Il primo bagno del gufetto

Kuu-chan

Nessuno ha mai addomesticato degli uccelli come questi. Attenti percorritori delle notti americane, sempre in cerca di una preda, i gufi della specie megascops kennicottii hanno lo spirito libero tipico di ogni rapace. Becchi ricurvi. Zampe prensili con unghie acuminate, per ghermire meglio topi, insetti o mani umane. E il temperamento di un Gremlin che abbia mangiato appena dopo mezzanotte. Persino il giapponese anonimo, proprietario del canale Kuu owl, nonché dell’omonima creatura, la definisce a malincuore “una bimba un po’ cattiva”. Che però “Si sta abituando” …Poco a poco, senza troppi rischi per il suo padrone. Questo, in effetti, è il notevole vantaggio: come gli altri appartenenti della sua famiglia, la graziosa Kuu, anche una volta adulta, misurerà all’incirca 20 cm d’altezza.  Forse appena un paio in più. È una strigide mignon, per così dire, fin da quando uscì dall’uovo, lo scorso aprile (questo video risale alla fine di settembre). Ma che la piccola screech owl sia poco comprensiva dell’ambiente umano non importa, quando sa apprezzare così a fondo le comodità. Messa nella ciotola, come un cagnolino e come un gatto, la rapace si abbandona al gusto di lavarsi, dimentica dei boschi e delle scorrerie. A differenza degli altri animali domestici, però, invece che restringersi per l’acqua, un’immagine ridicola, s’ingrossa sempre più, aumentando conseguentemente il fascino. Le sue piume gonfie diventano un cappotto, una palla soffice da accarezzare. Con quegli occhi giganti, ricorda vagamente il pupazzetto Furby. Non fa venire voglia, anche a voi, di portare a casa un gufo? Ecco, non fatelo.
Famoso è il caso dei barbagianni e degli altri titonidi d’Inghilterra, adottati sull’onda del successo di Harry Potter, ben presto tristemente abbandonati. Un gufo, qualunque sia la provenienza, non è certo come un pappagallo. Tanto per cominciare, mangia solo carne; proprio come avviene in casa di un serpente, Kuu-chan si è probabilmente vista riservare dello spazio in frigo, uno scomparto pieno di roditori surgelati. Ingoiandoli interi, ma digerendoli soltanto in parte, rigurgiterà in giro peli ed ossa, amalgamati in palle appiccicose. La cosa potrebbe anche darvi fastidio, per dire.

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E allora costruiremo spara-elastici più grandi

Oggcraft

Giacche blu e ribelli confederati, finanziati dal cotone, che si affrontarono sui cambi di battaglia della guerra civile americana. Avevano, costoro, una fondamentale divergenza d’opinione: che gli uomini potessero venire usati come semplici strumenti, oppure no. Lo disse il presidente Abramo Lincoln, causa scatenante, suo malgrado, di tanti micidiali scambi di pareri: “La miglior cosa del futuro è che arriva un giorno alla volta” Tranne quando guardi dalla parte fiammeggiante di un cannone come questo, la ricostruzione giocattolo della prima ammazzasette della storia. Che di canne non ne aveva una, né due, ma fino a dieci, sempre pronte per sparare tutte assieme, o in rapida sequenza. Lo strumento più efficace dell’Unione. Ecco, come cadono quei piccoli legnetti, gettati a terra dalla forza degli elastici, così morivano i soldati, sacrificabili sudisti. Anno domini: 1861. Immaginatevi dunque l’improvvisa comprensione, da parte di qualcuno, della grave verità, eternamente (troppo) poco chiara: che se ti rechi col fucile, con la baionetta innanzi al tuo nemico personale, o a quello del tuo presidente, alla fine non sei più “tu” la cosa più importante, ma l’arma. I gladii che conquistarono la Gallia, gli archi lunghi presso Hastings… I trabucchi di Costantinopoli e le molte dozzine di altre cose, avevano sempre parecchia paia di piedi e di stivali, ma pochissimo cervello. C’era un surplus percepito di preziose vite umane, si scialacquava senza metodo. Questo, pressappoco, stava pensando Richard Gatling, accarezzandosi la folta barba bianca, nella sua officina personale, quando finì di costruire il suo prototipo più rinomato. Soltanto lui poteva dimostrare: “L’inutilità dei grandi eserciti”. Come? Beh, in pratica, con dieci fucili legati tutti assieme. La temibile mitragliatrice a manovella, dall’elevato rateo di proiettili, esplosi in rapida sequenza e in grande quantità, soprattutto rispetto alle persone che dovessero spararli. Solo due o tre individui, per portarla in posizione, e fino a 400-500 colpi per minuto, che scaturivano dalle sue bocche.
La battaglia perfetta non è quella in cui si spara per uccidere, ma per inibire gli obiettivi. Questo era, e tale resta, lo scopo della mitragliatrice: il cosiddetto fuoco di soppressione, ovvero lo strumento della somma dissuasione. Un abile comandante, schierate le sue Gatling, come avvenne a Petersburg, le avrebbe usate per bloccare l’avanzata del nemico. Tenendolo occupato, sarebbe quindi giunto alle sue spalle, per coglierlo di sorpresa e costringerlo ad arrendersi. Facendo molti meno morti… Probabilmente. Più o meno. Funzionava benissimo, questa Gatling, contro chi la conosceva. Guadagnò una fosca fama. Vinse la guerra civile, liberò gli schiavi, venne portata in giro per il mondo, insieme alle più varie ambizioni imperialiste. Il problema, semmai, era di chi ancora non la conosceva. E ci andava incontro con la sciabola. O il cavallo.

