghe dagli scogli, però qui spostato tra possenti muscoli all’interno di un vero e proprio tubo, che potrebbe costituire in senso lato la sua lingua estraibile usata per colpire, e quindi trarre a se la preda. Poiché il dente in questione assomiglia, a tutti gli effetti, all’arpione di una fiocina umana, con tanto di barbiglio ad uncino al fine di restare infisso sotto le scaglie o la pelle del bersaglio di volta in volta selezionato. Ma è pure completamente cavo, e prodotto all’interno di un bulbo velenifero dotato di possente struttura muscolare, la quale una volta individuata la preda (o il predatore) lo proietta innanzi a una velocità di oltre 100 metri al secondo. A questo punto il dente non è più connesso fisicamente al mollusco, ma soltanto tenuto stretto per la sua parte lunga e piatta dalla struttura della proboscide, che ritornando ordinatamente all’interno della bocca, permetterà a quest’ultima di spalancarsi ed iniziare la delicata procedura d’inglobazione.