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La battaglia ninja degli alunni sui pali

Bo Taoshi

Banchi di ferro, lavagne d’acciaio, demoni dietro le cattedre in fiamme. Soltanto sul finire dell’ora di educazione fisica, lo dicono gli astri, ne uccide di più la matita – gigante – che una mera katana. Senza la grafite dentro, per scrivere, ma con una persona sopra, per vincere. Lo chiamano il ninja, ed è uno, di due, ciascuno con schiera di armigeri al seguito. In controluce già si scorge il nemico. Ci sono 75 guerrieri per parte. Soltanto lui resterà, alla fine, sopra quegli altri. Altrimenti, dove lo metti l’onore del clan? Ecco lo sparo del VIA, signori, ammucchiatevi! Ganbare!
Nell’immaginario fantastico del Giappone post-moderno, fatto di manga, cartoni e romanzi, la scuola diventa il più variegato dei campi di battaglia. Spopolano le figure di giovani eroi, prescelti dal destino, evocatori di mostri tascabili o di enormi robot; fanciulle depositarie di antiche tradizioni marziali, vendicatrici di torti subiti; samurai viaggiati nel tempo, figli segreti di antichi guerrieri, con pagelle tutt’altro che immacolate. Non importa quanto la narrazione debba discostarsi dal mondo reale, se siano bizzarri quei suoi presupposti, i viaggi nel tempo, le invasioni aliene…L’analogia di successo è sempre quella: si studia, come si va in guerra. Contro le ingiustizie, verso un bene superiore, a beneficio della propria famiglia e perché no, pure del mondo intero. È un’iconografia ricorrente, che allude a un concetto molto importante per quella cultura dell’Estremo Oriente: la meritocrazia di Confucio. Per questo, nella scena caotica di una partita di Bo-Taoshi (棒倒し) lo sport del “palo che cade”, non si dovrebbe vedere un’incitazione accademica alla violenza. Qui si tratta, piuttosto, di cementare lo spirito di corpo, creare legami tra giovani che durino a lungo. Un po’ come nelle partite di football dei college statunitensi. Con qualche concessione in meno alle implicazioni commerciali ed al merchandising, come, del resto, pure alla sicurezza.
La più famosa di queste tenzoni si svolge, ogni anno, per l’arrivo dei nuovi cadetti dell’NDA, l’Accademia Nazionale di Difesa del Giappone. Loro è l’onore di aprire le danze. Ci sono due squadre, per un totale di 150 persone. Ciascuna deve difendere un palo, facendo cadere quello dei propri rivali. Sopra ci sono i due leader, che inclinandosi prima da una parte, poi dall’altra, dovrebbero contrastare la spinta del fiume nemico. Calci, pugni, spinte sono legali. Il combattimento individuale, invece, viene scoraggiato. Tutti lavorano, combattendo, per l’onorevole collettività.

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Nell’arena del monaco meccanico

David Bynoe

Quattro torri, con altrettanti cavi, tengono sospesa una testina di metallo. Fluttuando da un lato all’altro del quadrato, questa fa comparire figure geometriche nella sabbia. È la macchina computerizzata costruita da David Bynoe, per un progetto del Telus Spark Science Centre di Calgary, nello stato americano dell’Alberta. Costruendo quei mandala insostanziali, l’interessante invenzione contribuirà, per mesi ad anni, a suscitare nei visitatori un senso florido della curiosità. Cerchi concentrici, quadrati, modelli bidimensionali dell’atomo di Bohr, sequenze molteplici e complesse… L’atto creativo trasformerà quei granuli monocromatici in strumenti di bassorilievi tridimensionali, attraverso la semplice pressione ripetuta di un pulsante. Niente più rastrelli, per cortili giapponesi di eleganti templi Zen. Solo se qualche ragazzo, studiando questo meccanismo, sceglierà di prenderlo a modello, imboccando l’ardua strada dell’ingegneria e della programmazione, potremo dirci veramente soddisfatti. Tutti gli obiettivi sono virtualmente perseguibili. Persino l’Illuminazione.
La mente è alla continua ricerca delle immagini più affascinanti. E c’è un’imprescindibile dualismo, nella tendenza all’astrazione pura, che può portare ad utili fraintendimenti; proprio così, rinasce quest’oggi il giardino delle rocce o karesansui (acqua, piante, pietre) fra le più celebri metafore culturali dell’Estremo Oriente. Un tempo strumento di prestigio, l’ornamento per le vaste residenze dei guerrieri. Poi presunto ausilio alla meditazione, centro disadorno dei più sacri luoghi. E infine, inevitabilmente, gadget.
Trascinato ad Occidente assieme ad altre schegge prive di contesto, negli anni del benessere economico, quando le aziende inseguivano il mito dell’efficace industria giapponese, quello stile paesaggistico è spesso ricomparso negli uffici e sulle scrivanie, attraverso la sua accezione più ridotta: il bonseki. Magari con l’aggiunta di lucette a LED e una piccola fontana. Anche il Natale vuole la sua parte.

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